LE BUGIE HANNO IL CERVELLO PICCOLO


L’antimateria? Sì, Antonino Zichichi ha scoperto l’antimateria. Non lo sapevi? Neanch’io.
Stranamente nella lista dei Nobel per la fisica non c’è nessun Zichichi, e nemmeno in quelli per la chimica, la letteratura, la pace e il giardinaggio. Com’è possibile?
Se si guarda la voce “antimatter” di Wikipedia, Zichichi non è nemmeno menzionato. Incredibile, se lo sono dimenticato. C’è scritto invece che l’esistenza dell’antimateria è stata prevista da Paul Dirac nel 1928 e che Carl D. Anderson l’ha scoperta nel 1932, quando ha osservato la presenza di positroni nei raggi cosmici. Di Zichichi niente, neanche una parola. Fra l’altro all’epoca aveva tre anni. Che abbia scoperto l’antimateria nell’utero di sua madre? M’immagino il titolo di Repubblica: “Fisico italiano non ancora nato scopre la presenza di antimateria nel corpo umano: gli anticorpi”. Può essere. Eppure neanche la voce “antibody” menziona Zichichi.
Invece la voce “antimateria” della Wikipedia italiana dice questo: “Nel 1965 il gruppo di ricerca condotto dal fisico italiano Antonino Zichichi scopre il primo nucleo di antimateria, cioè un nucleo di antideuterio, contemporaneamente a un gruppo del Laboratorio Nazionale di Brookhaven”.
1928: Dirac, 1932: Anderson, 1965: Zichichi. Forse Zichichi vive in un sistema di riferimento in cui il tempo scorre all’indietro? O forse è solo un grandissimo contaballe?
Zichichi non ha scoperto l’antimateria. Zichichi non ha scoperto un atomo di antimateria. A rigor di termini non si può nemmeno dire che abbia “scoperto” un nucleo di antimateria. Zichichi ha prodotto un nucleo di antimateria, e lo ha prodotto contemporaneamente a un gruppo di ricerca americano. È come se io mi attribuissi la scoperta della materia ordinaria solo perché stamattina ho prodotto un pezzo di cacca, contemporaneamente al resto dell’umanità. Chissà perché non c’è il mio nome fra i Nobel?
Questa cosa non è interessante perché “smaschera” Zichichi, chi se ne frega di Zichichi, povero vecchietto, ma perché fa un po’ di luce su tutto il lavorio interiore che porta un cervello umano a dire le bugie.
È sbagliato pensare che chi dice le bugie sia uno che distorce la realtà per ottenere malignamente qualcosa che non gli spetta. Ci sono anche questi, ma sono una minoranza. Normalmente chi dice le bugie è convinto di dire la verità, o almeno una sua versione plausibile, per ottenere giustamente qualcosa che merita.
Se qualcuno mi chiede quale sia la scoperta più importante della mia vita, entra subito in azione il mio Orgoglio Personale. L’Orgoglio Personale vuole fare bella figura, stupire il mondo, dimostrare a tutti la superiorità del suo corredo genetico, quindi presenta immediatamente all’organo adibito alla comunicazione esterna (la cosiddetta bocca) la risposta più semplice e appropriata: “tutto quanto!”. Ma sfortunatamente c’è una Realtà Oggettiva con cui fare i conti da qualche parte là fuori. La facoltà che ha la funzione di verificare l’aderenza fra le millanterie dell’Orgoglio Personale e le evidenze della Realtà Oggettiva è il Giudizio Razionale, la cui funzione non ha uno scopo etico, ma pratico, cioè permettere all’individuo di crogiolarsi serenamente nell’illusione della propria superiorità. Il Giudizio Razionale non può far passare una bugia perché: a) se la bugia non viene creduta c’è l’onta e il discredito, dunque il contrario del crogiolarsi; b) se la bugia viene creduta, la stima della gente è rivolta a una persona che il Giudizio Razionale sa di non essere, dunque anche in questo caso niente crogiolamento.
Il Giudizio Razionale farà passare la cosa più simile alla verità che possa soddisfare l’Orgoglio Personale. Più l’Orgoglio Personale è grande e più il Giudizio Razionale è piccolo, più la Realtà Oggettiva finisce nel cesso.
“La sua scoperta più importante?”


Tutto quanto!

No, Orgoglio. Non mi pare.

Sicuro, Giudizio?

Sicuro.

Eppure, in un certo senso, il mondo è una mia rappresentazione.

Riprova.

La Teoria della Relatività.

È di Einstein.

Siamo pettinati nello stesso modo, no?

Non conta.

La pizza.

Realtà Oggettiva mi suggerisce che nel ’65 abbiamo prodotto un nucleo di antimateria.

L’antimateria!

Aspetta...

L’antimateria!

In effetti non si può scendere troppo nei dettagli...

L’antimateria!

In fondo è per un pubblico di non esperti. Se diciamo “nucleo di antideuterio” non capisce nessuno, è come se dicessimo “epsilon aurigae”.

L’antimateria! L’antimateria! L’antimateria!

L’antimateria.


Chi dice le bugie non è cattivo, ha solo il cervello molto piccolo.
(L'intervista completa è qui).

FAI UN FIGLIO E NON SAI CHI TI METTI IN CASA

Sandro, devo dirti una cosa.

Cos’è successo?

Credo che nostra figlia sia atea.

Ha solo tre mesi.

Non vedi come s’irrigidisce ogni volta che si nomina il Papa? Si blocca, inizia a sudare e ruota gli occhi all’indietro.

È una tua impressione.

L’altro ieri sono uscita a comprarle la pappa --

La pappa?

Torrone, pecorino e una tanica di soia.

Forse avresti dovuto leggerlo, quel libro del pediatra.

Soia biologica. Quando sono rientrata era nel suo box che giocava coi sonaglietti e i santi di peluche --

E allora?

Ha parlato.

Ha parlato...

Tutti i bambini dicono “papà”, “mamma” o al massimo “Carla”, lo sai lei cos’ha detto?

No.

Ha detto “secondo me Dio non esiste”.

Carla --

E intanto guardava il crocifisso con aria di sfida. Mi ha fatto una paura...

Nessun bambino parla a quell’età.

Mary è una bambina speciale, lo sai. Un giorno sarà una persona importante, andrà sulla Luna, scoprirà l’America e vincerà dieci Oscar. Anzi, mille! Sarà la prima donna a diventare Papa. Ci pensi? La nostra Mary che arringa i fedeli dal suo palazzo incantato, tutta lustrini e paillette, accompagnata da un’orchestra di unicorni...

Non è che c’era la tv accesa?

Che c’entra?

Chiedo.

Pensi che non sappia distinguere mia figlia dal televisore?

Ascolta, Carla --

Tu credi che io sia matta.

No.

Ogni cosa che dico o faccio, per te sono matta. Sono sempre matta. Se mi spalmo la maionese in faccia sono matta, se colleziono carcasse di piccione sono matta, se vado contromano in autostrada sono matta... Chiedilo a lui se sono matta? Su! Chiediglielo!

Stai indicando il caminetto.

Sono stufa di questo atteggiamento! Hai capito!? Stufa! Stufa! Stufa! Se non cambi ti lascio! Ti lascio e mi metto con tuo fratello gemello!

Potremmo chiamare un esorcista.

Ottima idea.

ESSERE GLENN GOULD E NON SAPER SUONARE

La sera del mio primo concerto avevo ventinove anni e non avevo mai toccato un pianoforte in vita mia. Sapevo che aveva i tasti bianchi e neri, ognuno con la sua nota, e che i pedali non erano frizione, freno e acceleratore, ma a parte questo non sapevo niente, non sapevo nemmeno in che ordine fossero le note. Ciononostante il piano è sempre stato la mia grande passione. Ricordo che da bambino, la sera, stavo ore e ore ad ascoltare mio padre battere le nocche sul tavolo.


Sei bravissimo, papà!

Sciocchezze.

Bravissimo.

Se solo avessi fatto il conservatorio...

Cos’è il conservatorio?

Dove impari a suonare.

Jingle Bells?

Uno strumento.

Stru...?

Mento.

E io?

Cosa?

Io ho fatto il conservacoso?

No.

Suona Jingle Bells.

Tac-tac-tac! Tac-tac-tac! Tac-tac-tac-tac-tac!


È da lui che ho preso il talento musicale, l’agilità delle dita e la sindrome di Asperger.
A nove anni, esaurite tutte le possibilità sonore del mio corpo, mi sentivo pronto per un vero strumento.


Mamma.

Dimmi tesoro.

Voglio uno strumento.

Un rasoio elettrico va bene?

Più grande.


Mi comprarono una pianola elettrica. Bellissima. Aveva i tasti piccoli piccoli e tondi (tasticoli li chiamavo) e una specie di mantice nel mezzo. Purtroppo non siamo mai riusciti a trovare la spina, così alla fine l’abbiamo impanata, fritta e servita con un po’ d’insalata.
Per anni mi sono esercitato col carillon di zia Ines e ho ascoltato molto approfonditamente tutti i quarantacinque giri di Raffaella Carrà e Furia Cavallo del west, due compositori che amavo moltissimo. Questo per dire che, nonostante tutto, la sera del concerto non ero proprio a digiuno di musica, e anche se il mio curriculum lasciava molto a desiderare, potevo contare sul mio orecchio e la voglia di far bene.
L’unico problema era che avevo messo il vestito buono (completo di velluto beige, camicia fantasia, farfallino, cilindro e ghette), mentre tutti gli altri erano in jeans e maglietta. Così decido di andare a parlare col direttore d’orchestra. Di solito non sono uno che abusa della propria posizione, me ne sto buono come se fossi l’ultimo arrivato, ma stavolta era un’altra cosa, avevo paura di compromettere la mia performance.


Non si può rimandare l’inizio?

Sta scherzando?

La prego, maestro.

Come si fa?

Giusto dieci minuti, il tempo di cambiarmi.

Su, su, che sta benissimo così.

Ma, maestro...

E poi io mi occupo solo della portineria.

Sul serio?

Faccio l’usciere.

Fantastico... un usciere che dirige l’orchestra. Ora sì che sono tranquillo.

Non c’è nessuna orchestra.

Eh?

Sono pezzi solistici.

...

Si sente bene?

Cosa vuol dire “solistici”?


La sala era piena e io non mi sentivo per niente pronto, avevo anche dell’aria nell’intestino e sapevo che difficilmente sarei riuscito a nasconderlo, ma ormai era fatta.
Grazie al cielo i primi pezzi erano facili, tutti ben separati uno dall’altro, con le note forti e chiaramente distinguibili dal traffico in strada. Solo alla fine ho avuto un’incertezza, proprio all’ultimo, quando ho chiesto il bis durante una pausa di semibreve. Per il resto sono andato benissimo: ho applaudito al momento giusto e ho gridato “bravo!” più forte di tutti.
Nemmeno Glenn Gould avrebbe fatto di meglio.

CHE FINE HANNO FATTO LINTON E JANE?

Ero da Floyd la sera in cui fecero la pelle a Linton. Mi stavo scolando il terzo boccale di limoncello raccontando barzellette sconce a due mignotte che sostenevano di essere la mia terza moglie Natalee e mia figlia Sherry, quando a un certo punto vedo entrare Molly Gloryhole con una faccia che era tutta un programma.
Avevo conosciuto Molly a un party di Frank Ziegler, quando i party di Frank Ziegler erano ancora frequentati da gente come Tim Rivera, Jervis Spice, Bruce Mulligan e Yossel Paciarotti, quello che si è impiccato con una collana di caramelle dopo il fiasco di The Jeffersons Go To Leipzig, uno spin-off dei Jefferson in cui George si trasferisce nella DDR per studiare contrappunto da un certo conte Frankenstein.
Molly era una donna che avrebbe tolto il fiato anche a Kenenisa Bekele. Frank me l’aveva presentata come una grande appassionata di golf e grandi mazze in generale, aveva due mani con tante di quelle dita affusolate che ti veniva subito voglia di farti ispezionare il naso.
«Hai saputo?», mi dice con un filo di voce che la rendeva terribilmente “squitter beltzi”.
«Che cosa dovrei sapere? A parte che ti sei di nuovo dimenticata di metterti qualcosa di non trasparente addosso», le rispondo accendendomi un pacchetto di Pall Mall.
«Quella merda prima o poi ti ucciderà».
«Non preoccuparti, ho smesso da un pezzo di frequentare tuo marito».
«Linton è morto».
Conoscevo Linton Reed dall’estate del ’64, era il più grosso figlio di puttana che avessi mai conosciuto dopo Vincent Brown, Walt Harrison, Garth Miller, Nat Bumblebee, Lowell Smelling, Sergent Pepper, Melting Pot, Big Trouble, Sun Goesdown e Bernie Ecclestone di Chicago.
«Gli hanno fatto la pelle gli uomini di Smarty».
«Beh, allora condoglianze».
Come tutte le donne che vogliono scroccarti un paio di drink, Molly inizia a spremere tutte le sue ghiandole lacrimali, sia quelle principali che quelle accessorie, quelle che producono quello strato mucoso e lipidico che fa perdere la testa a così tanti cazzi mosci. Quando una donna decide di mettersi a piangere neanche Mosè la può fermare, intendo Mosè Slobovitz, l’illusionista della CBS che negli anni quaranta ha tenuto incollati alla radio milioni di sordomuti, non quel personaggio della Bibbia con la barba e due Gioppini in testa.
«Un po’ di Curaçao per la signora, Floyd».
«Sì, signore».
«E una pista di coca per me. Mi raccomando, tagliala con l’amianto se no non mi fa effetto».
Molly mi ricordava per qualche motivo la mia dodicesima moglie Molly: stessi occhi, stesso modo di passarsi le mani fra i capelli, stesso orologio. Che io sappia Molly e Molly si sono incontrate una sola volta e hanno fatto subito scintille, me lo ricordo come se fosse il giorno della mia nascita. Sul secondo canale della NBC davano ancora il campionato di Bowling subacqueo con la conduzione di Meredith Coin e Jude Lindberg, detta la bolscefica perché sembrava Jennifer Stowe in “Viaggio a Mosca senza andata”. Ricordo che eravamo a un raduno di majorette all’angolo della quarantasettesima strada con la settima avenue primo semaforo a sinistra nella Broadway, poi a destra sulla trentasettesima, prendere lo svincolo Lincoln Tunnel, proseguire per l’aeroporto di Newark e imbarcarsi per Firenze Peretola, imboccare viale Guidoni, seguire le indicazioni per il centro, oltrepassare Porta San Frediano e proseguire fino al chiosco dei lampredotti di Piazza dei Nerli, io, Molly, Molly, Meredith, Jude e Jennifer. Io avevo con me il mio solito stock di siringhe usa e getta e due confezioni di idraulico liquido, in pratica la serata era già fatta. Ma Molly aveva altri programmi. Al Washington Square c’era il suo gruppo preferito, i Rincodilly. Facevano una jam session per soli magnetofoni e sacchetti di Cipster, ma stavolta senza galli selvatici nei pantaloni. Da quando si sono beccati quella denuncia per vilipendio di molestie sessuali si guardano bene dal maltrattare i galli. Con Molly c’era anche Angel Spark e l’ispettore Molly Cumming, che da due anni indagava sulla strage di San Valentino detta anche Pig Abattoir, come la moglie di suo fratello, rimasta incinta nella Billboard Hot Chart per sei settimane consecutive con “let’s pray on the beach, baby”, let’s pray just me and you like breeze soda with narrow check points in my head let’s gamble again and again on the snowboard down the countryside of our love and Mr Jenkins... quanti ricordi. Ogni volta che penso a Molly (parlo di Olga Hallström) mi viene in mente quel quadro di Jean Pigalle in fibra ottica su vinile esposto alla Tate fra roba mainstream per quelli di San Francisco o di qualche altro stinco di santo beccato per furto con scasso nella villa dei Collins sui fiordi di Hammerfest alla ventesima ripresa per knockin’ on heaven’s door non la versione dei Los Angeles Lakers di Philadelphia ma quella degli Harley-Davidson dall’East Coast fino al Nebraska col gasolio contato al millilitro per un pranzo da Errol con pane secco del ’49 e sbirri a rapporto dal tenente Maupassant della seconda mano di poker coperto quando Ivy disse “adesso sta a vedere che un biscazziere non è uno con due cazzi”.

LA GENEALOGIA DELLA MORALE

C’è stato un tempo in cui i rapporti fra le persone erano semplici e diretti, ognuno sapeva cosa fare e quale fosse il suo posto nel mondo e tutti vivevano in armonia. Erano i luminosi tempi delle monarchie assolute, dove i forti comandavano e i deboli servivano, e nessuno si lamentava per la bolletta del telefono o la coda in posta.
I servi nascevano per fare i servi, con tanto di libretto delle istruzioni e garanzia. Non c’era da scandalizzarsi che uno schiavo facesse lo schiavo, era nato apposta. Gli aristocratici invece venivano al mondo già laureati, con tutto l’occorrente per la caccia alla volpe e i favoriti. Tutto funzionava a meraviglia. Nessuno si lamentava.
Poi, un bel giorno...


Perché mi fate questo, signore?

Cosa?

Perché mi torturate con ferri roventi e trapani elettrici?

Perché è divertente.

Io non mi diverto.

Che c’entri tu?

Sono un essere umano come voi.

È una battuta?

Quello che fate è male, signore.

Si dice “fa male”. Se vuoi monto una punta cilindrica da due millimetri.

Torturare il prossimo è male.

Ah, sì?

Sì.

E che cosa vuol dire?

È un’azione riprovevole.

Va be’. Datti una pulita e va’ a casa.

Grazie, signore.

Io vado di là a sodomizzare le tue sette figlie.

Anche questo è male.

E che palle!

Potete venire con me a pascolare il bestiame, sfornare figli che non passeranno il primo mese di vita e spargere sementi che per lo più si mangeranno i corvi.

Scommetto che questo non è male.

Indovinato.


Un bel giorno arrivò la religione. Non i politeismi o gli spiritualismi pagani che promettevano lussuria e bagordi, ma la religione con la erre maiuscola, quella del dio unico e incazzato come una bestia. Il dio dei servi.


Pronto, signorina, vorrei parlare con il signor Sedicesimo Luigi.

Attenda in linea, per favore. Maestà è per lei.

Chi è?

Un tizio che parla con l’eco.

Dia qua. Pronto?

Signor Sedicesimo?

Sì, chi parla?

Sono il dio dei servi e dei malriusciti, la chiamo per dirle che da oggi comando io.

Ah, e che fine hanno fatto tutte quelle divinità piene d’immaginazione?

Adesso comando io.

Questo l’ho capito.

Volevo dirle di trovarsi un lavoro, signor Sedicesimo.

Capisco.

Gli ultimi saranno i primi, gli inetti e gli indecisi siederanno sugli scanni dei tribunali, gli analfabeti sforneranno un libro dopo l’altro e gli ignoranti reggeranno le sorti del pianeta.

Gran bel piano, complimenti.

E deve ancora sentire il resto.

IL PROBLEMA ONTOLOGICO E SUA SOLUZIONE

Il problema ontologico è il problema dei problemi, l’interrogativo fondamentale, la domanda che la gente si fa da quando ha iniziato ad avere il tempo di farsi domande. È una domanda talmente semplice che non si sa nemmeno come dirla. Da qualche parte la si mette giù così: “che cos’è l’essere in quanto essere?”, ma suona un po’ pomposo, a metà fra l’erudito e il gioco di parole. E poi non tutti sono d’accordo con questo modo di mettere giù le cose, molti dicono che non si può usare un’espressione come “che cos’è” se si sta parlando dell’essere, perché l’essere non è una cosa e, anche se lo fosse, è meglio che non si sappia in giro.
Allora si è provato a dire così: “perché l’essere e non il nulla?”. Anche qui, però, c'è chi ha da ridire, chi sulla contrapposizione fra essere e nulla (dove sta scritto che una cosa escluda l’altra?), chi sull’uso del “perché” (come se l’essere avesse una causa o uno scopo). Alcuni hanno messo in discussione anche “il”, “e”, “non” e “l’”. È difficile dare una risposta se non si riesce nemmeno a fare la domanda.
L’unica cosa che nessuno ha mai messo in discussione è il punto di domanda. Quindi, forse, la formulazione più precisa del problema ontologico è questa:

?

La gente ci si arrovella da secoli, ma nessuno è finora riuscito a dare una risposta convincente e definitiva, e questo un po’ stupisce. In pratica si sa tutto di tutto, si sa come funzionano le vibrisse dei gatti, come si riproducono le vongole, si sa persino stimare l’età di Rita Levi Montalcini, ma sull’essere in generale non si sa un bel niente. Zero. Si sa solo che l’essere è, che è un po’ la caratteristica di tutto quanto.
Le posizioni fin qui emerse sono grosso modo queste: l’essere è Dio, l’essere è lo Spirito, l’essere sono le cose. Tre posizioni molto spassose. Quando poi si tratta di materialismo dialettico è veramente il massimo, non c’è niente di più divertente che sentire un marxista parlare di ontologia:


Allora, dunque vediamo, secondo me l’essere siamo io, mia moglie --

Grazie, caro.

Sì, insomma, tutta la gente in generale, il cane, la saldatrice, due bicchieri di vino durante i pasti, la ruota di scorta, il cane --

Il cane l’hai già detto.

No, cioè, intendo il cane di Fabio.

Ah.

Fabio, il ristorante di Fabio... dio buono se si mangia bene, eh?


Ovviamente ci sono altre posizioni. Per esempio ci sono gli scettici (l’essere non è conoscibile), i solipsisti (piacere, sono l’essere), i sibillini (l’essere non può apparire che così com’è e non può essere altro da come appare, perché l’idea stessa di “apparenza”, cioè la possibilità che qualcosa possa manifestarsi altrimenti da com’è, è interamente contenuta e prescritta dall’essere così come ci appare), i pessimisti (non vale la pena parlarne) e i nichilisti (l’essere non è), che è come dire “non so cosa sto dicendo ma voglio dirlo lo stesso”.
Bene, questo per ciò che riguarda la formulazione del problema. Per la sua soluzione, invece, rimando a Duemilavini, la guida ai vini d'Italia, al momento la lettura più illuminante sull'argomento.

INTERVISTA A BERNARDO BERTOLUCCI

Si dice che i suoi film attingano a esperienze vissute personalmente.

È vero, è una caratteristica di tutti i miei film. Mi ispiro sempre alla mia esperienza personale. Per esempio “Il tè nel deserto”, a me piace molto il tè.

E il “Piccolo Buddha”?

Un volta ho letto Siddharta, mi è piaciuto.

Perché i suoi personaggi sono così finti?

Chi può dire cosa sia finzione e cosa realtà nell’epoca della manipolazione dell’immagine? Mi ridia il portafoglio.

Cos’è finzione e cos’è realtà nell’epoca della manipolazione dell’immagine?

Okay, me lo ridia.

Anche “La tragedia di un uomo ridicolo” è autobiografico?

No.

Le piace il suo lavoro?

Certo che mi piace. Ci vuole mestiere e pazienza, ma bisogna anche essere disposti a sporcarsi le mani.

Lo dice anche mio zio.

Regista anche lui?

Quasi. Spurga i pozzi neri.

È un mestiere anche quello.

Oh no, lui lo fa per hobby. “The Dreamers”, il suo ultimo film, ha avuto un discreto successo di pubblico. Le ha fatto piacere?

Le pare che incassare come “L’asilo dei papà” si possa definire un successo di pubblico?

Che cos’è “L’asilo dei papà”?

Appunto. È che vengo bollato come regista italiano e questa cosa mi penalizza.

Pensa di non essere all’altezza?

Il mio passaporto è italiano, d’accordo, ma la mia anima è americana. Lo sa che negli Stati Uniti c’è un festival intitolato a me?

Intende un festival di cinema?

Pensi che nell’ultima edizione sono arrivate più di cento opere da tutto il mondo. C’erano dei lavori veramente interessanti, chi non c’è stato non può nemmeno immaginare quanto possa essere emozionante un documentario sulla salatura del prosciutto di cinghiale.

Gesù...

No, no, cinghiale. La verità è che mi preoccupo poco dei critici e delle loro stelline, non so se mi spiego. Per la maggior parte di loro un film è solo un pretesto per celebrare se stessi, non per celebrare me. Non sopporto i narcisisti.

Ha qualche nuovo progetto in mente?

Pensavo a un panino col salame.

ALCUNI CONSIGLI PER SEMBRARE INTELLIGENTI

Sembrare intelligenti è importante solo in due casi: fare bella figura con gli amici, riprodursi. Fare bella figura è importante per riprodursi. Perché sia importante riprodursi non è ancora del tutto chiaro.
A chi ama la vita introspettiva e il buon vecchio onanismo, sembrare intelligenti non serve assolutamente a niente. Costoro potranno così dedicare molto più tempo alla lettura.
Prima di passare ai consigli è bene sgombrare il campo da alcune false credenze.
Intelligenti si nasce, non si diventa. Il contrario è vero solo per i primi minuti di vita, poi, quando incominciano a evaporarti due o tre tazze di neuroni al giorno, hai voglia ad allenarti coi cruciverba. E poi, sinceramente, a chi è mai capitato di rivedere un amico proverbialmente imbecille e di trovarlo migliorato?


Ciao Dodo.

Ciao.

Vai ancora a quel corso di dattilografia preistorica?

Era una fregatura.

E come l’hai scoperto?

Così, all’improvviso. Un giorno mi sono svegliato e mi sono reso conto che era una fregatura.

Sul serio?

Scusa, ora ti lascio che ho un concerto.

Gigi d’Alessio?

Wagner.

...

Dirigo.


Gli imbecilli non migliorano. Al massimo sono stazionari, il più delle volte peggiorano, ma di sicuro non migliorano.
La seconda credenza che bisogna sfatare è che esistano tanti tipi diversi di intelligenza: sociale, intuitiva, parafrastica, domestica, rettale, eccetera. Ovviamente sono cose inventate solo per permettere agli insegnanti di dire “suo figlio è un genio” a genitori speranzosi senza sentirsi in colpa. Il più delle volte è sottinteso “rettale”.
L’intelligenza è una sola ed è il contrario della stupidità. O sei intelligente o sei stupido, in mezzo non c’è niente. Puoi essere più o meno intelligente, più o meno stupido, ma non puoi essere “parafrasticamente intelligente”, o meglio, può esserlo solo uno stupido.
Altre false credenze su cui non è il caso di soffermarsi sono: l’esistenza di una smisurata intelligenza potenziale (che è solo un modo carino di riferirsi alla smisurata stupidità effettiva), la superiorità intellettuale dei delfini (il fatto che i delfini siano più intelligenti della maggior parte degli uomini non significa che siano più intelligenti come specie), il test del QI non significa niente (che è vero, ma avercelo basso non è certo una cosa di cui andare fieri).
Ora i consigli.
1. Il primo fondamentale consiglio per sembrare intelligenti è questo: prendere in considerazione l’ipotesi di non esserlo. È la condizione fondamentale, senza questa tutto è vano. Certo è difficile: non solo ognuno è convinto di essere intelligente, ma crede anche di esserlo parecchio più degli altri. Il problema è che bisogna essere abbastanza svegli per rendersi conto di essere dei cretini.
Pare che le persone intelligenti siano meno di una su cinque e che la percentuale scenda drasticamente quando si accende Italia 1. Certo, uno pensa sempre di essere in quell’esigua percentuale di persone intelligenti. È come per le religioni: tutti pensano di essere stati abbastanza fortunati da nascere al posto giusto con i comandamenti giusti.


Siamo stati proprio fortunati, Joshua.

Puoi dirlo forte, Aaron.

Pensa che pasticcio se fossimo nati Taoisti.

Mio Dio!

Tutto il tempo a inebriarci con sostanze allucinogene e a fornicare con sacerdotesse lascive e prosperose.

Non ci voglio pensare.

E invece così...

Che fortuna!

Siamo qui io e te.

Tranquilli tranquilli.

In questo bar di Haifa.

Il migliore.

A berci il nostro bel bicchier d’acqua.

Se è un sogno non svegliarmi.


2. È importante tenere sempre una mano sul mento, come gli scrittori in quarta di copertina. Non bisogna togliersela mai per nessun motivo, nemmeno quando si gioca a tennis o si salutano i parenti dal treno.
3. Altra cosa importante: in una conversazione bisogna sempre mostrarsi partecipi e interessati, senza mettersi al centro dell’attenzione. Interloquire spesso ma cautamente con frasi come  “conosco il problema”, “conosco a fondo il problema”, “conosco straordinariamente a fondo il problema” e di tanto in tanto dissentire, ma con cortesia. Evitare assolutamente di liquidare un’intera conversazione con sentenze sprezzanti, soprattutto quando non si ha nulla da aggiungere se non un sorrisetto a metà tra il saccente e il coma farmacologico.
4. Ogni tanto, però, bisogna pur tirar fuori un argomento. Uno o due, non di più. A questo scopo basta restare sul vago, ricordarsi di menzionare le parole “ermeneutica”, “Socrate”, “sorprendente” e ricorrere a frequenti pause, sia per dare un po’ di sospensione al discorso, sia per far passare il tempo.
5. L’ultimo consiglio riguarda l’umorismo, lo strumento di socializzazione più efficace a disposizione dell’uomo dopo i soldi. Fare delle battute argute è sicuramente importantissimo e per questo ci sono in giro degli ottimi battutari che uno si può comprare e studiare con calma. Più delle battute, però, è importante ridere a quelle degli altri, non importa se facciano veramente ridere o no. Questo per il semplice motivo che uno non ricorda mai quello che gli si è detto, di solito ricorda solo due cose: quello che lui ha detto, e se si è riso o no alle sue battute. Quindi l’unica cosa su cui bisogna concentrarsi è distinguere una battuta da una considerazione qualsiasi. Come si fa? Come sapere, per esempio, se bisogna limitarsi ad annuire o rotolarsi per terra tenendosi la pancia? Se ci sono altre persone è facile, basta fare quello fanno gli altri, ma se non c’è nessun altro? In questo caso l’unica soluzione è optare per una composta risata e, se butta male, dire “scusa, mi è venuta in mente una sorprendente battuta di Socrate sull’ermeneutica”.
6. Se tutto questo non funziona, allora non resta che simulare un improvviso malessere e accasciarsi sul pavimento. Mentre tutti sono occupati a chiamare i soccorsi, bisogna trascinarsi piano piano verso l’uscita, senza dare troppo nell’occhio, e scappare. Mi raccomando la mano sul mento.

ANCHE SE IN FONDO NON VOGLIO SAPERLO

Tempo fa una mia amica voleva raccontarmi un aneddoto sessuale che la riguardava. A me piacciono moltissimo gli aneddoti e il fatto che fosse sessuale non mi disturbava per niente. A un certo punto, però, si ferma e mi dice «no, a te non lo dico. Tu sei uno che giudica». Al momento non ho saputo controbattere, purtroppo non sono mai stato uno con la risposta pronta. Mi sono limitato a implorarla.
Ieri, intanto che passavo l’aspirapolvere, mi è venuto in mente quello che avrei dovuto risponderle. Peccato che siano passati otto anni. Prendo l’aspirapolvere per il collo e la guardo dritta nel bocchettone: «che cazzo vuol dire che sono uno che giudica?» le dico. «Ma se l’hai raccontato a tutti! Anche al salumiere! Il salumiere per caso non giudica? Tutti giudicano! Non è che uno può dire: guarda, visto che sei tu, sospendo il giudizio. Già dire che non ti piace essere giudicata è una scemenza. Vuoi dire che non ti farebbe piacere essere giudicata una persona in gamba, brillante, acuta e sempre e comunque un’impareggiabile sex symbol? Ora per coerenza ti viene da rispondermi che la cosa ti lascerebbe indifferente. Ti prego, non farlo. Ti giudicherei un’idiota. Dimmi invece che non ti piace essere giudicata male. Questo ha senso. A nessuno piace essere giudicato male, mentre a tutti piace essere giudicati bene. È normale. Se c’è qualcuno a cui non frega niente di essere giudicato bene o male (beato lui), questo qualcuno è anormale. Fortunato, ma anormale. Come uno con due nasi, tutti e due perfettamente funzionanti. Nota la finezza, ho detto nasi. La storiella del non giudicare il prossimo è una scemenza inventata da Gesù: “non giudicare e non sarai giudicato”. Che scemenza. Che cosa vuol dire? È come dire non pensare e non sarai pensato. Non si può non pensare. Bene o male tutti pensano. Tutti pensano e tutti giudicano. Tutti. Anche quelli a cui hai spiattellato senza scrupoli da educanda tutti i cazzi tuoi, salumieri compresi. Alcuni ti avranno giudicata bene, altri male, chi lo sa? Ma anche se sono rimasti impassibili o hanno cambiato discorso, ti hanno comunque giudicata. Giudicata e bollata, avanti un altro. Quindi non venirmi a dire che a me non lo racconti perché io giudico. La differenza fra me e il salumiere non è che io giudico e lui no, ma che lui giudica e fa finta di niente, mentre io giudico e te lo dico. Lui pensa che sei un’idiota e intanto ti sorride, mentre io penso che sei un’idiota e ti dico chiaro e tondo che sei un’idiota. La differenza fra me e quelli con cui ti piace aprirti e confessarti è che loro sono degli ipocriti, mentre io no. È uno dei pochi difetti che non ho. Quindi, guarda, se vuoi l’unica cosa che puoi dirmi è: “a te questa cosa non la dico perché non sei abbastanza ipocrita, a me piace confidarmi solo con ipocriti di merda”».
Questo avrei dovuto dirle. Se imparassi a rispondere subito a tono, non impiegherei così tanto tempo a pulire casa.