LE SVARIATE VIRTÙ AGRICOLE DI FEDERICO SMANETTI

Benché poco conosciuto, Federico Smanetti è sicuramente uno dei più rappresentativi poeti italiani del Novecento. Di lui si ricordano soprattutto la raccolta di versi liberi “Briciole di Orzobimbo”, gli “Inni sacri alla nonna da parte di madre” e l’opera spiritualistica “Sporcellana”, scritta sul gesso ortopedico di Claudio, uno che dormiva in treno.
Nasce a Boara Polesine nel 1898, in pieno boom agricolo, e fin da bambino viene impiegato dal padre nel duro lavoro dei campi. È un’esperienza gravosa e sfiancante, ma durante la quale impara ad amare la natura, la semplicità della vita rurale e lo sterco. L’eleganza e la grazia con cui zappa la terra fanno subito intuire l’indole artistica di Federico Smanetti, e qualcuno (Federico Smanetti) inizia a parlare di braccia rubate alla poesia.
Alla morte del padre, nel 1942, decide di approfondire le proprie conoscenze della lingua italiana e si iscrive alle elementari. È a quel periodo che risale la sua prima raccolta: “Pensierini”. In essa si nota già la predilezione per i neologismi, la creatività sintattica e una certa spregiudicatezza con le doppie.
Il suo talento non passa certo inosservato e l’anno seguente pubblica un trittico di elegie sul giornalino della Curia. È vero che si tratta di una pubblicazione con contributo (in natura), ma è comunque importante perché segna ufficialmente l’inizio della sua carriera letteraria. Sono tre componimenti di ispirazione bucolica, misurati e contemplativi, fatti di un lirismo schietto, sommesso, percorso da un impalpabile senso di malinconia. Di seguito riportiamo il più significativo.


CLITURNIA RIBEDONDA (da “Aratri di manzo”, 1943)

Esile ed efebica cliturnia
Svolante su la rocca smerlata
Scivoli lesta negli allori ammainati
La polvere nasosa sfiori ribedonda
Sbriciolata da cedevoli anni di sonno
Persico
Non so che darei per una scodella di brodo


Da questo momento è un susseguirsi di successi e critiche entusiastiche, non solo da parte di se stesso. Nel 1945 ottiene una menzione speciale alla rassegna letteraria di Papozze, nel 1947 viene acclamato al Gran Premio per dislessici di Pettorazza Grimani, e nel 1950 vince il primo premio come miglior travestimento al festival “La poesia è donna”, organizzato in occasione della sagra della faraona a Bagnolo di Po.
Proprio quest’ultimo successo lo convince a trasferirsi stabilmente a Bagnolo di Po. “È un luogo a me assai caro,” scriverà nella sua autobiografia, “inesauribile fonte d’ispirazione, dove la vita scorre placida e silenziosa come il grande fiume Po. Senza contare che qui sono famoso”.
Nonostante le difficoltà economiche e il trauma dell’improvvisa scomparsa di Sorbola, l’amata tartaruga abbaiante, pelosa e a forma di cane, Federico Smanetti continua a dedicarsi alla poesia. Gli anni Sessanta sono il periodo dell’avanguardia, in cui lo Smanetti sperimenta la tecnica della scrittura sotto l’effetto dello zampirone. Ecco un breve ma significativo esempio della produzione Smanettiana di quegli anni.


XXXI modo (dalla raccolta “Cento modi per diventare ricco”, 1969)

Se mi mandi otto mila lire te li investo e poi fra dieci anni facciamo metà a me metà a te e metà ai bambini negri con le mosche se fai diecimila diamo qualcosa anche alle mosche il numero del conto è in quarta di copertina grazie


Ma lo Smanetti non diventerà mai ricco. Non diventerà mai neanche lontanamente benestante, un po’ perché come tutti i poeti è fondamentalmente uno scapestrato bohemien e un po’ perché non venderà mai nemmeno una copia.
Gli ultimi anni sono segnati dalla malattia. La diagnosi è seria e non lascia scampo: egolatria. Sono anni di sofferenza e isolamento in cui viene assistito da Maria, un elegante fermaporta in ottone che gli starà vicino fino all’ultimo. Ma nonostante l’infermità, la produzione Smanettiana non si ferma. Quello che segue è uno degli ultimi componimenti, pubblicato sul numero di dicembre del Guerin Sportivo (per errore).


L’eterno ritorno (da “Versi senili”, 1976)

Dove ho messo il mio cappello?
Dimenticato fra vasi di gerani rinsecchiti
Sterili rami supplici protesi verso il niente
Dove ho lasciato i ricordi gioviali
Di anni spesi a scherzare con giumente
Vogliose?
Floride mammelle robusti fianchi corna d’avorio
Non avrò un cappello mai più
Desueto coperchio per cranii svuotati dagli anni
E passeggio famelico abbarbicato sul bastone nodoso
Aspetto un facile successo adagiarsi nelle
Mie
Tasche


Fedrico Smanetti muore nel 1978 per un attacco di autostima.

ALCUNE NEWS SU GESÙ

Prima cosa, contrariamente a quello che vogliono far credere i Vangeli, Gesù non era gay. Il fatto che tenesse in poca considerazione le donne, usandole perlopiù per lavarsi i piedi, e che gli piacesse circondarsi di giovani uomini con addosso solo un lenzuolo, non dipendeva dall’orientamento sessuale di Gesù, ma dall’orientamento sessuale di quell’epoca. La Palestina di duemila anni fa era un po’ come la California degli anni Settanta.
Inoltre gay è un concetto recente, sarebbe sciocco volerlo trasportare indietro nel tempo e usarlo per giudicare i comportamenti delle persone. Fare le ammucchiate con una dozzina di discepoli era una pratica comune a molti profeti del tempo e veniva vista come un’attività che temprava lo spirito e la mente, cosa che comunque Gesù non ha mai fatto. Gesù odiava temprare lo spirito e la mente. Al massimo si concedeva qualche piccola effusione con Giovanni, il suo discepolo preferito, ma mantenendo tutto nei limiti di un rapporto amichevole e senza mai andare oltre a un po’ di petting.
È anche falso che non sapesse andare in bicicletta. Sebbene poco noti, esistono decine di dipinti e mosaici pregiotteschi che raffigurano Gesù in bici nel deserto, su una specie di mountain bike con le rotelle, raffigurate come due piccoli protomi d’angelo. Questa iconografia è stata pian piano abbandonata perché giudicata sconveniente, infatti lo svolazzare delle vesti poneva ai pittori il problema di dipingere le mutande di Gesù.
Nel Vangelo secondo Loris, ritenuto apocrifo per via delle foto ritoccate, sono numerose le parabole in cui compare la bicicletta, e a un certo punto (Loris 13,52) si parla esplicitamente di una partecipazione di Gesù al giro d’Italia, vinto miracolosamente all’ultima tappa.
Terzo. La storia che abbia detto “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” è una leggenda metropolitana. In realtà la frase che ha gridato prima di spirare sul Golgota è un’altra: “è lì, è lì Abbas Kiarostami”. È infatti noto che molte persone quando stanno agonizzando sono convinte di assistere a un film di Kiarostami. È normale. Avrebbe anche potuto dire “è lì, è lì Gabriele Muccino”.
Altra balla colossale: non è per niente vero che la passione di Gesù fosse farsi crocifiggere. Come si può pensare una cosa del genere? In nessun racconto dell’infanzia o della giovinezza di Gesù, apocrifo o canonico che sia, si parla di Gesù che gioca con gli amici a farsi crocifiggere. Nella sua cameretta non aveva croci né altri strumenti di tortura, e per tutta la sua breve vita non ha mai dato a intendere che avesse una preferenza per le cose fatte a forma di croce. Anzi, ogni volta che ne vedeva una si toccava discretamente gli zebedei, cioè Giacomo e Giovanni.
La sua grande passione, come si è già detto, era la bicicletta. Dunque il simbolo della cristianità dovrebbe essere Gesù in bicicletta, non Gesù in croce.
Infine pare che non sapesse nuotare.


COME DIVENTARE FELICI

Si è detto che la felicità non esiste, che al massimo si può essere solo appagati, sereni e allegri con qualche picco di euforia. In realtà la cosa difficile non è essere felici, ma esserlo senza bere.
La prima condizione necessaria per essere felici è che si possano soddisfare tutte le impellenze animali: cibo, sesso, droga e così via. In ogni caso, per quanto possa sembrare incredibile, tutto questo non è sufficiente e si può essere infelici anche con il frigorifero pieno e la moglie ubriaca.
La vita deve avere un senso, è ovvio. Se non c’è un senso si perde interesse per qualsiasi cosa, tutto sembra futile, persino seguire una gara di curling, e siccome non tutti hanno la fortuna di avere una pistola nel comodino, succede che ci si riduce a passare le giornate fissando il muro seduti nelle proprie feci. Sarebbe sciocco. Di sensi alla vita se ne possono trovare a iosa: regalo divino, gita nell’universo, rompicapo cosmico, gara di longevità, reality show senza show, prova di pazienza, illusione soggettiva, allucinazione collettiva, presa per i fondelli oggettiva. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Per Heidegger, ad esempio, il senso dell’esistenza era il tempo. Poteva essere l’appetito, il calamaio o l’insegnante di solfeggio, ma lui ha preferito il tempo.


Come mai il tempo, professore?

Oh, quello...

Perché proprio il tempo e non... che so...

L’insegnante di solfeggio?

Per esempio.

Non mi piaceva il titolo.

Ah.

“Essere e insegnante di solfeggio”. Brutto.

Brutto.


È importante anche avere un obiettivo, qualcosa che tenga la mente occupata, ma non va bene qualsiasi cosa. Un obiettivo troppo facile, come abbottonarsi la camicia o fare un figlio, non va bene. Se si sceglie un obiettivo troppo facile, poi bisogna subito fare la fatica di cercarsene un altro. Ma l’obiettivo non può nemmeno essere troppo difficile. Vincere i mondiali di rugby da soli, a piedi nudi e senza leggere il regolamento è sicuramente un traguardo stimolante, ma alla lunga può diventare frustrante. Quindi, riassumendo, l’obiettivo deve essere irraggiungibile (così si è a posto per sempre), ma non troppo (se no è frustrante), suddivisibile in obiettivi secondari (per stare in allenamento), in numero infinito (l’obiettivo è irraggiungibile!) ma numerabile (deve sembrare raggiungibile), che ci allontanino sempre di più dall’obiettivo finale man mano che li realizziamo (cfr. “Il castello”, F. Kafka, ed. italiana Feltrinelli).
Altra cosa: non si può essere felici senza amici. Gli amici servono per giocare a tennis, parlar male degli amici comuni e dividere la benzina. Basta che non siano troppo stretti, se no possono diventare esigenti, e che siano molti, per non rischiare di annoiarsi. Più sono e meno li si conosce, meglio è. L’ideale sarebbe sette miliardi di amici perfettamente sconosciuti.
Bisogna anche conoscere almeno tre persone che ci apprezzino (due se si ha la fortuna di essere narcisisti). Serve per sentirsi gratificati. Se non si prova un po’ di gratificazione di tanto in tanto è difficile continuare a illudersi di essere i migliori. Una di queste persone di solito è la madre, un’altra può essere la fidanzata. Da ciò si comprende l’importanza di avere molte fidanzate o, in alternativa, molte madri.
Un’altra cosa su cui non si insiste mai abbastanza né a scuola né in nessun altro luogo adibito all’insistenza, riguarda l’alimentazione: mai nutrirsi con cibi infelici, come la minestrina, gli yogurt magri, l’insalata, la carne lessa, il petto di pollo col puré o il gelato di riso. Certo, sono cibi sani, ma hanno un effetto devastante sul morale, trasformano la vita in una specie di degenza ospedaliera. Una volta al ristorante ho sentito uno ordinare due carote lesse specificando “per uso orale” e poi chiedere un’eutanasia come dessert.
Altri indispensabili accorgimenti per essere felici sono: non guardare MTV oltre i trent’anni, dormire almeno otto ore al giorno (possibilmente al lavoro), tifare sempre per chi vince, non sminuirsi con chi non se lo merita, non cercare il proprio nome con Google ogni cinque minuti, tenere sempre a portata di mano un superalcolico.

DEATH IS NOW!

Che senso ha avere paura della morte? Non dico che la morte metta allegria, dico solo che la paura è il sentimento sbagliato. Tristezza angoscia sconforto, okay. Paura, no.
Si ha paura di qualcosa di spiacevole che può succedere, mentre la morte è qualcosa di spiacevole che succederà sicuramente. Anzi, la morte è già successa, perché non va vista come un evento sfortunato che mette fine alla vita, ma come il fatto stesso che la vita abbia una fine. Quindi avere paura della morte significa avere paura che la vita non sia eterna, cioè significa essere matti o molto smemorati. Capisco che i preti e la TV tendano a confondere un po’ le idee, ma ci si può veramente dimenticare una cosa del genere? No. Infatti le persone non se la sono dimenticata, non l’hanno proprio mai saputa. Ci si ricorda il primo giorno di scuola, la prima comunione o il giorno in cui si è capito come nascono i bambini, ma non il giorno in cui si è scoperto che si deve morire, perché quel giorno non esiste. Per questo uno si dispera quando il medico gli annuncia che gli resta qualche mese di vita, quello che fa disperare non è il “qualche mese”, ma il “resta”.


Qualcosa non va, dottore?

Purtroppo lei morirà.

Moricosa?

Morirà.

Si spieghi meglio.

Le restano solo cinquant’anni di vita.

No!

È colpa del concepimento, se si fosse potuto evitarlo...


Vivere con la paura della morte significa vivere nell’illusione che si possa evitarla. Questo è il senso del funerale: commemorare un evento straordinario che, con un po’ più di fortuna, si poteva evitare. A sentire la gente sembra che la morte sia sempre un incidente: alcuni sono sconvolti, altri, la maggior parte, pensano “uh, l’ho scampata bella!”. E invece no, non l’hai scampata proprio per niente. Anche tu stai morendo. Adesso.
Anche chi ammazza qualcuno pensando di fargli del male è uno che s’illude che la morte si possa evitare. Per punire veramente qualcuno bisogna farlo vivere male, non farlo smettere di vivere, primo perché nessun morto ha modo di dispiacersi della propria morte, secondo perché prima o poi sarebbe morto lo stesso. Se uccidi uno fai del male solo ai suoi parenti e ai suoi amici, cioè a chi non c’entra niente. Questo è il motivo per cui uccidere è un’ingiustizia (si manca il bersaglio), non perché la vita sia un valore, un diritto o un croissant all’albicocca.
Lo stesso vale anche per chi augura la morte a qualcun altro, che è un po’ come augurare di sbattere le palpebre o di secernere saliva.


Guarda dove vai, stronzo!

Sono sulle strisce, imbecille!

Strisce un paio di palle!

Vaffanculo!

Secerni saliva!


Quando uno ti dice “crepa!”, l’unica risposta possibile è “sì, lo so”.
Si può avere paura dell’agonia finale, infatti si può sperare di evitarla (preti permettendo), ma non si può avere paura della morte. Della morte può avere paura solo chi è immortale.


IL PIANETA PERFETTO


Miglior corto di animazione ai Nastri d'Argento 2011.

Voce di Guglielmo Favilla.
Altre informazioni qui.

NESSUNO MI TOGLIERÀ MAI DALLA TESTA CHE HO UN GRANDE TALENTO, DEVO SOLO SCOPRIRE QUALE

Tempo fa, più o meno verso le sette, sono venuto a sapere che la Juventus giocava in serie B. È stato un colpo. Ricordo ancora distintamente quello che ho pensato: “se solo fosse quei tre centimetri in più, sarei autosufficiente”. Ma la sorpresa più grande è stata scoprire che Juventus non è il nome di un educandato femminile, ma di una squadra di calcio, e che il calcio, attenzione che questa è grossa, non è un elemento della tavola periodica, ma uno sport di squadra in cui ventidue milionari vestiti da clown rincorrono una palla. Lo scopo è fare gol e rotolarsi nell’erba urlando “gol”, sempre e solo in quest’ordine.
In effetti mi aveva sempre insospettito tutto questo interesse per un collegio di monache, ma mai e poi mai avrei immaginato che potesse essere retrocesso in serie B. Come ripeteva sempre mio nonno dall’alto dei suoi novantatre anni: “prendimi adesso”.
Così ho deciso di telefonare al presidente della Juventus. Non è stato semplice. Siccome il numero non è sulla guida, ho dovuto provarli tutti partendo da 1.


Pronto, presidente della Juventus?

Sono io.

Vorrei allenare la Juventus.

Ha esperienza di calcio?

Ho saputo che non è un elemento chimico.

Si consideri assunto.


Avevo un piano impeccabile: comprare i calciatori che fanno più gol e farli giocare. Semplice. Del resto la semplicità è prerogativa di tutto ciò che è geniale (se si eccettua la Teoria della Relatività Generale, il Tractatus Logico-Philosophicus, l’Etica Nicomachea, il  Clavicembalo Ben Temperato libri I e II, la Missa Solemnis Op. 123, i quartetti “Rasumovsky” Op.59 e anche 74, 95, 127, 130-133, 135, tutto Mozart dai vent’anni in poi, l’Orlando Furioso, Kafka, Bernhard, Pinter, Shakespeare, il teatro greco in blocco, tutto il rinascimento e un sacco di altre cose che non sto a dire).
Una rapida scorsa alle classifiche marcatori è stata sufficiente per individuare immediatamente il giocatore più forte sulla piazza: Massimo Grilli, punta del Lumezzane, 404 presenze, 297 reti, 99 assist, personalità: normale. Cosa incredibile ma vera: mai convocato in Nazionale.
Ho contattato direttamente il presidente del Lumezzane.


Pronto, vorrei comprare Massimo Grilli.

Il giocatore è valutato 2100000 €.

100 €, consento la trattativa.

1000000 €. È un elemento insostituibile della squadra, è sotto contratto per altri quattro anni ed è felice di rimanere. Lingue parlate: italiano, inglese (base).

500000 più altri 500000 dopo i primi 70 gol in campionato e il 50% sulla prossima cessione.

Massimo Grilli non vede l’ora di giocare per una squadra che vanta così tanti tifosi.

Cioè la Juventus, giusto?


Nel giro di una settimana sono riuscito a mettere insieme un fenomenale dream team di trentadue giocatori, i migliori del mondo. Tanto per citare solo i più noti:

Mansour Al-Suwayyed, stella dello Zeleznik, 83 gol con la maglia del Qatar, opinione generale: crede che dovrebbe essere un titolare fisso, 1600000 €;

Angelo Vaccaro, 37 anni, 12 presenze in Under 21, miglior giocatore di serie B negli anni 1996, 1997 e 2005, 250000 €;

Dudley Bloomer, lesothiano in forza al Real Montecchio, lievi preoccupazioni: nessuna, serie preoccupazioni: non riesce ad ambientarsi, 1200000 €;

Mario Scarpetta, giovane promessa del Borgomanero, opinione generale: pensa che Mansour Al-Suwayyed non dovrebbe prendersi così sul serio, piede preferito: sconosciuto, 50000 €.

Purtroppo, però, le cose non sono andate come speravo. La prima grossa delusione è stata scoprire che si possono schierare solo undici giocatori per volta, ma la seconda è stata anche peggio.


Come sarebbe a dire che serve un portiere?

Ci vuole uno in porta.

In porta? Non spendo milioni per mettere i giocatori in porta!


Anche se mi hanno licenziato prima dell’inizio della stagione, è stata comunque un’esperienza che mi ha insegnato molto. Ho affinato un certo senso tattico e il fiuto per i giovani talenti, ho girato il mondo, anche più volte al giorno, e ho iniziato a vedere le persone da un nuovo punto di vista: il loro prezzo.
Bene.
Come ha detto mio nonno in punto di morte: “ciao”.

COSMOLOGIA AZIENDALE

Fino al 1920, anno più anno meno, nessuno sapeva niente delle galassie. Gli scienziati, che a quel tempo pare non portassero ancora gli occhiali, s’immaginavano che l’universo fosse molto più piccolo, più semplice e, per qualche misteriosa ragione che forse ha a che fare col tirare a indovinare, statico. Ovviamente statico su grande scala, il che vuol dire che alla gente era permesso andare in bicicletta o fare le capriole, almeno a quelli che non s’intendevano di astronomia, ma all’universo no, lui doveva stare fermo.
Un giorno, però, il signor Edwin Hubble guardò in un telescopio e scoprì le galassie (a essere onesti bisogna dire che le galassie erano già state osservate, solo che erano state scambiate per segni di stanchezza).


Ragazzi, ho scoperto le galassie!

Fa’ un po’ vedere.

Vado a casa a fare spazio al Nobel.

Edwin, io non vedo niente.

Come sarebbe?

Non c’è niente.

La vedi quella macchiolina nella costellazione dei Meganoidi?

Questa qui?

Eh.

È solo un po’ di sporcizia sull’oculare. Guarda, viene via.

Ecco qua! Questa è sicuramente una galassia!

Edwin...

Cosa?

Stai puntando il telescopio sul pavimento.


Ma alla fine Hubble le scoprì veramente, le galassie. Scoprì le galassie e scoprì anche che si stavano tutte allontanando a velocità pazzesca. Quest’ultima notizia avrebbe dovuto far riflettere sulla fama di cui gode la razza umana nell’universo, invece fu accolta con grande euforia. Gli scienziati di tutto il mondo festeggiarono per giorni e giorni, poi capirono che c’era da rifare tutta la cosmologia e smisero di festeggiare.
L’universo si espande, ma come? Accelera? Decelera? Si espande e basta o ogni tanto si riposa? È un problema molto complesso. Qualcuno ha detto che è un po’ come cercare di ricostruire la vita di una persona guardando solo dal buco della serratura, al buio e nell’appartamento sbagliato.
Ecco grosso modo come si procede: si prende un foglio molto grande, possibilmente a quadretti, si segnano qua e là dei pallini (chiamati dati) e si cerca di unirli con una linea continua (chiamata modello cosmologico), chi riesce a unire più puntini vince il Nobel. La figura mostra un esempio.


Gli astronomi che mettono i puntini sono detti osservativi, mentre quelli che tirano le righe si chiamano teorici. Naturalmente i teorici non possono fare le righe come pare a loro, come quando si uniscono i puntini della Settimana Enigmistica, ma devono attenersi a certe regole. In pratica quello che succede è questo: un teorico più in gamba degli altri inventa di sana pianta un modello di universo, tutti gli altri prendono questo modello e, senza sapere esattamente come funzioni, iniziano a giocare con i suoi parametri (tipo la densità dell’universo o la velocità di espansione) in modo da unire più pallini che si può.
Questo ha funzionato per un certo tempo, ma ogni volta che tutto sembrava risolto arrivava sempre qualcuno a metterti un pallino dove meno te l’aspettavi.


Ora che si fa?

Beh, o si inventa un modello nuovo o si aggiunge un parametro a quello vecchio.

Uhm... chiama Albert e vediamo che dice.

Albert?

Einstein.

È morto.

No!

Già.

Ecco perché non risponde agli sms. Hai il numero di Alexander?

Friedmann?

Sì.

Morto.

Lemaître?

Morto.

Robertson-Walker?

Sono due persone diverse.

Ah.

Morte.

Senti, aggiungiamo un parametro nuovo, tanto uno più o uno meno...


Ma, si sa, un parametro tira l’altro, così si aggiunsero la densità di materia oscura, l’energia del vuoto, la forza invisibile, l’intuito femminile, il numero di scarpe di Dio e molto altro ancora. Oggi i parametri con cui si può giocare sono settantasei e sembra che i conti tornino un po’ meglio.


Con i modelli cosmologici attuali si possono far tornare un sacco di altre cose. Per esempio funzionano molto bene per le analisi del sangue, le scommesse sulle corse dei cani e i bilanci aziendali.

GHEDELIN-GHEDELON

Se dovessi dare una definizione semplice e concisa di cosa sia un essere umano, direi che è un animale rumoroso. Se c’è una cosa in cui l’uomo surclassa di gran lunga tutti gli altri animali è il suo straordinario talento nel produrre rumori, i più svariati e fantasiosi rumori, tutti rigorosamente sparati al massimo volume nelle orecchie altrui. Più un rumore è fastidioso, più il suo volume sarà alto. È una legge di natura. Più uno non ha niente da dire, più lo dirà ad alta voce.
L’auto, per esempio. Tutti pensano che l’auto sia un mezzo per spostarsi e che, come effetto secondario, abbia quello di produrre rumori fastidiosi. Sbagliato. L’auto è prima di tutto un mezzo per produrre rumori fastidiosi col quale, volendo, ci si può anche spostare. Un’auto che non sgasi, non strombazzi e non appesti l’aria con musica di scarico a novemila decibel non è un’auto, è un’altra cosa.
Prima della comparsa dell’uomo, gli animali credevano che il suono più spaventoso del mondo fosse il ruggito di un leone. Ingenui. Che cos’è il ruggito di un leone in confronto al suono di una sveglia alle sette di mattina? I leoni, i rinoceronti e tutti gli altri animali fuggivano a zampe levate inseguiti da uomini con le sveglie. L’uomo era il nuovo rumorosissimo re della foresta.
Ormai mi sono rassegnato a vivere sommerso dai rumori degli altri, anche in casa mia. Non esiste un posto sulla Terra dove si possa trovare un po’ di silenzio. Dicono che sui fondali marini potrebbe esserci qualcosa di simile, ma io non ci credo, sono sicuro che anche lì c’è qualcuno che urla “dottore! dottore! dottore del buco del cul, vaffancul, vaffancul!”. Alla gente piace troppo infliggerti i suoi rumori. Il concetto è: i rumori che produco sono un’espressione del mio straordinario essere, importeli significa farti partecipe della mia straordinaria vita (in pratica ti faccio un favore). Se riesco a infilarti in casa i miei Striscia la notizia, i miei Coldplay e gli orgasmi simulati di mia moglie, io rendo la tua vita un po’ più straordinaria. Il massimo sarebbe cacarti direttamente nelle orecchie.
Da qualche giorno si è aggiunto alla collezione sonora dei miei vicini un nuovo assordante essere umano, una donna che a orecchio avrà sui trent’anni e che tutti i giorni (che sono, lo ricordo, lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e domenica) spalanca le finestre che danno sul cavedio del palazzo, una specie di amplificatore architettonico, e a pieni polmoni urla “ghedelin-ghedelon-ghedelin-ghedelon-ghedelin-ghedelon...” e così via, ininterrottamente, per ore. Ecco un altro che vuole entrarmi in casa, ho pensato, che vuole somministrarmi il suo straordinario modo di essere. Non bastava il pianista a cui hanno evidentemente incasinato tutti i tasti, l’appassionato di televendite Miracle Blade 3, i due pensionati che si insultano in dialetti preistorici e gli ammassi di neonati che ululano dalla mattina alla sera, tutti accuratamente installati di fronte a una bella finestra aperta, ci voleva anche la sciroccata col mantra buddista, ghedelin-ghedelon-ghedelin-ghedelon-ghedelin-ghedelon...
Nel suo caso, però, c’è un aspetto che rende la sua attività sonora oltre che fastidiosa, anche contraddittoria.
Il mantra, mi sono documentato, è una cantilena in sanscrito che dovrebbe servire per concentrarsi, liberarsi dalle scorie mondane e riappacificarsi col tutto. Fin qui una bellissima cosa. Per l’induismo e il buddismo la moltitudine degli esseri viventi è solo un’illusione, perché in realtà esiste solo un unico grande essere di cui tutti siamo parte. Ed è qui che c’è la contraddizione. Se mi spari il tuo mantra nelle orecchie tutti i giorni, probabilmente tu ti rilassi e ti avvicini all’illuminazione, ma io me ne allontano, e ti garantisco che me ne allontano molto ma veramente molto di più di quanto tu te ne avvicini. In questo modo l’essere universale di cui tutti siamo parte (io, tu, il gatto, le ciabatte, eccetera) peggiora. Col tuo mantra ottieni l’effetto di peggiorare l’universo, non di migliorarlo, perché io, purtroppo, l’unica cosa che provo è il tormentoso desiderio di chiuderti la bocca a sediate.
Poi per curiosità sono andato a vedere cosa significa ghedelin-ghedelon in sanscrito. Bene, com’era prevedibile significa “dottore! dottore! dottore del buco del cul, vaffancul, vaffancul!”.
Le cose belle sono silenziose.

POCHE SEMPLICI REGOLE PER SEDURRE UNA DONNA

Visto che sedurre un uomo è la cosa più semplice del mondo (basta spogliarsi), vediamo come si fa a sedurre una donna.
Va subito detto che l’aspetto fisico non conta niente.


È stato anche fatto un test: si è preso un uomo bellissimo e uno bruttissimo e li si è spediti in giro per Modena a rimorchiare (all’uomo brutto, per sicurezza, è stata anche strofinata la faccia con del formaggio di capra). Entrambi potevano servirsi solo della frase “ciao, facciamo l'amore?”, da pronunciare passandosi voluttuosamente la lingua sulle labbra, come fanno le donne in tutte le pubblicità (yogurt, gelati, assorbenti). Sorprendentemente tutti e due gli uomini hanno ottenuto lo stesso risultato: novantanove “no” e un “sì” (quando si sono casualmente incrociati).
Sedurre una donna al giorno d’oggi può essere molto faticoso. Le tecniche che un tempo funzionavano (il pavoneggiarsi, lo spargimento ormonale, la rincorsa nella radura, eccetera), oggi possono fallire miseramente. È una cosa che va accettata.
Quello che bisogna sapere è che tutto l’universo femminile può essere suddiviso in tre grandi gruppi: le donne che cercano il padre, le donne che cercano il bambino, tutte le altre.
Le prime due categorie sono le più semplici. Nel primo caso è sufficiente travestirsi da loro padre, brizzolarsi un po’ i capelli, comprarsi una pipa ottocentesca e il gioco è fatto. Se poi il padre è morto, ancora meglio, l’apparizione farà di sicuro più effetto, purché ci si ricordi di parlare con l’eco.


Ciao, facciamo l’amore?

Levati dai piedi.

Sono tuo padre.

Maledetto stronzo! Mio padre è morto!

Adre... adre... adre...

Papà sei tu!

Facciamo l’amore? Ore... ore... ore...


Per quanto riguarda il secondo tipo di donna, quella che cerca uno da accudire, basta suonare il campanello di casa e infilarsi nudi in un cesto di vimini col dito in bocca. Quando apre bisogna solo dire “uè”.
Benché semplici, questi due casi hanno però un inconveniente: spesso conducono al matrimonio con figli uno maschio l’altra femmina più piscina station wagon e casa al mare. Che è una vita sconsigliabile per tutti quelli che non siano appassionati di infelicità.
Il terzo caso è sicuramente più complicato, ma anche più gratificante. Il trucco sta tutto nel riuscire a mostrare il proprio interesse senza renderlo esplicito, affascinare senza strafare, alludere alla possibilità di strofinarsi l’uno contro l’altra senza usare mai il verbo “strofinarsi”, dire e non dire, insomma bisogna sapersi destreggiare con gli eufemismi. Un perfetto casanova non è altro che un maestro dell’eufemismo.


Mi scusi, signorina, che autobus devo prendere per il centro storico? Sa, io amo molto la storia, per non parlare dei centri [sottinteso: ciao, facciamo l’amore?].

Quello su cui siamo.

Oh, che coincidenza straordinaria [sarebbe, se non fosse che sono tre ore che ti seguo].

Sì.

Posso darti del tu?

L’ha già fatto, signore.

Il fatto è che sto cercando una location per il mio nuovo film [amatoriale].

Ah.

A proposito, sei interessata a recitare [nuda]?

Non so recitare.

Sono sicuro che non è così! Si vede subito quando una ha del talento [e un vestitino che sembra di carta igienica bagnata].

Io scendo qui.

Magari qualche volta possiamo fare la birra insieme [prendere un amore].

Buongiorno, signore.

Aspetta, ti do il mio pene [numero]!


In questo caso l’abbordaggio non ha funzionato solo per la giovane età della donna (sette anni) e la presenza del padre (Forza Nuova). In tutti gli altri casi questo tipo di approccio è praticamente da manuale.