UN TEMA PIÙ DIFFICILE

Federico II di Prussia aveva tutto per essere felice: un bel castello, una moglie obbediente e tanto tempo libero. La mattina si alzava quando voleva, pranzava e cenava come al ristorante, giocava a Risiko con gli esseri umani e tutti lo chiamavano “Federico il Grande”, anche se era alto solo uno e sessantadue. Ciò nonostante Federico II era sempre di cattivo umore. Nessuno capiva perché, nemmeno il suo psicanalista.


Perché siete di cattivo umore, Maestà?

Non sono di cattivo umore, imbecille.

Giusto, Maestà. Perché siete di buon umore?

E a te che ti frega?

Sono il vostro psicanalista.

Tu?

Per servirvi, Maestà.

No, tu sei il mio cavallo.

Sì, Maestà.

Nitrisci.

Iii-ih, Maestà.


Federico II era un uomo con tante qualità. Per esempio suonava il flauto molto bene e sapeva comporre sonate, concerti e un po’ tutti i generi musicali dell’epoca. Certo niente di eccezionale, ma era comunque musica piacevole e scritta con una certa intelligenza. Il suo maestro Johann Joachim Quantz, il più grande flautista del Settecento, gli faceva sempre moltissimi complimenti, tutti alla modica cifra di duemila talleri l’uno. Chiunque sarebbe stato soddisfatto di sé, chiunque tranne Federico II.


Buonanotte, amore.

Buonanotte, Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel-Bevern.

Non vieni a dormire?

Suono ancora mezz’ora e poi arrivo.

È un po’ tardi.

Non vorrai lamentarti della bolletta delle candele? Posso permettermela, okay?

Veramente non ho detto niente.

Ma l’hai pensato.

Perché sei sempre di cattivo umore, Federico?

Primo: io non sono di cattivo umore, secondo: sei licenziata.


Suonare era l’unica cosa che lo faceva stare veramente bene. Quando suonava si dimenticava di tutto: mogli, diplomatici, eserciti, tutto quanto. Ogni pensiero spariva e lui non era più Federico II di Prussia, ma un flauto. Era così riposante essere un flauto: le note uscivano da sole senza nessuno sforzo e non c’era niente a cui pensare, bisognava solo ascoltarsi. L’unico problema era che quando smetteva di suonare il cattivo umore era ancora lì, seduto in poltrona con le gambe incrociate.


Allora, Maestà, andiamo a dormire?

No.

Le mie dita non rispondono più ai comandi.

Certo, le tue dita rispondono ai miei comandi.

Sì, Maestà.

Suonami ancora questo pezzo e poi vai dove ti pare.

È una nuova sonata?

L’ho finita ieri. Mi raccomando i ritornelli.

Sì, Maestà.

Tutti da ripetere quindici volte, come piace a me.


Un altro dei tanti privilegi di Federico II era che al suo servizio non aveva un clavicembalista qualsiasi, ma un figlio di Bach in persona, e non Gottfried Heinrich, quello ritardato, ma Carl Philipp Emanuel, per gli amici Cipié. Gli aristocratici erano così, sperperavano i loro beni in arte e sapere, invece i governanti democraticamente eletti li sperperano in calcio e puttane.


Allora, Cipié, ti è piaciuta?

Le vostre sonate migliorano a vista d’orecchio, Maestà.

Hai notato il tema dell’allegro? È ricavato dalla mia iniziale? F F F F F, pausa, F F F.

Bellissima sonata, davvero. Non al livello di quelle di mio padre, ma molto bella.

Oh, scusa. Mi si è accidentalmente spaccato il flauto sulla tua testa.


Non importa quanti soldi hai, quante guerre hai vinto, quanta gente ti aduli, basta che uno abbia un capello in più di te e subito esplode l’invidia, ma silenziosamente, senza che l’invidioso se ne accorga. L’invidioso non è come il Salieri di Milos Forman che si rotola per terra urlando “dio mio, quanto sono invidioso!”, l’invidioso non sa di essere invidioso, sa solo di essere di cattivo umore. Questo perché l’invidia non è la conclusione di un ragionamento ma uno stato d'animo, e come tutti gli stati d'animo arriva senza chiedere il permesso e si installa davanti agli occhi come un paio di occhiali arancioni. Per l’invidioso non è lui a essere invidioso, è il mondo che è arancione. L’invidia non si manifesta come desiderio della cosa invidiata, ma come astio verso chi la possiede, un astio completamente irrazionale a cui l’invidioso cerca di dare motivazioni posticce: “si dà un sacco di arie”, “ha una risata fastidiosa”, “le sue fughe sono tutte scopiazzate da Händel”, eccetera. Se Bach fosse stato un Regno, Federico II gli avrebbe dichiarato guerra, ma come si poteva dichiarare guerra a un povero vecchio? I libri di storia avrebbero fatto molta fatica a descrivere con la necessaria enfasi l’impresa eroica di Federico il Grande che con soli mille uomini espugna l’appartamento del povero vecchio: la gloriosa Guerra dei Sette Secondi. I posteri non avrebbero capito. Quindi che fare?
Se Federico II avesse ascoltato con attenzione la musica di Bach e si fosse detto “Bach è meglio di me”, allora non sarebbe stato invidioso, magari sarebbe stato triste, frustrato, avvilito o al contrario stupito, incuriosito, stimolato, ma di sicuro non invidioso. Quello che gli rovinava la vita non era il desiderare un talento che non poteva avere, ma l’avere paura di desiderarlo, quindi finché poteva cercava di non ascoltare Bach, e quando proprio non poteva non ascoltarlo cercava di convincersi che non valeva un gran che. Tutto questo preventivamente, cioè senza essersi mai esplicitamente chiesto se veramente volesse essere Bach. In un certo senso l’invidioso invidia tutto, sia le cose che vuole sia quelle che non vuole, perché la sua invidia lo annebbia prima che possa farsene un’idea.
La sera del 7 maggio 1742, Johann Sebastian Bach viene invitato a esibirsi in pubblico nel palazzo d’estate di Federico II a Potsdam. Federico II lo accoglie nel modo più cortese possibile e subito ordina che gli vengano portate le pattine migliori, ma siccome Bach fa molte riverenze e continua a inginocchiarsi, gli fa portare un paio di pattine anche per le mani, in modo che possa entrare nella sala da musica camminando comodamente a quattro zampe. Nella sala ci sono tutti: musicisti, ufficiali, nobildonne e tutta un’indistinta tappezzeria di intellettuali a caccia di uno stipendio (questi non mancano mai). Il piano di Federico II era semplice: dare a Bach un tema, chiedergli di improvvisare una fuga e far vedere a tutti che non era capace, ah ah ah (“ah ah ah” faceva parte del piano). Per sicurezza il tema doveva essere opportunamente lungo, incoerente, irregolare e pieno di cromatismi.


Bach lo ascolta senza fare commenti e subito si siede al clavicembalo.


No, non lì.


Federico II gli indica un altro strumento, una cosa mai vista: una specie di cassa da morto a rotelle, coi pedali come un organo ma meno numerosi di quelli di un organo, e una strana tastiera coi tasti tutti invertiti, quelli bianchi neri e quelli neri bianchi. Cioè un pianoforte. Bach interpreta tutto come un segno di grande considerazione nei suoi confronti, dopotutto solo al musicista migliore si possono chiedere certe cose. Si siede al piano e senza neanche prendere fiato attacca la fuga.
Non solo quel vecchio mezzo cieco e con le dita a forma di würstel riesce a improvvisare una fuga coerente, ma quella fuga era anche, particolare non trascurabile, meravigliosa. Non era tutta un plin plin come la musica che si sentiva in giro, piacevole quanto si vuole ma pur sempre un plin plin, quella musica era un discorso, un bellissimo dialogo a tre voci con le note al posto delle parole.


Non male, ma una fuga a tre voci sono capaci tutti.

Vostra illustrissima Grazia, tre voci è il numero adatto per un tema come quello che vi siete magnanimamente degnato di sottopormi, tema peraltro eccellente.

Basta coi convenevoli, vecchio. Suonami una fuga a quattro voci.

Ne sarò onoratissimo, Vostra Imperitura Sovranità.

Volevo dire cinque.

Cinque voci?

Troppo difficile?

Farò del mio meglio, Vostra Impareggiabile Simpatia.

Sei.


Scrivere una fuga a sei voci è come fare venti metri al salto con l’asta senz’asta, improvvisarla significa semplicemente violare le leggi della fisica. Bach, che era molto rispettoso delle leggi della fisica, chiede cortesemente il permesso di tornarsene a casa per poter degnamente soddisfare quella “interessantissima” richiesta. Federico II acconsente e, volgendosi verso i suoi ospiti, proferisce solennemente le seguenti parole “ah ah ah!”.
Ma l’euforia dura poco. Già il giorno dopo il morale di Federico II se ne era tornato diligentemente al suo posto. Era come se da qualche parte nel suo cervello, in un angolino buio e irraggiungibile sotto strati e strati di cavilli, mascheramenti e autoraggiri, si nascondesse la verità. E la verità era: Bach è meglio di me. Dopo una settimana stava peggio di prima: non dormiva, non mangiava, non impiccava, non faceva più niente, non riusciva nemmeno a suonare. Ogni volta che prendeva in mano il flauto si vedeva subito davanti la faccia di Bach e gli passava la voglia. Avrebbe dovuto dargli un tema più difficile. Per distrarsi un po’ non sapeva se andare quindici giorni al mare o dichiarare guerra alla Sassonia. Purtroppo quello che Federico II non sapeva era che l’unica cosa che poteva veramente tirarlo su di morale era scendere in quell’angolino buio e riesumare la verità, magari avrebbe scoperto che non era poi così desiderabile essere un vecchio cieco, obeso e un po’ bifolco. Magari avrebbe scoperto che alla fine è molto meglio ascoltare Bach che esserlo.
Il colpo di grazia arriva a metà luglio, quando il postino di corte gli consegna con la massima urgenza un manoscritto da Lipsia.


Lipsia, hai detto?

Sì, Maestà.

Non è per me.

Ma c’è scritto “a sua Maestà Re di Prussia Federico II”, guardi.

No, non c’è scritto “Federico II”, c’è scritto “Federicoii”.

Federicoii?

Sì.

E chi sarebbe?

Non ne ho idea, sei tu il postino.

Quindi voi non siete il Re di Prussia, Maestà?

No.

E chi è, allora?

Sei tu.

Io?

Sì, non sei contento?

Non saprei...

Vedrai come sarà felice tua moglie.

Io non sono sposato.

Bravo, ancora meglio. Ora fuori dalle palle, Maestà


La mattina dopo Federico II si ritrova il manoscritto a colazione, infilato sotto il vassoio dei krapfen. Siccome Bach era una persona molto scrupolosa, ne aveva data una copia anche a Cipié. In quel manoscritto non c’era solo la fuga a sei voci, ma anche una sonata per violino e flauto e una serie di canoni in cui il tema originale veniva trattato e combinato in tutti i modi possibili, e anche un po’ in quelli impossibili, come se si fosse trattato di un motivetto qualsiasi. In pratica Bach lo stava sbeffeggiando. Come aveva fatto a scrivere tutta quella roba in appena due mesi quando lui aveva impiegato tre settimane solo a scrivere il tema? Sicuramente non doveva essere un gran che come musica, peccato non avere il tempo di verificarlo. Federico II si alza da tavola coi baffi ancora sporchi di caffelatte e va a mettere quei preziosissimi fogli al sicuro nell’immondizia. Mentre sta per aprire il bidone nota però un piccolo canone a due voci, abbastanza breve da poter essere apprezzato con un solo colpo d’occhio, un piccolo e apparentemente innocuo canone in cui una voce viene sovrapposta alla versione retrograda di se stessa e, cosa strana, funziona.


Visto che roba, Maestà?

Buongiorno, Cipié.

Questo canone è uguale sia suonato da sinistra a destra che da destra a sinistra.

Non ha proprio un cazzo da fare tuo padre.

L’ha composto mentre faceva la doccia.

Il tema era troppo facile.

Mio padre dice che la musica non è una gara di bravura.

Oh, scusa. Mi si sono accidentalmente spiaccicati tutti i krapfen sulla tua faccia.


Bach non aveva neanche chiamato la fuga “fuga”, ma “ricercare”. Che vecchio pedante. Federico II aveva impiegato tutto il pomeriggio solo a scoprire cosa volesse dire (al tempo non c’erano Google e Wikipedia, altrimenti ci avrebbe messo molto di più). Anche se il manoscritto conteneva l’acrostico RICERCAR: Regis Iussu Cantio Et Reliqua Canonica Arte Resoluta, Federico II sapeva bene che in realtà Bach voleva dire: Re Incapace e musiCalmente poco dotato lascia pERdere la musiCA e datti a qualcosa più alla tua portata, tipo il paRrucchiere.
A questo punto non restava che una cosa da fare: un tema più difficile.


(Teoria)