Un tipo di fanatico molto sottovalutato è il musicista fissato con la filologia. Può sembrare una cosa da poco, in realtà costui dà il suo piccolo ma costante contributo a rovinare una delle poche cose piacevoli che esistono sulla Terra: la musica. E non sto parlando della “musica”, ma della musica. Per lui un brano musicale è solo l’insieme delle note di cui è composto, così come una pietanza non è altro che i suoi ingredienti, come dimostra il fatto che quando deve farsi una pasta col tonno, prende pasta e tonno e mischia tutto insieme in un secchio. O almeno questo è quello che faceva G., un celebre virtuoso del violino e studioso di musica antica.
Nel 1967, mentre era a Nuuk per una conferenza sugli abbellimenti nella musica Groenlandese del 1604 (dicembre escluso), G. entrò in possesso di un documento contenente un’antica melodia artica, da lui rinvenuto in maniera del tutto casuale durante una faticosa ricerca in una scatola di corn flakes. Si trattava del canto popolare “squek pinguinasut”, che in groenlandese significa “canto dell’angelo”. Osservando attentamente il modo musicale utilizzato e la grande libertà del ritmo, G. si rese conto di essere di fronte a una melodia databile fra il 1510 e il 1520, il che tornava perfettamente con la didascalia stampata sul foglio: 1515. La delicatezza di quella monodia non accompagnata e la sua fluida cantabilità colpirono a tal punto G. che svenne. Quando con molta fatica si riprese, svenne ancora. Poi si riprese di nuovo e si propose solennemente un progetto: sarebbe tornato in patria e avrebbe dato un concerto pubblico dedicato solo ed esclusivamente a quel meraviglioso canto. E poi svenne.
G. stesso si sarebbe incaricato di eseguirlo. Durava solo un paio di minuti, è vero, ma era così bello che da solo valeva il prezzo del biglietto, senza contare che gli applausi avrebbero ampiamente coperto l’ora e mezza standard di un concerto. Non c’era neanche bisogno di fare il bis. C’era solo un problema: come eseguirlo?
Era una melodia per strumento ad arco, ma G. non poteva certo suonarla col suo violino, uno strumento occidentale, moderno e per di più accordatissimo. Per questo motivo G. si fece costruire un apposito strumento con le corde di budello di pinguino, l’archetto con vibrisse di pinguino e la cassa di risonanza rivestita di pelle di pinguino essiccata al sole di pinguino. Non aveva idea di come si suonasse una cosa del genere, ma prendendo spunto da alcune incisioni Groenlandesi di fine Quattrocento capì che era indispensabile avere le dita congelate, cosa che avrebbe realizzato senza problemi mettendo semplicemente le mani nel ghiaccio per un paio d’ore prima del concerto, dopo di che, per meglio simulare i sintomi del congelamento, avrebbe pregato i suoi assistenti di prendergliele delicatamente a martellate, poco poco, quel tanto che bastava per staccargli un paio di falangi. Per l’autenticità dell’arte, questo e altro.
Ma questo non poteva bastare. Siccome i musicisti groenlandesi del Cinquecento non potevano sicuramente essere dei professionisti, G. smise anche di esercitarsi al violino per tutti gli otto anni precedenti il concerto, dedicandosi esclusivamente alla caccia al pinguino: mangiava solo pinguini, parlava solo di pinguini e, per mantenere la concentrazione, decise anche di cambiare il suo nome da G. a P.
Il concerto ebbe luogo il 6 dicembre 1975, nel palazzetto del ghiaccio della sua città natale. C’era un’atmosfera strana, potremmo quasi definirla groenlandese. A tutti gli spettatori furono distribuiti all’ingresso un eschimo rigorosamente non lavato, un rampone e dieci libbre di grasso di pinguino da spalmarsi su tutto il corpo.
Quando il sipario si aprì, P. si presentò sul palco in pelliccia, con la faccia gonfia, le dita blu (quelle rimaste) e una specie di violino a forma di pinguino. Gettò un rapido sguardo filologico al pubblico in sala e subito iniziò a suonare: sembrava di sentire un gatto col mal di pancia. Questo era disastroso, non ci sono gatti in Groenlandia.
Originariamente pubblicato qui 👉 Guida per alieni