IL SIGNORE DI GIANCARLO

Quella mattina Giancarlo si svegliò tardi, colpito in testa da un riccio di castagna.


Promemoria per il futuro: mai dormire sotto i castagni.
Di solito lo svegliava il suo signore, l’illustrissimo Morcimone di Braganzio, signore di Braganzio e dintorni, comandante di Braganzio e console ad interim di Braganzio, il più blasonato cavaliere di tutta la Braganzia inferiore (e anche in quella superiore non è che fosse considerato poi tanto male), ma quella mattina il suddetto signore non c’era.


Forse si era allontanato per dar seguito a qualche bisogno corporeo, pensò Giancarlo, dopotutto anche i signori devono fare pipì. Stranamente, però, oltre all’illustrissimo signore non c’era più nemmeno la sua illustrissima roba: lo scudo, l’elmo, la bandiera coi disegnini e tutte le altre cose tipiche dei signori. Che fosse andato a fare pipì armato come in battaglia? E se sì, perché andarci a cavallo? Giancarlo si grattava con circospezione l’orecchio e intanto guardava le orme lasciate da Crinodonte, l’illustrissimo cavallo del suo illustrissimo signore, che si addentravano nel bosco. Di corsa.
A Giancarlo non piacevano i boschi. C’erano tante cose che non gli piacevano: il pane inzuppato nell’acqua, il freddo, il vento nelle orecchie, ma meno di tutto gli piaceva entrare nei boschi, soprattutto quando c’era freddo e vento come adesso. Meno male che almeno non stava mangiando pane inzuppato nell’acqua, pensò entrando nel bosco.
All’inizio sembrava notte, poi, man mano che gli occhi si abituavano al buio, continuava a sembrare notte. Mai visto un posto così buio.


Giancarlo cercò il suo signore dappertutto: dietro i cespugli, sugli alberi, sotto le foglie e dentro i ricci di castagna, non si sa mai, ma di lui non c’era traccia e anche se ci fosse stata di sicuro non l’avrebbe potuta vedere col buio che c’era. Lo cercò rispettosamente senza chiamarlo per nome per non disturbarlo, senza mangiare perché non ne aveva il permesso, in lungo e in largo per tutto il bosco senza mai perdersi d’animo, perché, va detto, non si può perdere quello che non si ha.
Quanto gli mancava. Porta la legna! Sì, signore! Svuota il secchio! Sì, signore! Pettina il cimiero! Sì, signore! Era così semplice obbedire e Giancarlo ringraziava il cielo tutti i giorni di essere nato Giancarlo e non signore.


Intanto che pensava a queste cose, sentì dei passi sulle foglie. Tutte le sue vertebre si misero a scodinzolare: fra gli alberi si muoveva una figura svelta, col petto in fuori e un’aria decisamente illustrissima. Giancarlo notò che era senza cavallo e senza armatura e che muoveva la testa in modo curioso, come a scatti. Forse il suo signore non stava bene? Aveva un aspetto terribile, tutto arruffato, con le gambe sottili da far paura e camminava in tondo come se stesse cercando qualcosa per terra. Era anche diventato stranamente piccolo, poco più grande di un animale da cortile, ma soprattutto Giancarlo non ricordava che avesse il becco e le penne. Infatti era un barbagallo.


Si avvicinò a quell’animale decisamente meno illustre del previsto e gli chiese se sapeva dove fosse il suo signore, ma il barbagallo disse di no, o almeno così gli sembrò di capire, visto che Giancarlo non conosceva la lingua del barbagallo e, va detto, nemmeno aveva mai visto in vita sua quella strana gallina che lì per lì aveva deciso di chiamare barbagallo. Chiese la stessa cosa a tutti gli animali del bosco, al rinocefalo, al bue bisonte, al cormoragno, al tritacervo, al rombotauro, all’ippostorno, al corvo irsuto e persino alla scontrosa oca perenne, ma la risposta era sempre la stessa: incomprensibile.
Erano ore che camminava, forse anni, e ancora non aveva trovato niente: un capello, un torsolo di mela, un panino col prosciutto... che fame, pensò, e si fermò a mangiare qualcosa: pane inzuppato nell’acqua.


Che fai? Gli domanda una voce.
Giancarlo alza la testa dalla scodella e si inginocchia all’istante. L’abitudine.


Mangio.

Sì, questo lo vedo. Chiedevo che fai qui, è pericoloso.

Davvero?

Non hai letto i cartelli?

Non si vede niente.

Esatto. È quello che c’è scritto.

Ah.

Seguimi!


A parlargli era una specie di cimice o forse uno strano uccello notturno a forma di cimice, fatto sta che si trattava chiaramente dello spirito del bosco. Capire quello che diceva richiedeva una certa immaginazione, ma era sempre meglio di niente.
Lo spirito, cosa molto gentile da parte sua, lo portò in una piccola radura senza alberi e lì Giancarlo vide una cosa incredibile che non avrebbe mai creduto possibile: il cielo era ancora al suo posto, esattamente dove lo aveva lasciato l’ultima volta. Era notte, ma in confronto a prima sembravano le due del pomeriggio. Sto cercando il mio signore, disse Giancarlo. Lo spirito del bosco gli si posò sul naso.


L’illustrissimo Morcimone di Braganzio.

Mai sentito nominare.

È qui da qualche parte.

Impossibile.

Ma ho visto le impronte entrare nel bosco.

Quelle erano le impronte dell’orsopardo.

Dell’orsopardo?

Sì. Il tuo signore è un orsopardo?

Non credo.

Allora qui non c’è.


Giancarlo fece di sì con la testa, ma solo per cortesia. Era una cosa troppo brutta per essere vera.


E sai per caso dirmi dove posso trovare questo “orsopardo”? Lo chiese con tutta la gentilezza che riuscì a simulare, ma lo spirito del bosco era già volato via senza nemmeno salutare. Tipico degli spiriti.
Giancarlo si sdraiò sull’erba bagnata. Solo cinque minuti, si disse. Il cielo era così limpido che si potevano vedere tutte le stelle conosciute e un po’ anche quelle sconosciute: il Melograno, il Ghiro Polare, la grande Nube Piumosa, il Copriletto... che sonno, pensò. Giancarlo diceva sempre quello che pensava.


La mattina dopo si svegliò tardi, colpito in testa da un riccio di castagna.

SE DIO ESISTESSE

Se dio esistesse e gli importasse qualcosa del mondo che, dice, ha creato, i bambini avrebbero la testa di gomma, in modo da poter andare a sbattere spensieratamente contro tutti gli spigoli disseminati per il mondo senza nessun pericolo per se stessi e per l’udito altrui.
I gatti ogni tanto ricambierebbero l’affetto dei loro padroni, prendendoli amorevolmente fra le zampe e dando loro delle grattatine sotto il mento.
Da qualche parte sul corpo umano ci sarebbe il tasto “off”.
I Papi saprebbero moltiplicare pani, pesci e champagne, non solo chiacchiere.
Alle Olimpiadi vincerebbero sempre Arabia Saudita, Vaticano e Israele, in ordine di rivelazione decrescente.
Certe malattie che sembrano uscite da un sogno di Mengele sarebbero riservate a creature meno predilette.
Le preghiere verrebbero ascoltate.


Vorrei una connessione più veloce.

Okay.

Una barba più folta.

Okay, d’accordo.

Così posso parlare di Marxismo con cognizione di causa.

Giusto.

Un carattere meno frivolo.

Stavo per suggerirtelo.

E la patente nautica.

No, questo no. Non sarebbe giusto nei confronti di chi se l’è guadagnata onestamente.

Ti prego, Signore!

Okay, okay...


I testicoli sarebbero equamente distribuiti fra entrambi i sessi, in modo che tutti abbiano le stesse possibilità di rendersi ridicoli.
Le mestruazioni si attiverebbero solo in presenza di corteggiatori molesti o potenziali stupratori, con la possibilità di orientare e regolare a piacere la potenza del getto.
La Terra sarebbe molto più grande o, in alternativa, riprodursi sarebbe molto più complicato.
A chi progetta stragi in suo nome chiederebbe di pagare i diritti per lo sfruttamento del marchio.
I rapporti sessuali non sarebbero peccato e la gente si radunerebbe in moschee, chiese e sinagoghe essenzialmente per leccarsi. Invece adorare immagini di dubbio gusto estetico sarebbe peccato.
Giovanni Allevi non avrebbe le dita, neanche quelle dei piedi (per sicurezza).
I cani d’appartamento farebbero i loro bisogni solo nel suddetto appartamento, chi ha la coda di paglia avrebbe una coda di paglia, i censori non supererebbero mai i diciotto anni, i bugiardi nascerebbero muti e soprattutto, cosa più importante di tutte, la sua esistenza potrebbe essere dimostrata.

L'ODIO

L’ANTICO GIUOCO DEL CORTEO

Lo sport più popolare in Italia non è il calcio, come di solito viene detto, ma l’antico giuoco del corteo. Il fatto che i suoi giocatori non siano divi strapagati come i calciatori non è una buona ragione per snobbarlo.
Funziona così. Ci sono due squadre, la squadra con le bandiere e la squadra coi manganelli. Quelli con le bandiere sono molto più numerosi, ma quelli coi manganelli sono dotati di un abbigliamento protettivo simile al football americano, sport a cui il giuoco del corteo assomiglia molto, a parte il fatto che non ha la palla, il campo e l’arbitro.
La partita si svolge per le strade di una grande città, di solito la capitale. Qui, qualche giorno prima della partita, viene scelto un posto a caso e lo si designa come “area proibita”. Ovviamente l’indirizzo di questo posto viene estratto a sorte da un’urna alla presenza delle autorità locali, in modo da garantire che la scelta sia genuinamente casuale e non favorisca nessuna delle due squadre.
Il giuoco è molto semplice. Lo scopo della squadra dei manganelli è impedire agli avversari di entrare nell’area proibita senza rompere la testa a nessuno, mentre lo scopo della squadra delle bandiere è riuscire a farsi rompere la testa. Si osservi che se la squadra delle bandiere riesce a entrare nell’area proibita (touchdown) questo non significa che ha vinto, ma solo che ha tolto la possibilità di vittoria alla squadra dei manganelli, la quale può ancora perlomeno pareggiare nel caso in cui riesca a trattenersi dal rompere la testa a qualcuno fino allo scadere del tempo regolamentare (grosso modo verso l’ora dell’aperitivo). Si tratta di regole molto semplici, ma è proprio questa semplicità che ha reso così popolare questo sport.
La partita ha inizio quando la squadra delle bandiere si mette in formazione dietro il giocatore col megafono (playmaker) e inizia a marciare per le strade della città alla ricerca dell’area proibita. Durante la marcia il playmaker incita i suoi con urla selvagge e antichi slogan preistorici, mentre piccole unità della squadra dei manganelli si dispongono in vari punti lungo il percorso allo scopo di confondere gli avversari e depistarli, mantenendo però sempre una certa distanza da loro, in modo da non correre il rischio di ingaggiare inutili mischie lontano dall’area. Ricordo infatti che basta una sola testa rotta per assegnare la vittoria alla squadra delle bandiere.
Quando la squadra delle bandiere riesce a raggiungere la linea dell’area proibita inizia la fase dello sfondamento, la parte più interessante e spettacolare del giuoco: i giocatori con le bandiere possono provare a oltrepassare la difesa degli avversari con qualsiasi mezzo, niente è proibito: lancio di estintori, colpi bassi, allusioni a disfunzioni sessuali varie dell’avversario e così via, praticamente tutto tranne il solletico, se no è troppo facile. Di contro i giocatori coi manganelli devono cercare di respingerli con i caratteristici strumenti di questo giuoco: lacrimogeni, idranti, spray urticanti e persino col mezzo più temuto e terribile di tutti: l’indifferenza. I veri fuoriclasse possono passare anche tutto un pomeriggio a prendersi sputi e sassi dalla folla facendo finta di essere da soli in un prato di montagna. Ma anche qualora ricorressero a mezzi meno offensivi come ad esempio il classico manganello, lo scopo principale rimane sempre fare la massima attenzione a non sfiorare la testa di nessuno, perché alla prima testa rotta la squadra delle bandiere alza subito le braccia in segno di simbolica resa, che nel linguaggio del giuoco del corteo significa vittoria. Nel caso invece in cui l’area rimanga inviolata e nemmeno un giocatore con le bandiere perda sangue, la vittoria è assegnata alla squadra dei manganelli. Trattandosi di un evento più raro, in questo caso i vincitori ricevono i complimenti dal Presidente della Repubblica in persona. In caso di pareggio è invece tradizione che ognuno dica scherzosamente di avere vinto.
Ovviamente è uno sport molto pericoloso e a volte, come nella boxe o nel motociclismo, succede che qualcuno perda la vita. È un momento molto drammatico che colpisce tutti nel profondo, giocatori e tifosi, eppure non è certo questo che può fermare la passione per lo sport di questi ragazzi.

FENG SHUI

CUMULI CHIMICI

Un giorno, mentre facevo la mia corsetta in uno dei pochi posti della città non ancora invasi dal traffico (il mio soggiorno), fuori dalla finestra ho visto questo


una massa di gas bianco, fluttuante e per di più inodore. Mai visto niente del genere.
Una volta il cielo era pulito e limpido come l’acqua del mare (quando era pulita e limpida), ora invece è pieno di questi incredibili agglomerati gassosi, molto probabilmente composti da elementi chimici. Sarà un caso che oggi ci sono così tante malattie? Ci dicono che il tasso di mortalità stia diminuendo


ma tutto dipende da come si leggono i dati. Per esempio, così fa tutto un altro effetto:


Per fortuna non sono uno che si fa prendere dal panico, così mi sono seduto sul divano, ho fatto un lungo respiro e, dopo aver riflettuto attentamente sul da farsi, mi sono fatto prendere dal panico. Dopo di che ho deciso di approfondire l’argomento con un apposito strumento informatico denominato Google e ho trovato questo


Le chiamano “ciminiere”, ma in realtà non sono altro che grossi camini. Non sarà certo l’averli dipinti a strisce bianche e rosse che potrà farmeli sembrare qualcosa di diverso. Sono camini che spargono nell’aria gas bianco, fluttuante e, guarda caso, inodore. Una coincidenza? Forse, o forse sono proprio questi camini che producono i cumuli chimici che stanno invadendo i cieli di tutto il mondo. Perché la scienza al soldo delle multinazionali corrotte dai banchieri sionisti che non arrivano alla fine del mese non ne parla? Eppure gli scienziati si occupano delle cose più insignificanti: pianetini irraggiungibili, costanti fisiche piccolissime, fondi cosmici a microonde che non riescono a scaldare neanche un toast. Il risultato è che questi gas vengono emessi sotto lo sguardo indifferente dell’umanità. Ma la vera domanda è: a cosa servono?
Io penso che servano a nascondere dei velivoli. È solo un’ipotesi, è vero, ma un’ipotesi che nessuno ha ancora smentito. Dovrebbero essere fatti più o meno così


Queste gigantesche macchine volanti ci passano sopra la testa in continuazione, giorno e notte. Sono dei veri e propri mondi artificiali in cui vivono spensieratamente i potenti di tutto il mondo. Sto parlando di gente come Bill Gates


Mario Draghi


o il signor McDonald.


Mentre la gente onesta lavora tutto il giorno per potersi pagare la benzina per andare a lavorare tutto il giorno, questi signori attraversano il cielo nei loro lussuosi velivoli e fanno spensieratamente festa sopra le nostre teste.
Ecco perché la notte, ogni tanto, si possono sentire echeggiare nell’aria musiche festaiole, magari accompagnate da schiamazzi e urla di ubriachi. (Per qualche motivo il fenomeno è più facilmente udibile nei pressi dei locali pubblici. Sarà l’acustica).

LA GIORNATA DEL CENSORE

PREZZEMOLO ANIMATO

Il mio prossimo filmino di animazione non sarà visibile nei festival di cortometraggi né su Youtube, ma al cinema. Così, tanto per cambiare.
Ovviamente non sarà un’animazione di un’ora e mezza, ma di cinque minuti scarsi. Siccome vado alla vergognosa velocità di un minuto di animazione al mese, per fare un film di un’ora e mezza impiegherei sette anni, giorno più giorno meno, e in sette anni potrebbe succedermi qualsiasi cosa, potrei diventare Presidente degli Stati Uniti. Così ho pensato di sparpagliare le mie animazioni dentro l’ultimo film di Luca Miniero, un po’ come il prezzemolo. Ovviamente prima ho chiesto il permesso.
Il film si intitola “La scuola più bella del mondo” e uscirà nelle sale il 13 novembre. Si tratta di una commedia con personaggi umani in carne e ossa dove però, di tanto in tanto, uno di loro ha delle fantasie animate, come succede a tutti.
Fra i personaggi che ho disegnato ci sarà naturalmente Dio.


In realtà non sarà proprio così, ma è per non rovinare la sorpresa. Poi ci sarà il personaggio dell’essere umano, fatto a sua immagine e somiglianza


e per finire due uccelli


che non guastano mai.
Del film non rivelo niente, a parte che non vedo l’ora di vederlo.

SABBIA

TUTTO QUELLO CHE C’È DA SAPERE SULLE SCIE CHIMICHE

Le scie chimiche sono una bufala, e questo è tutto.
Ciò detto, vorrei fare qualche considerazione sulle persone che ci credono. Qualcuno potrebbe dire: è vero, le scie degli aerei sono solo scie di condensazione, ma siccome il processo fisico che porta alla loro formazione non è così semplice, allora chi crede che siano veleni spruzzati in cielo per soggiogare l’umanità è tutto sommato perdonabile. E invece no, chi crede alle scie chimiche è solo un insuperabile boccalone, scie di condensazione o non scie di condensazione, perché per capire che è un bufala non serve la fisica, basta solo ascoltare chi propaganda questa teoria: in confronto i Testimoni di Geova sembrano dei sottili studiosi di logica matematica.
Prendiamo per esempio questo video che mi ha gentilmente segnalato un mio collega di cazzeggio. Uno degli argomenti principali di questa specie di documentario è che prima degli anni Novanta gli aerei non lasciavano scie. Proprio così: negli anni Ottanta i cieli erano puliti, l’aria sana, il clima migliore e gli aerei sfrecciavano in cielo senza lasciare nessuna traccia del loro passaggio, niente, neanche “ciao”. Ora, per capire che si tratta di una stupidaggine non è certo necessario avere studiato termodinamica, servono solo tre cose:

1. essere nati prima degli anni Novanta,
2. avere almeno un occhio funzionante fin dalla nascita,
3. non essere degli insuperabili boccaloni.

Io ricordo bene che gli aerei lasciavano scie anche negli anni Ottanta e me lo ricordo proprio perché da bambino pensavo “guarda quanti veleni spruzzano in cielo gli aerei”, cosa che ho continuato più o meno a pensare finché un giorno non ho sentito parlare uno che crede alle scie chimiche. Se non fosse per chi crede alle scie chimiche, io oggi crederei alle scie chimiche.
Un altro indizio della boccalonaggine di queste persone è la smaccata illogicità di un video come questo. Per esempio, a un certo punto si dimostra (“dimostra”) che è impossibile che le scie degli aerei siano scie di condensazione, quindi sono scie di [elenco di tutta la tavola periodica] spruzzate in cielo secondo un piano segretissimo ordito da [tutto il mondo eccetto chi crede alle scie chimiche]. Che è come dire: oggi non è venerdì, quindi è domenica 2 dicembre 1804 e tra poco diventerò imperatore dei francesi. Certo, sarebbe bello, se non fosse che dimostrare la falsità di una proposizione non implica che sia vera una proposizione a caso che piace a me. Purtroppo la logica non è molto rispettosa della libertà di espressione.
E poi naturalmente ci sono gli esperti. Ogni documentario che si rispetti ha sempre degli esperti che garantiscono a tutti gli inesperti in ascolto che le cose stanno veramente come dice il documentario. Siccome nessuno può sapere tutto, bisogna affidarsi al giudizio autorevole di chi sa, e in questo caso i giudizi autorevoli sono quelli di un biologo


e di un fisico.


Certo è curioso che prima mi si dica di non fidarmi della “scienza ufficiale” e poi, per convincermi dell’autorevolezza di due persone, queste mi siano presentate come “biologo” e “fisico” invece che, non so,  come “biologo non ufficiale” e “fisico non ufficiale”, ma lasciamo stare. Chiediamo a Google quanto esperti sono questi esperti, una cosa che si può fare anche senza dottorato in fisica teorica. Dunque, il “biologo” è laureato in scienze biologiche e di mestiere fa gli esami del sangue in ospedale. Fine. Nessun lavoro di ricerca e nessuna pubblicazione, se si escludono i suoi articoli pubblicati su “Notiziario ufo”, “Dossier alieni” e “Ufo”, riviste sicuramente interessanti ma scientificamente attendibili quanto l’Uomo Ragno. Il “fisico”, invece, insegna fisica in un liceo. Anche lui niente ricerca e niente pubblicazioni. Lui stesso scrive nel suo sito: “dopo aver collaborato a varie fanzine e pubblicazioni underground a carattere musicale, letterario e politico, affida ora alla rete i suoi scritti”, che è una cosa bellissima ma non molto autorevole. Si possono anche scaricare le sue canzoni.


Quindi il “biologo” non è un biologo e il “fisico” non è un fisico, così come un laureato in filosofia non è un filosofo, un diplomato in pianoforte non è un pianista e uno che ha preso la patente B non è un pilota di Formula 1. Questo dovrebbe non solo far capire che questi esperti non sono poi così esperti, ma anche far dubitare della buona fede di chi ha fatto il video. E gli stessi dubbi dovrebbero venire ogni volta che si sentono citare formule matematiche da chi ne ignora completamente il significato. Formule tipo questa.


Il video la mostra senza preoccuparsi minimamente di dire cosa significhi, proprio come chi, volendosi fingere dotto, cita massime in latino maccheronico al solo scopo di impressionare l’ascoltatore. Per di più viene letta così: “e, ics, pi meno erre a”, come se “exp” fosse il prodotto di tre variabili invece che la funzione esponenziale.
Il comportamento normale, quando si sente una cosa che non si capisce, sarebbe di provare a capirla oppure di ignorarla, invece il boccalone si lascia convincere anche da quello che non capisce, purché confermi ciò che gli piacerebbe tanto che fosse vero.
Con le teorie che ci piacciono dovremmo essere molto più diffidenti che con quelle che non ci piacciono, perché mentre da queste ultime ci protegge il naturale scetticismo dell’amor proprio, dalle prime non ci protegge nessuno. Invece i boccaloni fanno l’esatto contrario: diffidano solo di ciò che non conferma le loro convinzioni. Non c’è nemmeno bisogno di raggirarli, ci pensano loro stessi a offrirsi già opportunamente raggirati al primo che passa.

LA TRAPPOLA

PILOTI PRECARI

Quando si pensa alla Formula 1 vengono di solito in mente Montecarlo e le docce di champagne, nessuno pensa mai alla drammatica situazione dei piloti, giovani lavoratori che vengono assunti con contratti a tempo determinato con la promessa di un onesto lavoro da pilota e che invece poi, di punto in bianco, vengono lasciati in mezzo alla griglia di partenza senza un lavoro, senza prospettive e con moglie, figli e yacht a carico. Dove potrà mai trovare lavoro un trentenne abituato a guidare su strade private, più o meno circolari e rigorosamente chiuse al traffico? Un impiego nei trasporti pubblici se lo può sognare.
I piloti di Formula 1 sono in assoluto la categoria di lavoratori più trascurata. Si è mai sentito qualcuno denunciare le condizioni lavorative in Formula 1? No, eppure i piloti non hanno ammortizzatori sociali, lavorano anche la domenica e non possono nemmeno fermarsi ai box per una pausa caffè. Per non parlare di tutti i giovani che ogni anno si laureano in patente B con la speranza di trovare un posto in Formula 1 e poi sono costretti a fare il panettiere o l’idraulico, rinunciando così alla passione di una vita.
Guidare in Formula 1 è un diritto inalienabile di ogni pilota. Non è accettabile che un pilota venga licenziato solo perché è più prudente degli altri. Ognuno ha il suo stile di guida e il tempo sul giro non è l’unico criterio per giudicare la guida di una persona. Un pilota può essere lento ma disegnare bellissime traiettorie, farsi doppiare con eleganza o fare ottimi barbecue sul cofano motore. E poi non l’ha detto anche Gesù? “Beati gli ultimi perché saranno i primi”, invece in Formula 1 è tutto il contrario: gli ultimi sono gli ultimi e i primi sono i primi. Assurdo. E se uno non si piega a questa logica perversa viene sbattuto fuori senza troppi complimenti, come se fosse l’ultimo set di gomme del carro.
Perché il governo sta a guardare e non fa niente? Perché i media non ne parlano? Perché i sindacati se ne lavano le mani invece di fare come fanno di solito: indire uno sciopero generale e poi lavarsene le mani? Eppure le cose da fare sono semplici e le conoscono tutti:
1) Stabilizzare i piloti con contratti a tempo indeterminato (dopo i settant’anni potranno comodamente guidare carrozzine motorizzate).
2) Assumere tutti i giovani neopatentati in modo che possano mettere a frutto le conoscenze acquisite nei duri studi sui test a risposta chiusa.
3) Abolire quelle inutili e discriminanti graduatorie dette “classifiche”. Siamo tutti uguali, non ci sono persone più veloci e persone più lente, e anche se ci fossero io non voglio saperlo.
Quindi, riassumendo: gran premi infrasettimanali con ottantaduemila partecipanti, limite dei 50 all’ora per non mettere in pericolo la vita dei nostri figli, corsie riservate agli autobus e, naturalmente, champagne per tutti.

9 MODI PER DIVENTARE FICHISSIMI E FARSI TANTI AMICI

Ora che ci sono gli esperti di social media, anche le persone chiuse e senza amici possono finalmente aumentare le visualizzazioni di se stesse e piacere agli altri, intendo proprio di persona. È sufficiente prendere i consigli dei suddetti esperti e applicarli alla vita fuori da internet. Se funzionano in rete funzioneranno anche fuori, no? In questo modo anche il più sfigato degli sfigati potrà diventare in pochi giorni un irresistibile compagnone. Perché, va ricordato, non esistono gli sfigati, esistono solo persone che non sanno fingere di essere fichissime.

1.
Prima cosa, forse la più importante di tutte, è questa: se vuoi essere qualcuno, regista, astronauta, cowboy, qualsiasi cosa, di’ che lo sei e basta. Con la gente sei quello che dici di essere, non servono patenti. Se nemmeno tu credi in te stesso come puoi sperare che lo facciano gli altri? Vuoi essere fichissimo? Bene, dillo! “Piacere, sono fichissimo”.

2.
Usa tutti i mezzi di locomozione che la modernità ci ha messo a disposizione per essere ovunque: auto, bicicletta, cavallo, tutto, mostra la tua presenza in ogni angolo del pianeta. Solo un consiglio: nel caso usassi la moto, mi raccomando, non mettere mai il casco o qualsiasi altra cosa che ti renda irriconoscibile. L’unico avatar che funziona è la tua faccia, non devi avere paura di mostrarla, anche se sei Picasso. Ricorda: sei fichissimo.

3.
Intrufolati nelle conversazioni altrui ogni volta che puoi, sull’autobus, nei bar o suonando citofoni a caso, e fai un paio di commenti. La gente deve sapere che esisti. L’importante è attenersi a poche semplici regole: scandisci bene la parola “fichissimo”, evita di essere polemico (lo scopo è piacere a tutti), mantieniti sempre sul vago (così nessuno può controbattere), inserisci qua e là qualche battuta che hai sentito in giro (nessuna dote è più apprezzata dell’umorismo, quando si è vestiti) e se per caso qualcuno continua a guardarti con diffidenza, niente paura, scoreggia. Le scoregge funzionano sempre.

4.
Quando esci di casa mettiti sempre un berretto col tuo numero di telefono. Pensa a quante persone incroci per strada tutti i giorni, bene, ora pensa che ognuna di loro è una potenziale telefonata. Ricorda: ogni persona è una possibilità di fare soldi, sesso o, male che vada, una bevuta a scrocco. Non lasciartela sfuggire.
Ancora meglio, tatuati il numero sulla fronte così non devi nemmeno ricordarti il berretto.

5.
Mostra il pollice in su a tutte le persone che fanno qualcosa che ti piace, non so, al cassiere che ti dà il resto, alla donna che allatta il bambino o all’energumeno che inciampa e casca per terra sbattendo il naso. Questo migliorerà la percezione che gli altri hanno di te e ti farà ben volere da tutti. Fidati.
Mostra il pollice in su anche quando una cosa non ti piace, tanto chi se ne frega.

6.
Ogni volta che qualcuno ti fa un complimento, anche per sbaglio, tu corri subito in strada e urlalo a tutti “PAOLO SBERTUCCI HA DETTO CHE SONO FICHISSIMO!!!”. Se gli altri sanno che sei una persona degna di complimenti, anche a loro verrà più naturale farteli. È quello che gli esperti di social media chiamano “essere senza vergogna”. No, forse non lo chiamano così, comunque ci siamo capiti.

7.
Ferma la gente per strada e interpellala su qualsiasi argomento. Alle persone piace tantissimo dire la loro opinione su qualsiasi cosa, molto più che ascoltare l’opinione altrui, e tu devi solo fingere di ascoltarli. Basterà annuire e dire di tanto in tanto cose come “certo”, “ma dai” o “sono completamente d’accordo con te qualsiasi cosa tu stia dicendo”. Ti adoreranno.

8.
Se per caso dovesse mai capitarti di pubblicare un libro, stampare un opuscolo o fare un paio di fotocopie, abbi cura di dirlo a tutti, tutti i giorni, ogni cinque secondi per almeno centomila anni, il tempo minimo indispensabile per permettere alla notizia di propagarsi nella Galassia.


Ciao, ho scritto un libro.

Ah, bene!

Compralo.

Lo farò senz’altro.

Ho scritto un libro, compralo.

Sì.

Ho scritto un libro.

Me l’hai appena detto.

L’hai comprato?

Senti --

Compra il mio libro.

...

Un libro, ho scritto.

...

Compra il libro che ho scritto.

...

Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra il mio libro. Compra...

9.
Infine, cosa importantissima, bisogna sempre far precedere ogni cosa che si dice dalla locuzione “n modi per”. È una cosa che attira l’attenzione su quello che stai per dire, forse perché risveglia lo scolaretto che c’è in ognuno di noi e predispone l’ascoltatore a bersi tutto quello che gli verrà detto. Per esempio, non dire “una birra, per favore”, ma “nove modi per una birra, per favore”. La serata sarà tutta in discesa.

È tutto.
Ci sarebbe in realtà un ultimo trucco, ma è solo per i più esperti, pertanto lo consiglio solo a chi ha già una certa dimestichezza con le strategie di comunicazione: andare ai giardinetti con addosso solo un impermeabile e mostrare i genitali alle ragazzine.
Vedrai quante persone ti seguiranno.

SCIENZA VS FILOSOFIA

PREMESSA
Sarò breve.

SCIENZIATI
Alcuni scienziati odiano la filosofia. Le parole “scienziati”, “odiano” e “filosofia” andrebbero approfondite, ma lasciamo stare (cfr. Premessa). Per esempio Feynman ha detto “questi filosofi sono sempre con noi, si affannano per cercare di dirci qualcosa, ma non comprendono mai realmente le sottigliezze e la profondità del problema”, e l’ha detto nelle sue famose Lectures on Physics, non in pizzeria con gli amici dopo la terza birra. Non tutti gli scienziati sottoscriverebbero le sue parole, ma non sono pochi quelli che considerano la filosofia una disciplina fumosa. Perlomeno oggi, visto che Galileo e Newton non erano ancora stati informati di essere scienziati e non filosofi.
Quindi, trascurando tutte le distinzioni, le eccezioni, le sfumature e ogni altro dettaglio molto importante ma sicuramente poco breve, è possibile riassumere la posizione standard di questi scienziati come segue: la filosofia, come qualsiasi altra disciplina che si ponga al di fuori del metodo sperimentale, non dà nessun contributo significativo alla conoscenza della realtà. Al massimo può avere un valore letterario.

FILOSOFI
Alcuni filosofi odiano la scienza. Non è facile trovare un filosofo che vada giù piatto come Feynman, ma con un po’ di sforzo ce la si può fare. Per esempio Michelstaedter ha detto “la vera funzione organica della società è l’officina dei valori assoluti: la scienza. [...] Negli scienziati vivono i sensi degli altri uomini e gli stomaci preoccupati dell’avvenire”. Michelstaedter è un caso estremo, ma non sono pochi i filosofi che considerano la scienza una disciplina limitata. Molti di loro mi stanno guardando proprio in questo momento dalla mensola sopra il divano. Tolti i positivisti, i neopositivisti, i postpositivisti logici e i neoveteropositivisti postillogici, la posizione standard di questi filosofi può essere così riassunta: la scienza, essendo conoscenza dell’oggettivo, può spiegare i fenomeni naturali ma non può dire niente di significativo sull’essere umano. Al massimo è utile per il benessere materiale.

VERITÀ E REALTÀ
In realtà la filosofia non parla del nulla e la scienza non mira al progresso tecnologico. Entrambe parlano della realtà e hanno di mira la verità. Tutto sta nell’intendersi sul senso delle parole “verità” e “realtà”.

REALTÀ
“Realtà” è una parola molto usata e come tutte le parole molto usate si dà per scontato che sia chiara e ben definita, come se si dicesse “cavatappi”, ma non è così. A essere chiaro e ben definito è solo il suono della parola, non il senso.
Realtà può essere l’insieme (O) delle proprietà oggettive del mondo, ma anche l’insieme (S) delle proprietà soggettive del mondo (N.B. con “soggettivo” non intendo “a seconda di come mi gira” ma “fondato nel soggetto”). Entrambe le realtà O e S sono reali. Per esempio la temperatura appartiene a O, il caldo e il freddo appartengono a S, ma il fatto che ci siano 40 gradi non rende il freddo che sento meno reale. La scienza studia O, il mondo delle cose con temperatura, massa e dimensione. La filosofia studia S, il mondo delle cose con interesse, significato e valore.
Distinguere la realtà in “oggettiva” e “soggettiva” è una cosa da selvaggi, ma eccetera.

OSSERVAZIONE
Mi sto dilungando.

VERITÀ
“Verità” è ciò che è in accordo con O. Questa è l’accezione di verità della scienza. “La gravità diminuisce col quadrato della distanza”: vero. “La gravità aumenta col cubo della temperatura di Abbiategrasso”: falso.
Però non si chiama “vero” solo un enunciato in accordo coi dati sperimentali, ma anche una certa interpretazione che permette di comprendere il senso di un comportamento umano. “Verità” è dunque anche ciò che rende comprensibile S. Questa è l’accezione di verità della filosofia. “L’essenza dell’essere umano è la Volontà”: vero. “L’essenza dell’essere umano è la Cura”: vero.

SCIENZA ♥ FILOSOFIA
La scienza ha bisogno della filosofia, perché se è vero che può spiegare S come effetto di O (se ho freddo con 40 gradi è perché ho la polmonite), è anche vero che O è sempre fondato su S (il concetto di temperatura deriva dalle nozioni di caldo e freddo, non viceversa). L’oggettività della scienza si fonda sulla soggettività dell’essere umano. Se si dimentica questo si rischia di pretendere che la scienza cerchi in O cose che sono in S. Cose come, per esempio, me stesso. Se uno vuole sapere cosa produce in me le sensazioni di caldo e freddo ha bisogno della scienza, ma se vuole sapere cosa significa per me avere caldo o freddo la scienza non basta, perché io, qualsiasi cosa sia, sono in S, non in O.
Ma anche la filosofia ha bisogno della scienza, perché anche se la scienza non può dirmi chi sono, può però dirmi con grande precisione chi di certo non sono: non sono il mio cervello, non sono le cellule del cervello, non sono gli atomi delle cellule e non sono nemmeno la Terra, il sistema Solare o tutto l’universo: da qui fino a dove i più potenti strumenti possono vedere non c’è nessuna traccia di me. La scienza non può dirmi chi sono, è vero, ma senza la scienza è veramente difficile che io mi renda conto fino in fondo di chi veramente non sono.

È TUTTO
Resterebbe da spiegare come sia possibile che una persona intelligente come Feynman (ha vinto un Nobel) abbia definito la filosofia “sciocchezze di basso livello”, e come sia possibile che una persona saggia come Michelstaedter (si è suicidato) abbia definito la scienza “ornamento dell’oscurità”, ma questo è un problema di cui ho già parlato in modo molto poco breve tempo fa e la cui soluzione può essere così riassunta: tracotanza.

HOMO HOMINI BISONTE

Il curioso comportamento di quei grossi animali abituati a vivere in branchi e a correre avanti e indietro per tutta la vita senza nessuno scopo apparente: gli esseri umani.



In concorso al 31° Torino Film Festival.

Disegni e animazioni: Emanuele Simonelli
Sceneggiatura e montaggio: Astutillo Smeriglia
Voce narrante: Guglielmo Favilla
Voci maschili: Fabrizio Odetto
Voce femminile: Simona De Vitis
Musiche: Musopen

Tutte le altre animazioni qui.

GENITORI

BATTUTE A CASO

Siccome è strano che uno che pretende di chiamarsi “Astutillo Smeriglia” si metta a dire cose deprimenti, le poche righe che seguono saranno opportunamente inframmezzate da battute a caso.
"Ognuno deve portare la sua croce", disse Simone di Cirene.
Nel film “Manhattan” c’è quella famosa scena in cui Woody Allen elenca le dieci cose per cui vale la pena vivere. Non ricordo esattamente quali fossero queste dieci cose e non ho voglia di cercarle, ma erano cose tipo la sinfonia  Jupiter di Mozart, un certo giocatore di non so più che sport e il viso di Tracy. Chiunque può trovare dieci cose del genere nella sua vita, cose per le quali poter dire a se stesso che per quanto imperfetto, fastidioso e deprimente sia il soggiorno su questo pianeta, ne è valsa comunque la pena. Io per esempio potrei dire la nona sinfonia di Schubert, il podio di Schumacher con la Mercedes al Gran Premio di Valencia del 2012 e il viso di Tracy. Obiettivamente il viso di Tracy batte qualsiasi cosa.


In città la macchina è indispensabile, serve per cambiare parcheggio quando lavano le strade.
Così uno può raccontarsi che queste dieci bellissime cose rendano sopportabili le altre infinite cose un po’ meno bellissime, perché ogni volta che hai bisogno della nona sinfonia di Schubert, lei è lì, sempre uguale nella tua esecuzione preferita, sempre perfetta, piacevole e rassicurante, e quando finisce puoi riascoltarla ancora, tutte le volte che vuoi, eternamente. Senti che bella parola: “eternamente”. La nona sinfonia di Schubert ha sempre voglia di stare con te, fin dal 1828.
Sono un filantropo, quando vedo qualcuno in difficoltà gli auguro sempre buona fortuna.
Peccato però che, se ci si pensa bene, c’è un problema. È sempre così: quando pensi bene a una cosa salta sempre fuori un problema, credo sia per questo che chi non pensa è mediamente più felice di chi pensa. Il problema in questo caso è che la nona sinfonia di Schubert può essere apprezzata proprio perché la vita non è come lei, e neanche come la nona sinfonia di Bruckner, che sarebbe già qualcosa.
I miei nonni erano così poveri che non potevano permettersi neanche i campioni omaggio.
Se le persone fossero come la nona sinfonia di Schubert, se fossero delicate e eleganti come lei, se si esprimessero con quelle bellissime melodie e soprattutto senza mai dire neanche una parola, sarebbe molto più difficile rendersi conto di quanto è bella la nona sinfonia di Schubert e forse non sarebbe più una cosa per cui vale la pena vivere, visto che la vita stessa sarebbe una cosa per cui vale la pena vivere. Invece la vita è esattamente l’opposto: non solo non è neanche lontanamente bella come la nona sinfonia di Schubert, ma nella vita niente rimane com’è, l’eternamente non esiste. Anzi, se c’è un motivo per cui si può arrivare a dire che ci sono dieci cose per cui vale la pena vivere è proprio che queste cose sono la negazione stessa della vita e quindi, in quanto tali, non fanno altro che sottolineare quanto la vita sia imperfetta, fastidiosa e deprimente. Non sono dieci cose per apprezzare la vita, sono dieci cose per dimenticarla.
Stephen Hawking non è malato, è solo molto pigro.
La verità è che la vita non ha bisogno di motivi per essere vissuta, lei va tranquillamente avanti per conto suo senza aspettare che a te venga voglia di viverla: la vita  inizia, fa le cose che deve fare, più o meno sempre le solite, e poi un giorno finisce, così, come se niente fosse, nella più totale indifferenza dell’universo.
Se mai un giorno aprirò una gelateria, la chiamerò “leccami”.

NOTE A PIÈ DI PAGINA

UNA COSA BELLA

Ogni tanto penso: e se la Terra esplodesse e restasse solo questo blog a testimonianza della specie umana? Se qualcuno, mettiamo un abitante di Plutone, dovesse farsi un’idea di questo pianeta solo leggendo questo blog? Penserebbe che la Terra è un posto orribile pieno di cose orribili e penserebbe che anche la persona che l’ha scritto è una persona orribile, perché alla fine, se a uno piace parlare solo di cose orribili, forse vuol dire che è un po’ orribile anche lui, e così alla fine penserebbe che è stata proprio una gran fortuna che la Terra sia esplosa e, se per un disgraziato caso non fosse esplosa, bisognerebbe assolutamente fare subito qualcosa per farla esplodere.
Ora, la Terra è effettivamente un brutto posto, questo non si discute, e non mi sto riferendo alla sua forma, la sfera è una bellissima figura geometrica. Certo, un cilindro o una piramide sarebbero stati più divertenti, ma lasciamo stare. La Terra è un brutto posto perché è abitata perlopiù da brutta gente, scimmie coi peli a ciuffi che si credono chissà chi solo perché riescono a stare in equilibrio su due zampe. Ma la Terra non è solo questo. Se spegnete un attimo i cannoni plutonici, vi spiego.
Sulla Terra c’è anche la sonata BWV 1016 di Bach, tanto per dire una cosa bella. In nessun altro posto dell’universo c’è una sonata così e, cosa più importante, è una sonata bellissima. Sì, lo so, “bellissimo” è un aggettivo abusato, è “bellissimo” anche un paio di scarpe che fra un anno sarà “bruttissimo”, fra dieci “kitsch” e fra venti “irresistibilmente retró”, ma non è colpa dell’aggettivo, è colpa delle scarpe. “Bello” non significa niente, è come “sgrangamboso”, che un tempo veniva usato per indicare tutte le cose sgrangambose, ma poi tutti hanno iniziato a dire che questo è sgrangamboso e quello è sgrangamboso e alla fine “sgrangamboso” non ha più voluto dire niente, così ora, quando ci si trova davanti a una cosa sgrangambosa, non si sa più che cosa dire, non ci si accorge nemmeno che è sgrangambosa. Per “bello” è più o meno la stessa cosa. Per dire che una cosa è bella bisognerebbe canticchiare la sonata BWV 1016.
Magari a qualcuno può non piacere, è normale, così come a qualcuno può non piacere il Barolo, ad esempio a uno che ha perso il palato in guerra. Non dico che questa sonata sia l’unica cosa bella al mondo, per esempio anche la BWV 1017 non è male, dico solo che se anche fosse l’unica cosa bella al mondo e se tutto quanto l’universo e via dicendo fosse stato messo in piedi solo per arrivare a questa sonata, se la gastroenterite, lo sporco sotto le unghie, i DJ, i pantaloni col cavallo basso, gli amministratori di condominio, l’hip hop, l’accento brianzolo, l’esultanza dopo il gol, gli impiegati piagnucolosi, i manifesti elettorali, i discorsi presidenziali, i passeggini gemellari, i caschi con le orecchie, le riviste di moda, la moda, le barzellette, i capannoni prefabbricati, lo spam telefonico, le soubrette, il Ministero dei Beni Culturali, la cadenza dei giornalisti sportivi e lo squallore ontologico dei sandali coi calzini, se tutto questo fosse solo un effetto collaterale della sonata BWV 1016, ne sarebbe valsa comunque la pena.
Tutto questo per dire, cari amici di Plutone, che prima di far esplodere la Terra è meglio se l’ascoltate.

I DETTAGLI

ADDIO TIMIDEZZA

Siccome ho deciso di smettere di essere timido (dicono faccia male), venerdì 25 andrò al Lago Film Fest e la sera mi esibirò in alcuni classici numeri da non timido: lo scambiare due parole con persone che vivono fuori della mia testa, il camminare in un posto ignoto senza pensare che tutti mi stiano fissando, il guardare l’orologio senza rovesciarmi la birra sulla maglietta, oppure, ancora più difficile, il ricordarmi di non guardare l’orologio visto che sono diciannove anni che non ne porto uno e infine, cosa non priva di rischi per l’incolumità fisica, il rivolgere qualche parola ai presenti per mezzo di uno strumento di amplificazione vocale, altrimenti detto “microfono”, senza balbettare o, nel caso questo sia ancora fuori portata, balbettando facendo finta di farlo apposta per sfottere i balbuzienti. Insomma, una serata scoppiettante. Poi se ci sarà tempo verranno anche proiettati alcuni miei filmini, fra cui Homo Homini Bisonte (non ancora on line), un corto di otto intensissimi minuti disegnato da Emanuelesi e scritto da me, che parla di bisonti che non sanno di essere bisonti e che vengono uccisi e mangiati senza pietà (a volte addirittura senza condimento) da altri bisonti che pensano di essere umani.
L’evento si terrà a Lago, una frazione di Revine Lago, sul lago di Lago, un bellissimo posto che nessun topografo ha mai osato deturpare. E se tutto questo non dovesse bastare, stando a quanto contenuto nel programma del festival, la serata vedrà anche la partecipazione di nomi illustri quali Diecimila.me e Sgargabonzi.
Bene, direi che è tutto. Qualcuno potrebbe chiedersi come ho fatto a smettere di essere timido, semplice: forza di volontà, fiducia in se stessi e benzodiazepine.

I PERSONAGGI

HO CAPITO

Ci ho messo un po’ di tempo, è vero, circa duecentomila anni secondo gli studiosi, ma alla fine ho capito: ci sono tante persone, ma un solo essere.
“Essere” non nel senso di dio, spirito, universo o altri oggetti fisici o metafisici, ma nel senso di essere umani: tutti siamo felici e infelici nello stesso modo anche se per motivi diversi, tutti vogliamo le stesse cose che chiamiamo in modo diverso e tutti viviamo la stessa esperienza che ci raccontiamo in tantissimi modi diversi, per la precisione otto miliardi di modi, al momento. Siamo tutti lo stesso essere umani che si manifesta in tante vite umane diverse, un essere che ogni volta nasce piangendo, si sforza per tutto il tempo di conoscersi e quando muore dimentica tutto, come se non fosse mai stato Carlo, Sandra o Francesco Giuseppe I.
Tutti vogliamo sentirci uniti a qualcun altro, a molti altri o addirittura a tutti, come fanno gli eremiti (anche se la prendono un po’ alla lontana) e usiamo enormi energie nel tentativo di collezionare segni tangibili di queste unioni, segni che siano prontamente consultabili ogni volta che ci sentiamo soli: il regalo di una persona amata, le foto dei figli, il numero di follower, la statuetta di un condannato a morte per un errore giudiziario duemila anni fa e così via, ma in realtà, anche se non lo sappiamo, tutti siamo già uniti, solo che la grande varietà di pettinature e numeri di scarpe ci frega. Guardo me stesso manovrare i corpi degli altri e non mi riconosco.
Quando mi vedo al ristorante da solo, seduto in disparte un po’ a disagio, che magari fingo di giocare col telefono per non dare a vedere di sentirmi tanto solo quanto mi sento, potrei avvicinarmi a me stesso e propormi di mangiare insieme e conoscermi, capirmi, magari sorridermi e poi non so, se è il caso, abbracciarmi e dirmi: niente paura, ci sono qua io. Invece no, mi ignoro. A volte mi tratto male. Spesso mi faccio del male, come si vede in questo dipinto che ho fatto circa un secolo e mezzo fa.


Non dico tutto questo per consolarmi della morte, anzi, da questo punto di vista è pure peggio visto che ora so che morirò infinite volte. Lo dico solo perché, non so come, mi è tornata la memoria.
I ricordi personali mi danno l’impressione che io sia isolato, diverso e ben distinto da tutti gli altri. Non dico che questa sia un’illusione, figuriamoci. Se per caso perdo il telefono, il dispiacere lo provo in questa vita, non nelle altre. Questo è un ricordo. Però è lo stesso dispiacere che si prova in tutte le vite ogni volta che succede la stessa cosa, anche se combinato in modi diversi a tanti altri diversi dispiaceri e quindi vissuto in modo diverso. Anche quando vivevo nel neolitico e andavo a caccia di cinghiali, non mi faceva per niente piacere perdere il telefono. Questa è memoria.
I ricordi ce li hanno anche le bestie, invece la memoria è solo dell’essere umani. Senza memoria, ogni volta da ritrovare e sempre in pericolo di essere persa, non so nemmeno cosa significhi essere umani e quindi non posso comportarmi umanamente. È come se non fossi umano. In un certo senso non basta avere un corpo umano per essere umani.
Ho anche capito che alcuni libri possono effettivamente essere considerati sacri, perché, raccontandomi la Storia o anche solo una storia, possono farmi tornare la memoria su tutto quello che non ricordo. Se questo non è sacro allora non so veramente cos’altro possa esserlo, in confronto i presunti miracoli sono trucchetti da prestigiatori. Più un libro è in grado di farmi tornare la memoria, più è sacro: “Moby Dick” è sacro, “Re Lear” è sacro, “Storia del declino e della caduta dell’Impero romano” è sacro, persino la Bibbia può essere considerata sacra, anche se non per i dogmi che contiene ma per le storie che racconta, perché queste storie mi fanno vedere in quanti modi io, fin da quando esisto, continuamente tenda a dimenticarmi chi sono.
Non so se sapere queste cose mi renda più felice o più infelice, devo ancora fare i conti, di certo, finché avrò memoria, non mi farò più del male.

IL REGALO

IO SONO UN VERBO

Chi sono io? Ovviamente non “io” nel senso di “io io” ma nel senso di “io tu”, “io lui”, eccetera. Chi sono io eccetera? Io io è quello che sta dicendo queste cose che sto dicendo, situato in un preciso punto del XXI secolo e che nel XX secolo, quando il suo corpo non aveva ancora raggiunto dimensioni penalmente rilevanti, amava torturare dei poveri, indifesi e insopportabilmente teneri gattini. Io io è più o meno questo, più l’io eccetera che tutti più o meno sono. Chi è io eccetera?
L’homo sapiens sapiens. Infatti, anche se a volte non si direbbe, ogni persona è un homo sapiens sapiens, cioè un aggregato di molecole organizzate secondo quanto è prescritto dal codice genetico della specie. Il codice genetico è un po’ come una Costituzione, un insieme di norme che definiscono l’organismo e che prescrivono i confini entro cui ognuno può liberamente stabilire le proprie Leggi di comportamento. Per esempio, le narici: c’è chi le usa come passatempo, chi le circonda di peluria, chi le decora con borchie di metallo e così via, ma tutti hanno due narici. Non qualcuna o un paio, ma due, e lo stesso si può dire per ogni altra parte del corpo, interna o esterna, e per tutto il corpo nel suo insieme e questo è sufficiente per definire in modo completo e senza ambiguità l’homo sapiens sapiens. Bene, però io non sono le mie narici. Né io, né io eccetera. Certo se avessi sei narici, quarantanove pollici e infiniti peli arancioni sarei una persona completamente diversa, avrei gusti diversi, obiettivi diversi e mi amerei in modo diverso, eppure io non coincido esattamente con le mie narici, i miei pollici e i miei peli, come dimostra il fatto che anche chi si depila continua a essere se stesso, o almeno così dice. Allora chi sono?
Il cervello dell’homo sapiens sapiens, cioè il pezzo più pregiato di tutto il corpo e, per la precisione, quello che è valso a questa specie il tanto ambito titolo di “sapiens sapiens”. Chissà quanto pagherebbero i cani, i cavalli o i batteri della tubercolosi per fregiarsi di questo titolo: “Mycobacterium sapiens sapiens”, “homo tubercolosis”, fa tutto un altro effetto, eh? E invece una giuria altamente qualificata e imparziale ha stabilito che solo una specie vivente può andare in giro per l’universo a fregiarsi del titolo di sapiens sapiens e questo essere sono io, cioè io eccetera: il cervello dell’homo sapiens sapiens. Infatti, come chiunque può verificare, se si prende una persona e le si accende un frullatore nel cranio, si vedrà che poi non sarà più la stessa persona, sempre che sia ancora una persona. Quindi si può senz’altro affermare che io sono ciò che sono perché il mio cervello è così com’è, cioè io sono il mio cervello. Naturalmente esistono anche altre cose che fanno di me quello che sono, per esempio il temporale. Se il temporale non esistesse o fosse diverso io sarei una persona diversa, non so se tanto o poco, ma sicuramente diversa. Se per esempio i fulmini fossero profumati e se la pioggia salisse invece di scendere, io non reagirei come reagisco quando sento un tuono, non farei quello che faccio quando si alza il vento e non mi sentirei come mi sento quando inizia a piovere, cioè non sarei io. Quindi io sono ciò che sono perché il temporale è come è, cioè io sono il cervello e il temporale. E lo stesso vale per il sole, le formiche, l’acqua, eccetera, io sono tutte queste cose: sole, formiche, acqua, olmi, pulviscolo, escrementi, no, c’è qualcosa che non va. La proposizione “x è quello che è perché y è così com’è” non implica “x è y”, nemmeno quando x sono io e y è il cervello, il temporale o qualsiasi altro pezzo di materia. Io non sono materia.
Allora sono spirito. Ecco, io non ho mai capito la parola “spirito”. Fin da piccolo mi sono sempre immaginato una specie di sostanza invisibile che pervade l’universo e aleggia fra gli spazi interstellari facendo uuuOuuuOuuuOuuu... una via di mezzo fra l’etere aristotelico e il genio della lampada. Poi però mi hanno spiegato che non è così, che quando si parla di spirito si parla di metafisica. Metafisica... Già è difficile capire la fisica, figuriamoci la metafisica. Verrebbe da dire che un concetto come “spirito metafisico” sia una cosa da premio Nobel, se non fosse che ne parlano tutti: preti e baristi. Per questo tendo a pensare che si tratti solo di una delle tante parole-prezzemolo che la gente usa per insaporire i discorsi: uno ha un’opinione, ci butta dentro un po’ di spirito e poi la serve con aria fritta. Certo ci sono anche persone che usano questa parola con un significato preciso e comprensibile a una ristretta cerchia di dotti, peccato che vivano quasi tutte fra il Seicento e l’Ottocento. Io non vedo una grande e essenziale cosa senza nome per la quale ci sia bisogno di scomodare parole come “spirito”, “anima” o “svadigoz”. “Essere umano” va già benissimo.
Io, nel senso di io eccetera, sono un essere umano. “Essere” non inteso come sostantivo, se no tanto vale dire “spirito”, ma come verbo. Io eccetera non sono un homo sapiens sapiens, ma sono l’essere di un homo sapiens sapiens nel suo avere a che fare con tutto ciò con cui un homo sapiens sapiens ha normalmente a che fare: temporali, soli, formiche e naturalmente altri homo sapiens sapiens. Per esempio, io sono l’essere interessato a chiedermi chi sono. Sono l’interesse, non la bocca che esprime l’interesse, né tanto meno una bocca invisibile che aleggia nel mondo delle idee.
È curioso notare come certe frasi acquistino improvvisamente senso se al posto di “spirito” si mette “essere umano”. Non dico che diventino vere, ma perlomeno comprensibili. Per esempio: “I momenti della totalità dell’essere umano sono la coscienza, l’autocoscienza, la ragione e l’essere umano, cioè l’essere umano in quanto immediatamente essere umano, e non ancora coscienza dell’essere umano”. Tutto chiaro, no?

IL COLLEZIONISTA

NATURALE COME UN CHEWING-GUM

I miei genitori erano così all’avanguardia che mi davano lezioni di vita quando ero ancora nell’utero, in alfabeto Morse:

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Credo sia per questo che sono balbuziente.
Ciononostante non erano quel tipo di genitori sessantottini che, per non trasmettere alla prole i pregiudizi e i tabù della aperte virgolette società borghese chiuse virgolette, se ne andavano in giro per casa coi genitali in bella mostra, facevano i loro bisogni sul tappeto e ogni domenica portavano i figli da qualche malato di cancro con la scusa “che sono tutte cose naturali ed è giusto che i bambini si abituino”. Così, naturale o non naturale, io tuttora preferisco stare alla larga da malati e genitali ambulanti.
Quest’idea che “naturale” sia sinonimo di “eccezionale” e “artificiale” sinonimo di “merda” è un’idea completamente senza senso e, come tutte le idee completamente senza senso, presa per vera da tutti.
Prendiamo la pipì di mucca. Esistono poche cose naturali come la pipì di mucca, eppure tutti preferiscono la birra, cioè una bevanda artificiale, prodotta in modo artificiale in posti artificiali e messa artificialmente in bottiglie artificiali. Uno dovrebbe esplodere al primo sorso.
Oppure l’uranio. L’uranio è ancora più naturale della pipì di mucca, visto che non c’è nemmeno bisogno della mucca. L’uranio esiste in natura fresco e genuino, basta solo avere la pazienza di trovarlo, dissotterrarlo e dargli una pulita. La gente potrebbe andare per i boschi in cerca di uranio 238 col suo cestino, gli scarponcini, eccetera, e poi la domenica farsi un bel risotto con uranio e fiori di zucca. Ma attenzione, va mangiato in fretta se no decade in piombo 206.
Io credo che sia tutta una questione di prospettiva. L’uomo è un animale, certo un animale molto più intelligente degli altri animali, come dimostra la sua straordinaria capacità di adattarsi agli ingorghi, ma pur sempre un animale, quindi da un certo punto di vista tutto ciò che produce (chewing-gum, chewing-gum senza zucchero, chewing-gum con xilitolo, eccetera) può essere considerato naturale.
Probabilmente anche un uccello considererebbe il proprio nido una cosa artificiale, ma che io sappia nessun uccello è così intelligente.

STRAORDINARI COMUNICATORI

Sempre più spesso si sente usare l’espressione “straordinario comunicatore” riferita a persone che riescono a ottenere attenzione, soldi o voti da milioni di altre persone con qualsiasi mezzo, esclusa però la violenza fisica, altrimenti, si è deciso, non vale. Così, per esempio, se uno convince milioni di persone a lanciarsi dalla finestra perché tanto la gravità è solo un’invenzione delle compagnie aeree, costui sarà chiamato “straordinario comunicatore” e non quegli altri “straordinari boccaloni”. Com’è possibile? Per caso qualcuno ha manomesso tutti i dizionari on line?
Se non ricordo male, fino a ieri “comunicare” significava esprimere quello che si pensa in un modo comprensibile a chi ascolta, non cercare di capire cosa pensa chi ascolta e quindi dirglielo. Dire una cosa per far piacere a chi ascolta non si chiama “comunicare” ma “assecondare”, e a me pare che quelli che vengono chiamati “straordinari comunicatori” fanno proprio questo: dicono ai loro ascoltatori quello che vogliono sentirsi dire senza esitazioni (esitare fa perdere consensi), senza argomentazioni (argomentare fa perdere consensi), senza nessuna umanità verso chiunque provi a contraddirli (essere umani fa perdere consensi).
Ma supponiamo che questi presunti comunicatori stiano veramente dicendo quello che pensano e che solo per puro caso questo coincida con quello che già pensano e ripensano per conto loro milioni di persone. In questo caso, è vero, non si tratterebbe di assecondatori ma di genuini comunicatori. Ma si può anche dire che siano straordinari? Io penso di no, così come non si può definire “straordinario atleta” chi corre veloce in discesa. Io per esempio riesco a fare i cento metri in circa cinque secondi se mi butto da un viadotto, ma non credo che mi prenderebbero alle olimpiadi.
Quando si dice qualcosa a qualcuno, la propria abilità di comunicatore è da rapportare alla difficoltà del concetto che si vuole esprimere. Se, tanto per fare un esempio a caso, il concetto è “aboliamo il Parlamento”, non è certo necessario essere degli straordinari comunicatori per esprimerlo, visto che basta fare uso delle seguenti tre parole: “aboliamo”, “il” e “Parlamento”, possibilmente in quest’ordine ma non necessariamente, anzi, un semplice “Parlamento merda” svolge già egregiamente la sua funzione comunicativa. Sono parole che chiunque capisce e se in questo momento nessun comunicatore le sta pronunciando, non è perché non ci sia nessuno di abbastanza straordinario in grado di farlo, ma solo nessuno che lo ritenga conveniente. Non ancora, almeno.

PRETI - TUTTO INTERO E IN HD



Nomination David di Donatello 2013
Miglior corto Genova Film Festival 2013
Miglior animazione Vilnius Film Short 2013

Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco).
Musica della versione completa: Nanowar of Steel.
Altre informazioni: qui.

LA COPPIA

ANNO PERSO

E così il coso cinque cose ha perso. Anzi, A PERSO. Peccato. Già pregustavo gli show per le dimissioni di questo e quello, le elezioni anticipate, il governo degli Onesti®, il default dell’Italia-che-tanto-è-già-fallita, la conseguente ribellione armata dei pensionati, il colpo di stato militare, la dittatura dei colonnelli, la guerra con l’Alto Adige per il controllo della strada del vino, e invece niente. Tutto rimandato alla prossima rivoluzione su Facebook.
In questi giorni ho sentito tante spiegazioni di questo fallimento, tutte più o meno interessanti e plausibili, come interessante e plausibile è sempre ciò che non si può verificare, e anche a me è venuta voglia di dirne una. Prima però un breve riassunto per gli abitanti del futuro che non sanno cosa si stanno perdendo.
Domenica 25 maggio 2014 d.C., il partito denominato C5C, gestito da un comico in declino e da un tizio esperto di comunicazione che comunica solo attraverso il succitato comico (un po’ come Sauron e la bocca di Sauron), ha preso il 21% dei voti, che sarebbe tanto, se non fosse che i due avevano solennemente garantito di prenderne almeno il 104%, soglia minima per sentirsi legittimati a intraprendere un ambizioso progetto di sbertucciamento on line di tutti i potenti d’Italia, esclusi naturalmente il tizio stesso, la bocca del tizio e alcuni vip amici della bocca del tizio. Fine del riassunto.
Ora, una cosa che secondo me ha contribuito al fallimento del C5C è il diffusissimo e ormai scontato luogo comune che sia il partito dei gonzi.
Non sto dicendo che sia veramente il partito dei gonzi, magari posso pensarlo ma non lo sto dicendo, quello che sto dicendo è che questo luogo comune lo conoscono tutti e tutti devono farci i conti, anche quelli che non lo condividono. Per esempio, io non penso che Proust sia palloso, però so che è stato bollato come palloso, quindi se parlo con qualcuno di Proust dovrò prima riuscire a scavalcare la pallosità che si è appiccicata all’immagine di Proust (ovviamente è solo un esempio, non ho mai osato leggere niente).
Così succede che se uno vuole imitare il tipico fan 5C in modo chiaro e riconoscibile da tutti, basta che scriva in maiuscolo, sbagli apostrofi e accenti, abbondi coi punti esclamativi e spieghi ogni cosa con misteriosi complotti di poteri forti, banche, Europa, mafia, massoni, ebrei, Gormiti. Ormai è uno stereotipo, e la cosa peggiore è che questo stereotipo ha una caratteristica che non tutti gli stereotipi hanno e che ne facilita la diffusione in tutti gli angoli dei computer del mondo: fa ridere.
Chissà, forse si tratta di una precisa strategia politica:

1. I gonzi sono tantissimi
2. Forse addirittura il 104%
3. Prendo i voti di tutti i gonzi del mondo
4. O VINTO!!!1!

Questo spiegherebbe come mai il tizio esperto di comunicazione, dopo anni di mistero e aura mistica, si sia presentato in TV così


Mancava solo l’elica in cima al cappellino. “Eh, ma”, dicono, “serviva per coprire l’operazione alla testa”. Okay, e magari i capelli stile cocker servivano per coprire le orecchie a sventola, è possibile, ma allora eviti di andare in TV, perché se vai in TV combinato da gonzo, di una cosa sola puoi stare certo: darai l’impressione di essere un gonzo. Soprattutto, poi, se fai un’intervista che più che un’intervista sembra un test di Turing.
Io, giuro, quando l’ho visto ho pensato: è un genio! E invece no.
Un bravo populista deve sì riuscire ad attirare i gonzi, ma senza mai sembrare gonzo a sua volta. Non troppo, almeno. Altrimenti succede che non solo fa scappare quelli che gonzi non sono, ma fa scappare anche i gonzi.
Nemmeno ai gonzi piace passare per gonzi.