Maria Paola, Maurizio e Sir Maximilian III sono il gruppo con cui faccio i viaggi a lunga gittata, dove con “lunga gittata” intendo qualsiasi distanza che richieda un volo in cui io possa guardare almeno cinque film. Ogni elemento del gruppo ha un ruolo ben preciso.
Sir Maximilian III si occupa della logistica (trasporti, hotel, ristoranti) e di comunicare con il mondo esterno. Ha un talento speciale nel trovare hotel che non sembrano hotel ma riproduzioni idealizzate del posto in cui ti trovi, tipo Westworld, dove tutti sono a tua disposizione ma con lo sguardo vagamente senza vita. A volte ti chiedi se anche lì puoi sparare alla gente.
Maurizio (detto “il Prof.”) è quello che individua i punti di interesse culturale e/o naturalistico, si documenta in modo approfondito e poi riassume i risultati delle sue ricerche al resto del gruppo, sempre con leggerezza e ironia. Chi si allontana senza giustificazione durante le sue spiegazioni viene pesantemente redarguito. Si occupa inoltre di comunicare con il mondo esterno.
Maria Paola si occupa di comunicare con il mondo esterno e di trovare soluzioni rapide in tutti quei casi in cui le cose non vanno secondo i piani: voli cancellati, musei chiusi, componenti del gruppo dispersi, creme solari dimenticate in hotel, repellenti per zanzare dimenticati in hotel, bottiglie d’acqua dimenticate in hotel eccetera, qualsiasi cosa tu ti dimentichi in hotel, Maria Paola ne avrà sempre una versione di emergenza con sé.
Il mio ruolo è quello di ricordare costantemente al gruppo tutte le malattie che si possono prendere nei paesi tropicali.
Il motivo che ha portato Sir Maximilian III a scegliere il treno come mezzo di trasporto, cioè un mezzo molto poco idealizzato e dove quasi niente è sotto controllo, è che quando si va in un posto così diverso da quello in cui si è abituati a vivere è importante entrare in contatto con la realtà quotidiana di quel posto e con le persone che ci vivono normalmente, altrimenti è difficile farsi un’idea completa se ci si limita agli hotel e alle attrazioni turistiche. No, scherzo, il motivo è che il treno era il mezzo più economico.
In pratica il Vietnam ha un’unica vecchia tratta ferroviaria di 1700 km che attraversa tutto il paese da Hanoi (vedi foto qui sotto) a Ho Chi Minh, che è la città che una volta si chiamava Saigon e che ancora oggi praticamente tutti in Vietnam chiamano Saigon tranne i cartelli stradali e, presumo, i parenti di Ho Chi Minh.
Siamo partiti da Da Nang alle 23:25 e arrivati a Dieu Tri alle 4:59 in perfetto orario. Ora, non è che io abbia una statistica molto alta di viaggi ferroviari vietnamiti, ne ho fatti solo tre, ma posso testimoniare che tutti si sono svolti nel pieno rispetto degli orari scritti sul sito delle ferrovie, cosa che a un italiano come me fa abbastanza impressione, almeno quanta ne fa trovare le strade senza cacche di cane o gli sconosciuti che non ti aggrediscono verbalmente (in Vietnam si verificano anche questi due bizzarri fenomeni). Giusto per confronto, nel 2022 ho preso finora quattro treni italiani:
Casa – Genitori: 40 minuti di ritardo
Genitori – Casa: sciopero
Casa – Amici: 20 minuti di ritardo
Amici – Casa: 15 minuti di ritardo
Con questo non pretendo di sapere tutto sul Vietnam solo per esserci stato due settimane, sto solo riportando i fatti di cui sono stato testimone: tre treni in orario su tre, niente cacche di cane, sconosciuti non aggressivi e personale delle ferrovie molto efficiente, forse un po’ marziale, come dice Maurizio, ma davvero molto efficiente. Questa efficienza tornerà utile durante il nostro viaggio da Da Nang (se mai riuscirò a raccontarlo, viste tutte queste parentesi).
Personale efficiente, dicevo. Sui treni vietnamiti non sei mai abbandonato a te stesso: che tu sia autoctono o straniero, uomo o donna, eccetera o eccetera, appena arrivi in stazione il personale delle ferrovie ti viene subito incontro e ti guida in tutto il processo di imbarco e sbarco, senza nessun sorriso superfluo ma con infaticabile dedizione al proprio lavoro: ti mostra dove puoi comodamente aspettare il tuo treno, ti viene a chiamare quando arriva, ti accompagna alla tua carrozza, ti sistema il poggiatesta del sedile, addirittura ti sveglia quando arriva la tua fermata (per chi ha il coraggio di dormire su un treno vietnamita) e si immola per te nel caso in cui si verificasse una qualche situazione agghiacciante.
Non sto dicendo tutto questo per lodare il comunismo, come fanno i nostalgici del fascismo quando favoleggiano dei famosi treni in orario di Mussolini. Sto sempre riportando i fatti di cui sopra. Sì, perché a quanto pare il Vietnam è un paese comunista (non lo sapevo nemmeno io), o perlomeno (stiamo ai fatti) è una Repubblica governata da quarantasette anni (47) da un partito unico (1) che ama chiamarsi “Partito Comunista del Vietnam” (☭). A me neanche piace il comunismo. Così come non mi piacciono tutti i sistemi politici che antepongono un ideale di giustizia alla libertà individuale. Sotto questo aspetto il comunismo va nello stesso mazzo insieme al fascismo, al khomeinismo e a tutte le varie teocrazie che da sempre affliggono l’umanità, cambia l’ideale di giustizia cui questi sistemi tendono (a volte neanche tanto), ma il concetto di fondo è lo stesso: prima l’ideale, poi le persone. Capisco che nella testa dei promotori di questo ideale, il suo raggiungimento dovrebbe poi dischiudere all’umanità un mondo di giustizia, felicità e leccornie, ma ci sono un paio di problemi generali che mi piacerebbe esporre.
Il primo è che i cosiddetti ideali non sono degli enti assoluti, eterni e incorruttibili che galleggiano nell’iperspazio, ma sono prodotti umani. Un certo ideale di giustizia (così come di qualsiasi altra cosa: di bellezza, di vita, di caponata eccetera) può essere messo in discussione, rivisto, aggiornato o addirittura può succedere che per qualcuno possa rivelarsi una totale merda. Sì, perché quella che a me sembra una società perfetta, a te può sembrare tranquillamente un incubo. Da questo primo problema discende il secondo.
Anche assumendo per assurdo che un ideale di giustizia assoluto esista veramente, come credevano i filosofi di una volta, e che, una volta realizzato, garantisca veramente e in modo concreto la felicità universale a tutti, bisogna comunque capire che fare con le persone che (sbagliando) rimangono convinte che quell’ideale sia una totale merda. Perché è inevitabile che queste persone esistano e non siano convincibili del contrario di fronte a nessuna evidenza. Anche se chiedi “ti piace la pizza?” non avrai il 100% dei “sì”, figurati se chiedi “ti piace il comunismo?”. Che fare allora con queste persone? Chiamiamole pure “dissidenti”. Se questi dissidenti sono imbelli come il sottoscritto, si possono anche ignorare: peggio per loro. Ma se sono più coraggiosi e propositivi possono diventare una minaccia per la realizzazione dell’ideale di cui sopra e dunque vanno messi in qualche modo a tacere. Da un certo punto di vista è comprensibile: di fronte alla prospettiva di uno Stato in cui finalmente si realizzi il Bene universale, che sarà mai il sacrificio di qualche cretino che si ostina a non capire? E qui arriva il terzo problema (avevo detto due? Sono tre).
Come la Storia ci ha già mostrato con tantissimi esempi (grazie Storia!), chi è convinto di essere dalla parte del Bene con la “b” maiuscola, non si fa molti problemi a fare del male con la “m” minuscola a chi dissente. Per questo (anche per questo, va’, perché non è l’unico motivo) tutti gli Stati etici tendono a degenerare in Stati criminali.
A questo proposito voglio citare questa battuta di “The Life and Death of Colonel Blimp”, un film molto bello (molto più bello di “Treno per Busan”) che Powell e Pressburger hanno fatto nel 1943, quando ancora non si sapeva fino a che punto fossero criminali i nazisti:
We read in the newspapers that the after-war years were bad everywhere, that crime was increasing and that honest citizens were having a hard job to put the gangsters in jail. Well, in Germany the gangsters finally succeeded in putting the honest citizens in jail.
Gli Stati etici fanno sempre così: partono con l’idea del Bene universale e finiscono con un Governo di criminali che perseguita i suoi cittadini.
Che io sappia (ma potrei sbagliare, per favore non si annoveri quello che sto per dire fra i fatti che ho enumerato poco fa: 47, 1 e ☭) il Vietnam non è mai neanche lontanamente arrivato agli eccessi di Hitler o Pol Pot, ma si è limitato all’ordinaria amministrazione: censura, un po’ di violenza contro le minoranze, incarcerazione dei dissidenti eccetera, insomma il piano base di ogni dispotismo.
Appena saliamo sul nostro treno dobbiamo purtroppo constatare che efficienza del personale e puntualità sono gli unici lati positivi dei treni vietnamiti. Il vagone con i nostri posti è talmente affollato e messo male che in confronto i regionali italiani degli anni Novanta sembravano la business class di Emirates. Per documentare la cosa abbiamo fatto anche una foto (cioè Maurizio l’ha fatta, io non ho il coraggio di fare foto contenenti persone a distanza ravvicinata), ma non rende l’idea.
Quello che nella foto non si vede è che vicino a me c’è un secchio dei rifiuti che trabocca, che su tutto il pavimento sono cosparsi i resti alimentari lasciati dai passeggieri saliti e scesi fra Hanoi e Da Nang (780 km), che il sedile di fronte al mio è completamente sfasciato per cui avrò la testa di Sir Maximilian III sulle mie costole per quasi tutto il viaggio (meglio la sua testa che quella di uno sconosciuto, sia chiaro), che l’unico wc del vagone è intasato e pieno fino all’orlo di una sostanza che puoi facilmente immaginare e che immediatamente dietro il mio sedile c’è uno scatarratoio. Proprio così.
Per qualche motivo gli uomini hanno questa usanza di scatarrare. Non le donne, solo gli uomini. E non solo gli uomini con la bronchite, la tosse o almeno un po’ di raffreddore, ma tutti gli uomini, anche quelli che apparentemente respirano senza problemi. Un po’ come fanno i calciatori che sputano in continuazione, anche se per ovvie ragioni loro non hanno a portata di mano uno scatarratoio e devono quindi espellere il loro bolo mucoso sull’erba, la stessa erba su cui poi si rotoleranno spensierati quando esultano per un gol (ognuno ha le sue perversioni). Così, per tutta la durata del viaggio, gli uomini del nostro vagone si alzano a turno dal loro sedile e a uno a uno si posizionano dietro di me a scatarrare in una specie di lavandino: salgono in piedi su una piccola piattaforma rialzata proprio dietro di me, appoggiano le mani ai lati del lavandino dietro di me e per qualche minuto si dedicano meticolosamente all’espettoramento di tutto ciò che riescono a far risalire dai loro bronchi dietro di me, tutto questo senza che tale attività sia nascosta alla vista altrui da una porta o da un tramezzo, porta o tramezzo che comunque non riuscirebbero a nasconderla all’udito, visto che, come si può immaginare, tutta l’operazione è abbastanza rumorosa.
Maurizio, che si è documentato, mi dice che questa pratica è comune in tutto il sud-est asiatico, informazione che accolgo con interesse e un pizzico di stupore, ma che purtroppo non mi aiuta a ignorare il fatto che a pochi centimetri dalla mia nuca stanno scorrendo centilitri e centilitri di catarro.
Ma la cosa agghiacciante del viaggio non è questa.
Viaggiare in queste condizioni sarebbe difficile anche in un viaggio breve e diurno, figuriamoci in un viaggio notturno di cinque ore e mezza (cinque ore e trentaquattro minuti, per la precisione).
Il primo problema che si presenta è quello di sistemare i bagagli nelle apposite cappelliere (si chiamano così?), visto che lo spazio è quasi tutto esaurito. Di appoggiare il mio zaino per terra non se ne parla nemmeno, non lo appoggio per terra nemmeno quando vado dai miei genitori che hanno il pavimento pulito (più o meno), figuriamoci se lo appoggio su un pavimento che ha raccolto i resti di circa 15 ore di pasti, e su questi treni la gente non mangia solo snack e patatine, ma succose cosce di pollo e scodelle di brodo, il tutto in balia di selvagge forze inerziali che proiettano briciole e schizzi in modo isotropo su tutto l’angolo solido. Quindi le possibilità sono due: o appoggio lo zaino per terra e poi, arrivato a destinazione, mi compro uno zaino nuovo e questo lo faccio incenerire, oppure sposto da un’altra parte quella pila di coperte che sta sulla cappelliera proprio sopra i nostri sedili e al loro posto ci metto il mio zaino. L’idea di infilare le mani in una pila di coperte sconosciute su un treno dove l’igiene non sembra essere la priorità numero uno non è che mi piaccia molto, però mi dico: la sporcizia che vedo in giro è stata prodotta dai passeggeri, non dal personale ferroviario che invece è molto efficiente (vedi sopra), quindi probabilmente si tratterà di coperte pulite, perlomeno l’aspetto è quello di coperte pulite, stirate e piegate, e poi cosa vuoi mai che ci sia nascosto fra le coperte di un vecchio treno in un paese tropicale? Così mi faccio coraggio, infilo le mani fra le suddette coperte e le sposto da un’altra parte. Erano effettivamente coperte pulite. Bene.
«Secondo te devo fargli il saluto con il pugno chiuso?», chiedo a Maria Paola mentre il capotreno mi sta gentilmente sistemando il poggiatesta.
«No», mi risponde Maria Paola.
Incredibile che un capotreno così gentile e premuroso sia il rappresentante di uno Stato che perseguita la minoranza Cham, penso. In fondo poteva andare peggio (sono sempre io che penso), è un treno orribile, ok, ma dopotutto ho il mio sedile personale con un bel poggiatesta appena sistemato, sono circondato dalla presenza protettiva dei miei amici, il mio zaino è al sicuro sulla cappelliera e grazie a dio non devo andare in bagno, cos’altro potrei desiderare? Tutto quello che devo fare è chiudere gli occhi e dormire un po’, tra cinque ore sarà tutto finito.
Mentre il treno procede lento e sobbalzoso attraverso (suppongo) le campagne (dico “suppongo” perché è notte e fuori non si vede niente), Sir Maximilian III si sta piano piano addormentando (sulle mie costole), Maurizio sta cercando di prendere sonno leggendo la biografia di Ho Chi Minh e Maria Paola è già chiaramente in fase REM. Ho sempre invidiato la facilità con cui Maria Paola riesce ad addormentarsi in qualsiasi situazione. È davvero un grande potere, peccato non possa usarlo anche sugli altri altrimenti sarebbe una Avenger. Io per addormentarmi quando non sono a mio agio, vuoi perché ho dei pensieri che mi tengono sveglio, vuoi perché dietro di me c’è un tizio che si sta svuotando i polmoni in un lavandino, devo ricorrere a dei trucchi mentali. In pratica quello che faccio è raccontarmi una storia, tipo che la Terra è stata invasa da una razza aliena potentissima che promette di sterminare l’intera umanità a meno che questa non riesca a costruire un mecha gigantesco in grado di sconfiggere il più potente dei mecha alieni in un duello che di solito si tiene su Titano (ma non è detto). L’umanità ha tre anni di tempo per costruire il suo mecha, ma sfortunatamente, a causa di alcune specifiche tecniche che ora sarebbe troppo complicato spiegare, l’unica persona su tutto il pianeta che abbia le caratteristiche adatte per provare a pilotarlo sono proprio io, uno degli esseri umani meno coraggiosi in circolazione, per non dire di peggio.
Questo metodo funziona quasi sempre e in genere mi addormento quando ancora sto cercando di capire come funziona il quadro comandi. In questo caso specifico, però, non riesco proprio neanche a salire a bordo, perché mentre sto ancora decidendo in quale posizione sono meno scomodo, con la coda dell’occhio, da dietro il poggiatesta di Maria Paola, vedo salire un ragno enorme.
Scatto in piedi facendo ribaltare Sir Maximilian III.
«ALZATI E VIENI VIA!», dico a Maria Paola.
«Cosa c’è? Cos’è successo?», mi risponde Maria Paola.
«TU VIENI VIA E POI TI DICO!».
Maria Paola si alza e mi raggiunge nel corridoio, e lo stesso fanno Sir Maximillian III e Maurizio. Penso che il mio tono di voce col caps lock fosse sufficientemente eloquente senza bisogno di aggiungere tante parole.
«Cosa c’è!?», mi chiedono.
«C’è un ragno enorme!» dico, e per rafforzare il senso della mia affermazione lo indico.
Essendo il ragno completamente nero ed essendo notte, in quel preciso momento non lo si può vedere chiaramente, si vede solo che sul finestrino c’è qualcosa che sporge, come un sacchetto, ma appena il treno passa davanti a una zona illuminata la sagoma del ragno appare in tutta la sua enormità.
Qui di seguito riporto le esclamazioni rispettivamente di Maurizio, Sir Maximilian III e Maria Paola alla vista del ragno retroilluminato:
«Oh mio dio!».
«Oh madonna!».
«Santo cielo!».
E si noti che siamo tutti atei.
Enorme quanto? Allora, io ricordo che era grande più o meno come una mano, ma per onestà devo riportare anche l’opinione discordante di Sir Maximilian III che è una persona molto ottimista e che tende sempre a minimizzare i problemi per non rovinarsi le vacanze e, più in generale, la vita: secondo lui era grande come il palmo di una mano. Quali che fossero le reali dimensioni, rimane il fatto che ragni più grandi di quello io li ho visti solo nei film horror. Ma poi, a parte le dimensioni, a parte il colore nero come la morte, a parte l’addome gonfio di non voglio sapere cosa, quello che più di tutto mi ha terrorizzato è il modo in cui è salito da dietro il sedile: veloce, viscido, con movenze chiaramente non umane.
Così rimaniamo in piedi senza avere più il coraggio di tornare ai nostri posti, con quella creatura sempre ferma nello stesso posto che appare e scompare a intermittenza con la luce che entra dal finestrino. Io ormai mi sono rassegnato a passare il resto del viaggio vicino allo scatarratoio, a questo punto il male minore.
Va detto che, oltre al ribrezzo, c’è anche un motivo razionale per avere tutta questa paura: nessuno di noi ha idea di quali ragni ci siano in Vietnam e se siano pericolosi (su questo Maurizio non si è documentato) e quindi, nel dubbio, meglio lo scatarratoio. Ma è proprio quando ogni speranza sembra ormai perduta che ci viene in aiuto la straordinaria efficienza del personale ferroviario, personale che nel caso specifico prende le sembianze del capotreno (i.e. la persona che si può intravedere nella foto che ho pubblicato più sopra dietro la finestrella della porta in fondo al vagone 💕).
Vedendoci in piedi tutti agitati, ci si avvicina per capire qual è il problema.
Per il finale della storia mi affido al racconto di Maria Paola che, a differenza mia, ha avuto il coraggio di guardare tutta l’operazione limitandosi solo a urlare di tanto in tanto. Dunque succede questo: il capotreno avvicina la mano al ragno con cautela ma con l’aria di chi sa quello che sta facendo, si ferma a pochi centimetri dal ragno senza ancora entrare in contatto, ruota la mano un po’ di qua e un po’ di là come per capire quale sia la posizione migliore per afferrarlo, poi di colpo lo afferra nella parte che unisce l’addome alla testa/torace (Maria Paola urla) e lo stacca dal finestrino come fosse una ventosa (Maria Paola urla di nuovo, menzionando alcune divinità). Dopo di che vedo il capotreno che si allontana da noi sorridendo (evento raro) mentre tiene delicatamente il ragno con entrambe le mani, come fosse un pulicino (un pulcino nero con otto zampe che si vedono fuoriuscire dalle sue mani).
Ultima parentesi e poi ho finito: faccio notare che la Maria Paola che urlava assistendo alla rimozione del ragno è la stessa Maria Paola che qualche anno fa, durante un laboratorio in un museo di zoologia, ha preso in mano senza problemi una tarantola (vedi fotogramma qua sotto) e l’ha descritta con i seguenti aggettivi: “pelosetta”, “felpatina”.
La mente umana a volte sa essere veramente assurda e la mente di Maria Paola non fa certo eccezione.
Non so che fine abbia fatto il nostro ragno vietnamita, se sia stato ucciso, buttato giù dal treno, preservato per una grigliata (nella vicina Cambogia i ragni enormi sono considerati una prelibata leccornia (benché non da tutti)) o semplicemente spostato in un altro vagone senza turisti ragnofobi, l’unica cosa certa è che non l’abbiamo più incontrato.
Quando pochi minuti dopo rivedo passare il capotreno (che poi non lo so nemmeno se fosse davvero il capotreno, ma per me potrebbe tranquillamente essere il Presidente del Vietnam) cerco di fargli un cenno di riconoscenza, ma lui mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Che professionalità!
«Ti prego non fargli il saluto col pugno», mi dice Maria Paola.
«Ok», le rispondo.
Arrivati a Dieu Tri, saliamo sul furgoncino che ci porta a destinazione: una zona rurale nei pressi di Quy Nhon dove ci aspetta la nostra casetta di legno in mezzo alla foresta tropicale.
Quello che in questa foto non si vede è che fra la porta esterna e il pavimento c’è una fessura di circa un centimetro.