1.
La vita può essere divisa in due parti, una parte in cui non ci si preoccupa della morte perché tanto arriva nella seconda parte e una seconda parte. Si potrebbero chiamare due tempi, come al cinema: il film è la vita, i titoli di coda sono la morte e quelli che parlano al telefono sono i religiosi, convinti che esista una vita ultracinematografica. Per il resto la differenza è che mentre al cinema vai spontaneamente, nella vita vieni sbattuto a forza, senza nemmeno un trailer o qualcosa del genere, e quello che trovi trovi, può essere Scorsese o Kubrick, ma il più delle volte è Muccino. Lo chiamano il dono della vita, anche se non sembra che i neonati lo gradiscano molto a giudicare da quanto strillano. Sarebbe bello che ci fosse un traduttore di neonati, magari si scoprirebbe che “uè” significa “vaffanculo”.
Per un certo numero di anni, diciamo N anni, uno non si preoccupa di niente, tanto la morte arriva a M anni e M è un numero straordinariamente grande, forse addirittura di due cifre. Il piccolo e il grande sono relativi, e quando si è piccoli tutto sembra enorme, poi un giorno scopri che la reggia dove hai passato l’infanzia era un bilocale in equo canone, il fuoristrada dei tuoi una Panda 4x4 e M un numero ridicolmente piccolo, forse nemmeno di tre cifre. Quel giorno capisci che ti restano solo M - N anni di vita, che possono essere tanti o pochi, ma sicuramente meno di quelli che immaginavi quando non sapevi fare le sottrazioni. A questo punto il problema della morte va risolto. Certo non è obbligatorio, gli appassionati di angoscia e disperazione possono continuare a tenerlo in sospeso, ma tutti gli altri è meglio che lo risolvano. Serve per godersi il secondo tempo in pace, senza inquinarsi ogni cosa col pensiero che tanto bisogna morire. Che senso ha cucinare se i cibi funzionano anche crudi? Che senso ha leggere se il cervello diventerà concime? Che senso ha salire sul treno quando posso sdraiarmi direttamente sui binari? Persino i thriller e i film d’azione perdono tutta la loro attrattiva, tanto non è che se il protagonista riesce a salvarsi poi vive in eterno, morirà di cancro come tutti.
Le persone che hanno risolto il problema della morte si riconoscono subito: attraversano la strada senza guardare, non leggono gli ingredienti dei würstel e quando escono illesi da un disastro aereo si limitano a chiedere informazioni sul volo successivo. È un comportamento saggio. Se uno è costretto a giocare a tennis col primo del ranking, non ha senso che si affanni cercando di vincere, è meglio che si sieda all’ombra col suo Gatorade e aspetti serenamente di perdere 6-0 6-0 6-0. Ora il problema è: come si fa a vivere senza preoccuparsi della morte? Perché la morte, bisogna ammetterlo, è la cosa peggiore che possa capitare a uno vivo.
La vita può essere divisa in due parti, una parte in cui non ci si preoccupa della morte perché tanto arriva nella seconda parte e una seconda parte. Si potrebbero chiamare due tempi, come al cinema: il film è la vita, i titoli di coda sono la morte e quelli che parlano al telefono sono i religiosi, convinti che esista una vita ultracinematografica. Per il resto la differenza è che mentre al cinema vai spontaneamente, nella vita vieni sbattuto a forza, senza nemmeno un trailer o qualcosa del genere, e quello che trovi trovi, può essere Scorsese o Kubrick, ma il più delle volte è Muccino. Lo chiamano il dono della vita, anche se non sembra che i neonati lo gradiscano molto a giudicare da quanto strillano. Sarebbe bello che ci fosse un traduttore di neonati, magari si scoprirebbe che “uè” significa “vaffanculo”.
Per un certo numero di anni, diciamo N anni, uno non si preoccupa di niente, tanto la morte arriva a M anni e M è un numero straordinariamente grande, forse addirittura di due cifre. Il piccolo e il grande sono relativi, e quando si è piccoli tutto sembra enorme, poi un giorno scopri che la reggia dove hai passato l’infanzia era un bilocale in equo canone, il fuoristrada dei tuoi una Panda 4x4 e M un numero ridicolmente piccolo, forse nemmeno di tre cifre. Quel giorno capisci che ti restano solo M - N anni di vita, che possono essere tanti o pochi, ma sicuramente meno di quelli che immaginavi quando non sapevi fare le sottrazioni. A questo punto il problema della morte va risolto. Certo non è obbligatorio, gli appassionati di angoscia e disperazione possono continuare a tenerlo in sospeso, ma tutti gli altri è meglio che lo risolvano. Serve per godersi il secondo tempo in pace, senza inquinarsi ogni cosa col pensiero che tanto bisogna morire. Che senso ha cucinare se i cibi funzionano anche crudi? Che senso ha leggere se il cervello diventerà concime? Che senso ha salire sul treno quando posso sdraiarmi direttamente sui binari? Persino i thriller e i film d’azione perdono tutta la loro attrattiva, tanto non è che se il protagonista riesce a salvarsi poi vive in eterno, morirà di cancro come tutti.
Le persone che hanno risolto il problema della morte si riconoscono subito: attraversano la strada senza guardare, non leggono gli ingredienti dei würstel e quando escono illesi da un disastro aereo si limitano a chiedere informazioni sul volo successivo. È un comportamento saggio. Se uno è costretto a giocare a tennis col primo del ranking, non ha senso che si affanni cercando di vincere, è meglio che si sieda all’ombra col suo Gatorade e aspetti serenamente di perdere 6-0 6-0 6-0. Ora il problema è: come si fa a vivere senza preoccuparsi della morte? Perché la morte, bisogna ammetterlo, è la cosa peggiore che possa capitare a uno vivo.
2.
I metodi finora escogitati per risolvere la morte si possono suddividere in quattro categorie: i metodi che ti danno l’immortalità, quelli che ti danno un succedaneo dell’immortalità, quelli che ti consolano e quelli razionalistici. Ovviamente a me interessano solo i primi. Che senso ha vivere se non si è immortali? Tanto vale uccidersi subito. Non mi va di strisciare su questo pianeta per qualche anno, arrabattarmi per rimediare qualche ridicola gratificazione e poi sparire come se niente fosse. O immortale o niente. I metodi che al posto dell’immortalità ti rifilano qualcosa di sostitutivo, come la prole o un’opera da tramandare ai posteri, mi lasciano indifferente. Che m’importa se pezzi del mio DNA mi sopravvivranno? Primo, io non sono il mio DNA; secondo, ci voglio essere io fra tremila anni a godermi le nuove conquiste dell’ingegneria sessuale, non i miei pronipoti. Si fottano i pronipoti, non muoverò nemmeno un pene per farli esistere. Io morirò? Perfetto, e loro non nasceranno. Uno a uno.
Anche la storia di immortalarsi con una grande opera non mi fa un grande effetto. Non che io non sia in grado di produrmi in qualcosa di memorabile:
Freschi aliburni mattutini che
Si schiudono e sbadigliando si richiudono e
Ridestano in me sibilanti minute e
Vaghe memorie di spossanti tazze di tè
eccetera eccetera, che ci vuole? Il punto è che finché qualcuno non inventa poesie o sinfonie o qualsiasi altra cosa in grado di andare al ristorante o in vacanza al posto mio, la cosa non m’interessa. Perché il nulla è sempre il nulla, anche se lo abbellisci, e quando stai per morire daresti tutta la tua collezione di Nobel per fumarti un’altra sigaretta.
I metodi consolatori sono anche peggio, una vera presa in giro. È incredibile quanti filosofi, dopo aver speso pagine e pagine per dire che la morte è la fine di tutto, che l’esistenza umana è avvolta dal nulla, che la vita è una passione inutile, invece di concludere il proprio pensiero in modo conseguente, cioè appendendosi al lampione più vicino, ti dicono che dopotutto la vita è pur sempre una gran cosa. Sembrano quei film hollywoodiani col lieto fine imposto dalla produzione, solo che in questo caso non c’è nessuna produzione, ma solo la morte che si avvicina. È abbastanza triste vederli fare i bulli finché sono giovani e poi, al primo sintomo di prostatite, rimangiarsi tutto.
Professore, che fa? Prega?
Diciamo che sono in ascolto dell’essere.
Ma non aveva detto che è tipico dell’esistenza banale aver paura della morte?
Chi? Io?
Sì, guardi, l’ha scritto proprio qui, pagina 305.
È la mia parola contro la tua.
Anche i metodi razionalistici non servono a niente. Per esempio ce n’è uno che dice più o meno così “non bisogna avere paura della morte, perché se la morte è il nulla non c’è nulla da temere”. Molto carino, verrebbe quasi voglia di farselo scrivere sulla tomba, peccato che la cosa fastidiosa della morte non è tanto che faccia paura, ma che rovini il piacere di vivere, come la musica in pizzeria o le mutande fra le chiappe quando stai guidando, e lo rovina proprio perché è il nulla, non per altro.
Da bambino ero un bravissimo lupetto. A dieci anni ero già capo sestiglia e sull’uniforme non c’era praticamente più posto per tutte le mie specialità: osservatore, meteorologo, esploratore, ostetrico e molte altre. Ci tenevo moltissimo alla mia uniforme, sempre in ordine e profumata, al mio foulard bianco e rosso e ai miei scarponcini della Lumberjack. Ero l’unico ad avere gli scarponcini di marca, regolarmente spazzolati e lucidati tutte le sere prima di coricarmi. Tutti mi tenevano in alta considerazione per la mia eleganza e per la non comune pulizia delle unghie, poi un giorno sono caduto nella latrina. Non so come sia successo, mi sono piegato sulle assi e sono caduto. Quando il mio Akela mi ha visto mi ha detto, lo ricordo perfettamente, “non piangere, è solo merda”.
Ecco, i metodi razionalistici sono così: non piangere, è solo il nulla.
Anche la storia di immortalarsi con una grande opera non mi fa un grande effetto. Non che io non sia in grado di produrmi in qualcosa di memorabile:
Freschi aliburni mattutini che
Si schiudono e sbadigliando si richiudono e
Ridestano in me sibilanti minute e
Vaghe memorie di spossanti tazze di tè
eccetera eccetera, che ci vuole? Il punto è che finché qualcuno non inventa poesie o sinfonie o qualsiasi altra cosa in grado di andare al ristorante o in vacanza al posto mio, la cosa non m’interessa. Perché il nulla è sempre il nulla, anche se lo abbellisci, e quando stai per morire daresti tutta la tua collezione di Nobel per fumarti un’altra sigaretta.
I metodi consolatori sono anche peggio, una vera presa in giro. È incredibile quanti filosofi, dopo aver speso pagine e pagine per dire che la morte è la fine di tutto, che l’esistenza umana è avvolta dal nulla, che la vita è una passione inutile, invece di concludere il proprio pensiero in modo conseguente, cioè appendendosi al lampione più vicino, ti dicono che dopotutto la vita è pur sempre una gran cosa. Sembrano quei film hollywoodiani col lieto fine imposto dalla produzione, solo che in questo caso non c’è nessuna produzione, ma solo la morte che si avvicina. È abbastanza triste vederli fare i bulli finché sono giovani e poi, al primo sintomo di prostatite, rimangiarsi tutto.
Professore, che fa? Prega?
Diciamo che sono in ascolto dell’essere.
Ma non aveva detto che è tipico dell’esistenza banale aver paura della morte?
Chi? Io?
Sì, guardi, l’ha scritto proprio qui, pagina 305.
È la mia parola contro la tua.
Anche i metodi razionalistici non servono a niente. Per esempio ce n’è uno che dice più o meno così “non bisogna avere paura della morte, perché se la morte è il nulla non c’è nulla da temere”. Molto carino, verrebbe quasi voglia di farselo scrivere sulla tomba, peccato che la cosa fastidiosa della morte non è tanto che faccia paura, ma che rovini il piacere di vivere, come la musica in pizzeria o le mutande fra le chiappe quando stai guidando, e lo rovina proprio perché è il nulla, non per altro.
Da bambino ero un bravissimo lupetto. A dieci anni ero già capo sestiglia e sull’uniforme non c’era praticamente più posto per tutte le mie specialità: osservatore, meteorologo, esploratore, ostetrico e molte altre. Ci tenevo moltissimo alla mia uniforme, sempre in ordine e profumata, al mio foulard bianco e rosso e ai miei scarponcini della Lumberjack. Ero l’unico ad avere gli scarponcini di marca, regolarmente spazzolati e lucidati tutte le sere prima di coricarmi. Tutti mi tenevano in alta considerazione per la mia eleganza e per la non comune pulizia delle unghie, poi un giorno sono caduto nella latrina. Non so come sia successo, mi sono piegato sulle assi e sono caduto. Quando il mio Akela mi ha visto mi ha detto, lo ricordo perfettamente, “non piangere, è solo merda”.
Ecco, i metodi razionalistici sono così: non piangere, è solo il nulla.
3.
Di teorie dell’immortalità ne esistono tantissime, ce n’è veramente per tutti i gusti: reincarnazioni per i testardi, giardini dell’Eden per i nostalgici, settantadue vergini per i morigerati e purgatori per gli stitici. Ci sono persino religioni che ti promettono il nulla, probabilmente pensate per chi non ha afferrato il punto. Siccome l’immortalità è proprio quello che mi manca per essere di buon umore, per un certo periodo ho pensato di aderire a qualcuna di queste religioni. Lo dico senza vergognarmi, dopotutto mi sembra una cosa logica: se uno ha voglia di mangiare una bistecca va in un ristorante, non in una ludoteca o in un autolavaggio. Purtroppo il problema delle religioni è che vendono bistecche invisibili, e io la roba invisibile non riesco molto a digerirla.
Non che sia materialista, non sono un feticista della scienza, uno di quelli che hanno bisogno della verifica sperimentale anche per capire una barzelletta, però obiettivamente con le religioni come si fa? Se ci fosse un indizio, un piccolo riscontro, qualsiasi cosa, sarebbe diverso. Non dico tanto, basterebbe una foto di Gesù che resuscita una scatoletta di tonno o la bolletta dell’illuminazione di Buddha, invece niente, non c’è niente di niente. Così alla fine devi solo fidarti del sentito dire.
È incredibile la facilità con cui la gente crede alle dicerie metafisiche, quando invece sulle questioni terra-terra è molto più sospettosa.
È un’auto eccezionale, mi creda, da 0 a 100 in cinque secondi, e consuma meno di uno scooter.
Fantastico, e chi me lo garantisce?
Lo dice quel tizio laggiù, vede? Quello vestito in modo bizzarro.
E lui come fa a saperlo?
Lo ha letto in un libro scritto duemila anni fa.
Duemila anni fa, eh?
Sì, scritto da gente con le visioni.
Ok, la compro.
E poi c’è anche un altro problema, molto più serio. Le religioni, quando va bene, ti promettono l’immortalità dell’anima, e io dell’immortalità dell’anima non so proprio che farmene. A cosa serve essere immortali se non si può bere lo Champagne, giocare a tennis o rotolarsi fra le coperte? No, grazie, io voglio l’immortalità del corpo, non voglio starmene per l’eternità sospeso nell’etere a contemplare la gloria di Dio, stiamo scherzando? E hanno pure il coraggio di chiamarlo paradiso.
Hai sentito l’ultima?
Dio ha denunciato il Papa per calunnia?
No, pare che il paradiso consista nella contemplazione eterna della gloria di Dio.
Cioè un triangolo con l’occhio?
Sì.
Presto, andiamo a gettare qualche sasso dal cavalcavia.
Non che sia materialista, non sono un feticista della scienza, uno di quelli che hanno bisogno della verifica sperimentale anche per capire una barzelletta, però obiettivamente con le religioni come si fa? Se ci fosse un indizio, un piccolo riscontro, qualsiasi cosa, sarebbe diverso. Non dico tanto, basterebbe una foto di Gesù che resuscita una scatoletta di tonno o la bolletta dell’illuminazione di Buddha, invece niente, non c’è niente di niente. Così alla fine devi solo fidarti del sentito dire.
È incredibile la facilità con cui la gente crede alle dicerie metafisiche, quando invece sulle questioni terra-terra è molto più sospettosa.
È un’auto eccezionale, mi creda, da 0 a 100 in cinque secondi, e consuma meno di uno scooter.
Fantastico, e chi me lo garantisce?
Lo dice quel tizio laggiù, vede? Quello vestito in modo bizzarro.
E lui come fa a saperlo?
Lo ha letto in un libro scritto duemila anni fa.
Duemila anni fa, eh?
Sì, scritto da gente con le visioni.
Ok, la compro.
E poi c’è anche un altro problema, molto più serio. Le religioni, quando va bene, ti promettono l’immortalità dell’anima, e io dell’immortalità dell’anima non so proprio che farmene. A cosa serve essere immortali se non si può bere lo Champagne, giocare a tennis o rotolarsi fra le coperte? No, grazie, io voglio l’immortalità del corpo, non voglio starmene per l’eternità sospeso nell’etere a contemplare la gloria di Dio, stiamo scherzando? E hanno pure il coraggio di chiamarlo paradiso.
Hai sentito l’ultima?
Dio ha denunciato il Papa per calunnia?
No, pare che il paradiso consista nella contemplazione eterna della gloria di Dio.
Cioè un triangolo con l’occhio?
Sì.
Presto, andiamo a gettare qualche sasso dal cavalcavia.
4.
Per questo ho deciso di rivolgermi a Zurek.
Wojciech H. Zurek, per gli amici H punto, lavora al Los Alamos National Laboratory nel New Mexico e si occupa di meccanica quantistica, astrofisica, programmi del caos e immortalità.
Arrivo a casa sua intorno alle tre di pomeriggio.
La stavo aspettando.
Lo so, le ho mandato una mail.
Io non leggo la posta elettronica, perlopiù sono solo ragazzine che impazziscono per le mie teorie sulla decoerenza e la nozione di einselection.
Capisco.
Prego, si accomodi.
Mi fa sedere in una specie di cabina del telefono, stretta, scomoda e soprattutto con un odore schifoso, come di gatto morto. Non faccio in tempo a chiedere spiegazioni che mi ha già chiuso dentro.
Non abbia paura, non le succederà niente.
È terribile quando ti dicono così. Te ne stai sdraiato sulla poltrona del dentista crogiolandoti nel torpore dell’anestesia, pensando ai fatti tuoi senza dover nemmeno fare lo sforzo di deglutire, e a un certo punto ti dicono:
Non abbia paura, non le succederà niente.
Perché? Cosa dovrebbe succedermi?
Potrebbe morire.
Morire!?
Ma non succederà.
La prego, signor Zurek, mi faccia uscire di qui, ho cambiato idea. Giuro che le darò il venti percento di quello che guadagnerò denunciandola per sequestro di persona.
Si rilassi.
Rilassarmi? Come faccio a rilassarmi con questo cartello?
Glielo cambio subito. Così va meglio?
Rimetta l’altro, grazie.
Ascolti, è un trattamento molto semplice. Ha mai sentito parlare del gatto di Schrödinger?
Io faccio Schrödinger o il gatto?
Quando premerò questo tasto --
Quello con il teschio e le tibie incrociate?
Esatto, quando lo premerò, un apparato di misura verificherà lo stato di mille atomi di Zurekio-118, un isotopo radioattivo di mia personale invenzione. Se uno solo di questi atomi è decaduto verrà sprigionato un potentissimo veleno a base di aria di Pianura Padana e lei morirà, se invece nessun atomo è decaduto lei vivrà e subito i mille atomi saranno rimpiazzati con atomi nuovi di zecca. Tenuto conto del tempo di dimezzamento di questo isotopo, circa sedici minuti, e supponendo una frequenza di un tentativo al secondo, ho calcolato che ogni volta che premerò il tasto lei avrà il cinquanta percento di probabilità di morire. È tutto chiaro?
Sì, ora posso uscire?
Abbiamo passato così tutto il pomeriggio: io nella cabina a implorarlo e lui fuori a premere il tasto, ma non sono mai morto, neanche una volta. A un certo punto mi propone di scambiarci di posto: lui entra nel coso e io premo il tasto. Molto gentile da parte sua, solo che al primo tentativo muore. Lì per lì non sapevo bene se essere sconcertato o rattristato. È vero che aveva cercato di ammazzarmi, ma l’aveva sempre fatto molto educatamente, e ora che era morto mi faceva un po’ pena. Mentre gli frugo nelle tasche alla ricerca di qualche euro che possa consolare la mia tristezza, trovo questo biglietto:
Non si rattristi, sono al sicuro in un altro universo. Per capire meglio quello che è successo potrebbe esserle utile qualche lezione di fisica teorica. C’è n’è una che inizia proprio ora in aula B, se si sbriga fa ancora in tempo. Naturalmente può usare la mia macchina, i soldi per la benzina ce li ha in mano.
W. H. Zurek
Aula B.
La meccanica quantistica dice che le particelle si comportano come onde di probabilità. Anche molte persone si comportano così, ma questo non c’entra con la meccanica quantistica.
Prendiamo per esempio un elettrone e supponiamo di misurare il suo spin. Cosa sia esattamente lo spin non è importante, tutto quello che ora bisogna sapere è che può assumere solo due valori: +h/4π e -h/4π, dove h è la costante di Planck
La meccanica quantistica dice che, prima di compiere la misura, l’elettrone non ha uno spin definito, cioè non è come Guido Meda che esiste anche se togli l’audio. Prima della misura l’elettrone si trova in uno stato in cui entrambe le possibilità +h/4π e -h/4π si sovrappongono. Non c’è modo di prevedere il risultato, tutto quello che si può dire è che c’è una probabilità del cinquanta percento di trovare +h/4π e una probabilità del cinquanta percento di trovare -h/4π. È un po’ come lanciare una moneta, solo che non si vede niente.
Ciao, ti va di giocare a “+h/4π o -h/4π”?
Okay, ce l’hai tu l’elettrone?
Credo di sì.
+h/4π.
Okay.
Vai!
...
L’hai lanciato?
Non lo so.
Ci sono altre due grosse differenze fra la misura dello spin e il lancio di una moneta. La prima è che il testa o croce non è veramente un fenomeno casuale, nel senso che se uno conoscesse esattamente la forma della moneta, la traiettoria del lancio e tutto il resto, potrebbe prevedere con certezza il risultato, invece con lo spin non si può. La probabilità dello spin non dipende dall’ignoranza della fisica, molte cose a questo mondo dipendono dall’ignoranza della fisica ma non questa. Il risultato della misura dello spin di un elettrone è autenticamente casuale, come se la particella decidesse lì per lì che fare.
Questa cosa a molta gente non è mai andata giù. Einstein, per esempio, era scandalizzato e sbeffeggiava tutti quelli che la sostenevano, non importava quanti Nobel avessero sul comodino. Diceva che Dio non può giocare a dadi, il che mi sembra perfettamente condivisibile visto che per giocare a dadi bisogna come minimo esistere, ma non credo la intendesse in questo modo.
L’altra grossa differenza fra la moneta e l’elettrone è questa: fatta la prima misura e trovato +h/4π (o -h/4π), poi lo spin non cambia più, tutte le misure successive daranno sempre +h/4π (o -h/4π). Nell’interpretazione standard, la cosiddetta interpretazione di Copenaghen, questo fenomeno è chiamato “collasso nell’autostato”, perché è come se l’elettrone precipitasse definitivamente in uno dei due stati fondamentali.
Ora, tutto questo modo di intendere le cose ha almeno due problemi: il primo è che questo fatto della probabilità trasformerebbe l’universo in una specie di enorme casinò, il secondo è che nessuno ha mai veramente osservato un “collasso nell’autostato”. Ciò non significa che la meccanica quantistica non funzioni. La meccanica quantistica funziona benissimo e oggigiorno la si usa anche per progettare computer e asciugacapelli, l’unica cosa che lascia perplessi è la sua interpretazione ortodossa. In un certo senso si potrebbe dire che funziona nella pratica ma non in teoria, cioè l’esatto contrario del marxismo.
In realtà esiste un modo molto più semplice e intuitivo per interpretare questi fenomeni: infiniti universi.
6.
Nel 1957 un fisico di nome Hugh Everett III concepì una nuova e rivoluzionaria interpretazione della meccanica quantistica, la cosiddetta interpretazione a molti mondi. La espose per la prima volta nella sua tesi di dottorato, dopodiché gli si spalancarono le porte del mercato ortofrutticolo di Princeton.
Le riflessioni di Everett si spingono fino al confine fra scienza e ontologia, e gli scienziati di tutto il mondo hanno meditato a lungo sui suoi scritti prima di appallottolarli e buttarli nel cestino. Sono idee straordinarie e allo stesso tempo semplici, come sempre accade per le idee veramente grandi. Per esempio Everett fu il primo a introdurre la nozione di emoticon nel calcolo tensoriale.
Secondo l’interpretazione standard della meccanica quantistica, la misura dello spin di un elettrone può essere rappresentata in questo modo
Le riflessioni di Everett si spingono fino al confine fra scienza e ontologia, e gli scienziati di tutto il mondo hanno meditato a lungo sui suoi scritti prima di appallottolarli e buttarli nel cestino. Sono idee straordinarie e allo stesso tempo semplici, come sempre accade per le idee veramente grandi. Per esempio Everett fu il primo a introdurre la nozione di emoticon nel calcolo tensoriale.
Secondo l’interpretazione standard della meccanica quantistica, la misura dello spin di un elettrone può essere rappresentata in questo modo
a seconda che il risultato sia +h/4π o -h/4π (le emoticon rappresentano l’osservatore, le palline colorate l’elettrone e le frecce la misura, i + e i - rappresentano dei + e dei -, rispettivamente). Prima della misura entrambi gli stati + e - sono presenti, sovrapposti quantisticamente, mentre dopo la misura l’elettrone è collassato in uno dei due, probabilmente inorridito dall’incontro ravvicinato con un essere umano. Cosa determina il risultato? Il caso. Che fine ha fatto l’altro stato? Boh. Questa in sintesi l’interpretazione standard.
Ecco invece come la stessa misura viene illustrata nella tesi di Everett.
In questa nuova interpretazione tutti i problemi scompaiono: l’elettrone non sceglie a caso in quale stato andare, li sceglie entrambi. Caso e collasso non ci sono più e tutto fila liscio come in una teoria fisica che funzioni. Everett era molto soddisfatto di questa figura, sia perché risolveva elegantemente un’annosa questione, sia per la scelta dei colori. Poi un giorno, quando ormai la tesi era pronta per la stampa e mancava pochissimo alla discussione finale, notò una cosa strana: nella figura, dopo la misura, c’erano due osservatori. Com’era possibile? Cosa significava? Alla fine Everett dovette arrendersi alla sbalorditività (stavo per scrivere sbalordaggine) della sua stessa teoria e accettare l’idea che la misura dello spin facesse sdoppiare l’universo: prima della misura c’è un solo universo, con dentro un Everett che vuole misurare lo spin di un elettrone, dopo la misura ci sono due universi, ognuno col suo elettrone e il suo Everett, due universi identici, perfettamente uguali, a parte un piccolo e trascurabile elettroncino rosso in uno e blu nell’altro. Anche i due Everett sono identici, ignari l’uno dell’altro ed entrambi convinti di essere Everett.
Qualcuno potrebbe trovare questa interpretazione a molti mondi un po’ deprimente, già è difficile reggerne uno di mondo, figuriamoci molti, in realtà si tratta di mondi non comunicanti e completamente impermeabili l’uno all’altro, per cui ogni persona può continuare a lamentarsi del proprio come se niente fosse.
Immaginiamo ora che per qualche motivo l’elettrone rosso sia letale.
L’osservatore che s’infila nell’universo rosso muore, mentre l’altro, quello che sopravvive, ha solo la sensazione di essere stato molto fortunato. In realtà la fortuna non c’entra, uno muore e l’altro vive, ma siccome a essere morti non si prova niente, l’Io continua la sua corsa esistenziale solo nell’universo con l’elettrone blu. In questo modo, anche se uno avesse a che fare con un milione di elettroni
alla fine si salverebbe comunque.
Questi sdoppiamenti e moltiplicazioni di universi accadono continuamente, ogni volta che un sistema fisico (osservatore, gatto, buccia di patata) interagisce con un sistema quantistico. In altre parole l’universo si ramifica di continuo in infiniti universi, e ognuno di noi non può far altro che infilarsi negli universi in cui sopravvive, per quanto improbabili e astrusi possano essere. Ogni essere umano è immortale, solo che lo è nel suo improbabilissimo universo privato, un universo dove tutti gli altri muoiono e dove, fra le altre cose, gli è impossibile suicidarsi. Chi non ci crede può provare.
Grazie a Hugh Everett III e alla sua teoria a molti mondi, ora attraverso la strada senza guardare, non leggo più gli ingredienti del cacciatorino e ogni volta che esco illeso da un disastro aereo mi limito a chiedere informazioni sul volo successivo.