L’ARNESE

Sandro era un ragazzo modello: buona famiglia, ottimi voti, unghie pulite, sempre obbediente e rispettoso con tutti: uomini, donne e divinità. Ogni sera, qualsiasi giorno della settimana fosse, alle otto in punto, si sedeva a tavola coi suoi genitori e cenava con loro, dall’antipasto fino al dessert, parlava del più e del meno, versava da bere al padre, aiutava a sparecchiare la madre e poi andava rispettosamente in camera sua a lustrare l’arnese.
Lustrare l’arnese era una cosa a cui teneva molto, lo aiutava a distrarsi dalle tante preoccupazioni della vita: i compiti di latino, il colore dello scooter, l’acne, il Maggiore Bertola. Quella sera però era diverso. Di solito si metteva davanti allo specchio e lo lustrava con entusiasmo, dicendosi magari qualche parola d’incoraggiamento, invece quella sera si era buttato sul letto e lo lustrava soprappensiero, quasi controvoglia.


Sandro, mi apri?

Papà, non posso.

Ci sono i pasticcini.

Ora non posso.

È mezz’ora che sei chiuso lì dentro.

Sto lustrando l’arnese.

Ah, scusa.

Appena finisco scendo.

Va bene, riferisco.


Ma quella sera non stava veramente lustrando l’arnese, si stava solo gingillando. Per qualche motivo non lo sentiva completamente suo, era come se lustrasse l’arnese di qualcun altro. Sentire tutte quelle voci al piano di sotto non lo aiutava certo a concentrarsi, ma non era solo questo.


Sandro?

Sì, mamma?

Stai ancora lustrando l’arnese?

Sì.

Posso entrare?

No.

Solo un attimo.

Lo sai che non mi piace essere disturbato quando lustro l’arnese.

Giù c’è il Maggiore Bertola.

Sì, l’ho sentito.

Ha portato i pasticcini, lo sai quanto ci tiene.

Digli di venire domani.

È venuto apposta.

Eh, ma se non posso...

Glielo dico.


Era più di un’ora che Sandro lustrava l’arnese, eppure gli sembrava di non avere nemmeno iniziato, anche se ormai aveva le mani tutte impiastricciate di liquido lubrificante. Non era certo il caso di mettersi a mangiare dei pasticcini.


Sandro!

Buonasera, Maggiore.

Tutto bene lì dentro?

Sto lustrando l’arnese.

Sì, me l’hanno detto.

Mi fa molto piacere che sia passato, grazie.

Forse potrei darti una mano.

No, grazie, non è necessario. E poi sono cose che è meglio fare da soli.

Io e i tuoi genitori siamo molto fieri di te.

Grazie, Maggiore.

Se vuoi posso insegnarti qualche trucchetto.

Lei è molto gentile.

Mi apri?

Ormai ho finito.

Forse ti disturba che qualcuno tocchi il tuo arnese?

No, non è questo.

Ho portato i guanti.

È che voglio imparare a cavarmela da solo, caso mai ci fosse una guerra o qualcosa del genere.

Ti rispetto molto per questo.

Lei mi ha insegnato tutto quello che so.

Ho portato i pasticcini.

Li mangio domani, grazie.

Si sciupano.

Dica a mia madre di metterli in frigo.

Insisto.


Il Maggiore Bertola era una persona per bene, sempre ben vestita e con due baffi all’ungherese molto ambiziosi, dopotutto non era uno qualsiasi, ma il figlio di Ludwig Bertola.
Il Maggiore entra nella camera di Sandro con l’aria più affabile del mondo e gli offre un pasticcino.


Aspetti, vado a lavarmi le mani.

Non disturbarti, te lo metto in bocca io.

Nessun disturbo.

Ce l’ho già in mano, guarda.

Faccio in un attimo.

Mi sono messo i guanti apposta.

Così non se li sporca.

Questo non è un problema.

No, sul serio, Maggiore.

Sarebbe un onore.

Non lo merito.

Meriti questo e altro. Apri la bocca.

Lei è molto gentile, ma preferisco andare a lavarmi le mani.

Sandro.

Maggiore?

Lascia che te lo metta in bocca. Tu intanto continua a lustrare l’arnese.