VINCERE LA TIMIDEZZA

PRETI - EP.12 REGNO DEI CIELI



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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PROVACI ANCORA, PIERO

Pronto, ciao Silvia, tutto bene? Non indovinerai mai dove sono.

...

Piero. Non indovinerai --

...

Piero Scapecchio, ci siamo conosciuti il 18 aprile a Roncadelle.

...

La conferenza di Franco Boni sugli impressionisti telematici e il surrealismo pralinato. C’erano anche delle straordinarie tele di Mirko Pagliacci a 70 euro al metro quadro. Praticamente niente se pensi a quanto costa la tela al giorno d’oggi.

...

18 aprile 2004.

...

Me l’hai dato tu.

...

Beh, non direttamente, l’ho segnato mentre lo davi a un mio amico. Io ero quello nascosto dietro la pianta.

...

Un ficus, credo, ma non ci giurerei.

...

Ah, non ne ho idea, non dirmi che tu ricordi i nomi di tutti i tuoi amici? Come si fa? Ho anche provato a usare quelle tecniche mnemoniche, hai presente? Quelle dove usi una storiella per mandare a mente i nomi, ma poi non mi ricordo mai quali personaggi corrispondano a quali amici e allora tanto vale. Senza contare che io non ho amici. Non indovinerai mai dove --

...

Piero.

...

Scapecchio, non Scopecchio. Non mi permetterei mai.

...

Scusa se interrompo i tuoi saluti, ma volevo dirti che sono a Vigarano Mainarda.

...

Pensa che coincidenza! Sono qui per una personale di Nando Chiappa e chissà perché mi sei venuta in mente tu. Vuoi venire?

...

Nessun problema, anch’io devo ancora pranzare. Se vuoi ti passo a prendere. Via Cavour 61, giusto?

...

Ah, ecco perché non rispondi al citofono. Non lo sapevo. Senti, faccio un salto lì in Zimbabwe, ci facciamo una pasta col colera e poi torniamo qui a vedere il Chiappa, okay? Pare ci siano le sue prime opere: colazioni astratte, 140x200, caffelatte su tovaglia. Spettacolari!

...

Nemmeno a me interessano. Pranziamo e basta, offro io.

...

Giusto, allora facciamo così: vengo lì e me lo succhi. Offro io.

...

Pronto? PRONTO?

...

Pronto, Silvia, credo sia caduta la linea.

CIVILIZZAZIONE

PRETI - EP.11 ESEGESI



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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IL CURIOSO CASO DEL CANE DELL’AVVOCATO GIORGIO DIVERTICOLI

Ci sono tanti motivi per prendere un cane: fare felici i bambini, spaventare i ladri, cucinare qualcosa di diverso. All’avvocato Giorgio Diverticoli non interessava niente di tutto questo, lui voleva solo qualcosa di peloso da portare a spasso, qualcosa da redarguire e a cui far fare i bisogni in strada. In teoria non doveva essere per forza un cane, qualsiasi altra cosa pelosa sarebbe andata benissimo, un cane però avrebbe sicuramente dato meno nell’occhio, primo perché i cani sono facilmente trasportabili sulle loro pratiche quattro zampe e poi perché non sono triangolari. In poche parole un cane era esattamente quello che l’avvocato Giorgio Diverticoli aveva sempre sognato.


Ha sognato di nuovo un cane?

Sì, dottore.

Cosa faceva stavolta?

Niente di speciale: abbaiava, scodinzolava, giocava a backgammon.

Con chi?

Con un altro cane.

Capisco. Senta, ora le mostrerò un’immagine e lei mi dovrà dire la prima cosa che le viene in mente.


Una macchia di Rorschach.


Purtroppo l’avvocato Giorgio Diverticoli non si poteva permettere un cane. Non dico un cane di razza come sarebbe stato consono col suo lignaggio (i suoi nonni da parte di madre erano tutti setter inglesi), ma nemmeno un cane usato, uno di quelli con più di centomila chilometri e i rivestimenti con le bruciature di sigaretta. L’avvocato Giorgio Diverticoli non si poteva permettere proprio un bel niente. L’ultimo suo cliente risaliva ai tempi del praticantato, un pilota di Formula 1 accusato di eccesso di velocità.


Pertanto, vostro onore, il mio assistito non poteva essere a Monza quel giorno, essendo impegnato in un omicidio plurimo aggravato da futili motivi.

Un omicidio?

In Texas, vostro onore.


Non che l’avvocato Giorgio Diverticoli fosse un amante dei cani, anzi li odiava, solo che abitava a Bologna, e se a Bologna non hai almeno un cane non sei nessuno.
A Bologna tutti hanno un cane, è una specie di status symbol. Nel resto del mondo la gente sfoggia macchine, neonati e interventi di chirurgia estetica, invece a Bologna sfoggia i cani: viaggia a bordo di cani, partorisce cani e si fa le orecchie da cocker o le guance da bull dog. È una città a misura di cane, piena di odori, palline colorate e irresistibili zufoli, dove non c’è mai il problema di non sapere dove farla. Ci sono locali per cani, concerti per cani, ristoranti con dell’ottimo cibo per cani e università per cani. La gente sfila per strada col proprio cane lustrato e pettinato, pavoneggiandosi col sacchettino in mano, smaniosa di mostrare a tutti come si maneggi la merda. Nessuno esce di casa senza un cane. Le coppie di innamorati vagano assenti per chilometri trascinate dal guinzaglio finché non trovano un posticino tranquillo dove limonare tutti e tre in pace, le signore impellicciate vanno a teatro col cane e poi lo aspettano fuori, l’aperitivo si prende col cane in braccio o direttamente nel bicchiere, e la sera i punkabbestia e i poliziotti passano tutto il tempo ammassati in piazza Verdi a guardarsi in cagnesco mentre i loro cani conversano amichevolmente del più e del meno. A Bologna tutti, ma proprio tutti, hanno un cane, tutti tranne l’avvocato Giorgio Diverticoli.
Esasperato da questa condizione umiliante, un giorno l’avvocato Giorgio Diverticoli prende il ferro da stiro, lo ricopre con una vecchia parrucca e sotto ci mette le rotelle del carrello dei bolliti.


Amore, dove vai col ferro da stiro travestito da cane?

Si chiama Jambo.

Dove vai con Jambo?

È venuto nel mio studio col guinzaglio in bocca, non vorrai che gliela lasci fare sul tappeto?

Quello che chiami guinzaglio è la sciarpa che mi ha regalato mia madre?

Sul serio?

Sì.

Non pensavo fosse tua madre.

Avvocato Giorgio Diverticoli!

Dimmi, amore.

Non credo proprio che a Jambo scappi.

Come no? L’ho riempito con le mie mani.


Che sensazione meravigliosa! Camminare per via Indipendenza a testa alta, senza incrociare sguardi sprezzanti, occhi maligni, indici puntati, risa di scherno, pubblico ludibrio, schiaffi morali, battute pungenti e roast beef (l’avvocato Giorgio Diverticoli odiava il roast beef). È meraviglioso stare fra la gente sentendosi accettati, riconosciuti in un ruolo sociale preciso e apprezzato da tutti: badante di un cane. L’avvocato Giorgio Diverticoli aveva ormai dimenticato tutto questo, così prende il suo taccuino e annota questa sensazione meravigliosa:

“Sensazione meravigliosa.”

D’ora in poi annoterà tutto. In fondo aveva sempre avuto il pallino della scrittura, fin da quando scriveva le parolacce sui banchi di scuola o “ti amo Lorenza” davanti alla porta di una sua vecchia fiamma, una certa Tiziana.


Scusi, che sta facendo?

Oh, buongiorno, sto facendo fare pipì a Jambo, il mio cane. Jambo è il nome del mio cane. Sa, i cani ogni tanto vanno portati in strada a fare i bisogni e Jambo non è certamente da meno. Jambo è il mio cane, così l’ho portato fuori a fare pipì, oggi, Jambo, questo qui, il mio cane.

Mi stai spruzzando tutta l’acqua sullo zerbino!

Non è acqua! È pipì di cane!

Piantala!

Da bravo, Jambo, spostiamoci che il signore è un po’ sulle sue.

Ti avverto, fatti rivedere con quel coso e te lo spacco in testa!


A che serve avere un cane se quando pigi il tasto della pipì tutti si accorgono che è solo un ferro da stiro? A questo punto l’avvocato Giorgio Diverticoli aveva solo due possibilità: aspettare che a Bologna passasse la moda dei cani e arrivasse quella dei ferri da stiro, oppure annotare sul suo taccuino la terribile sensazione di quel momento.

“Terribile sensazione.”

PRETI - EP.10 SEGNI



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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LA BELLEZZA

PRETI - EP.9 TEODICEA



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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L’INGRANAGGIO

Una margherita, un’insalata semplice, un pezzo di torta al cioccolato e una Coca Cola media.

L’insalata con o senza salsa bernese, uova di lompo e avanzi del gatto?

Senza.

E la torta al cioccolato --

Senza biglie di vetro.

È il menù Super Gnam.

Sì.

Con il menù Super Gnam risparmi settanta centesimi e in omaggio c’è... aspetta un attimo...

La cuffia da doccia.

Una sorprendente cuffia da doccia.

Prendo il menù.

Quale menù?

Il menù che hai detto.

Mi dici il nome, per favore?

Preferirei di no.

Devi dire il nome del menù.

Hueham...

Non ho capito.

Super Gnam!

Okay, menù Super Gnam in arrivo!

Al posto della Coca Cola posso avere una spremuta piccola?

Mi spiace, i nostri menù sono standard. Non è possibile fare aggiunte o modifiche.

La spremuta piccola costa esattamente come la Coca Cola media.

Lo so, ma non posso fare un Super Gnam senza Coca Cola più spremuta. Guarda, non ho neanche il tasto sul registratore di cassa.

Lascia stare il menù.

Okay.

Dammi una margherita, un’insalata semplice, un pezzo di torta al cioccolato e una spremuta.

...

Piccola.

È un Super Gnam senza Coca Cola più spremuta.

No.

Te l’ho detto, non posso fare menù personalizzati. Gli sconti valgono solo sui menù scritti qui sopra, sulla tovaglietta di carta o sui manifesti all’ingresso. Se vuoi ti faccio un menù... qual è il menù con la spremuta?

Ahihurp...

Maxi Slurp. Vuoi un menù Maxi Slurp?

Non m’ispirano le delizie di clochard.

Non possono essere sostituite. Tra poco inizierò a sudare.

Non voglio un menù modificato, voglio solo le cose che t’ho chiesto così come sono, senza sconto. Pago tutto quello che c’è da pagare.

Stai cercando di corrompermi?

No!

Non decido io i prezzi. I prezzi sono decisi dalla direzione e applicati automaticamente premendo il corrispondente tasto sul registratore di cassa. Io sono solo un ingranaggio fra la direzione e il tasto.

Prendo una margherita, un’insalata e una torta al cioccolato.

E da bere?

Niente.

Come sarebbe?

Non prendo da bere.

Rinunciare alla bibita è una modifica.

Senti, voglio solo una margherita, un’insalata e una torta.

Ora sto sudando.

Prendo un menù Super Gnam.

Okay. Ecco il tuo Super Gnam, buon appetito.

Perfetto. Ora dammi una spremuta piccola.

Devi rifare la coda.

LA POZZANGHERA ROMANTICA

PRETI - EP.8 APPARIZIONI



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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PEPE VERDE, SPEZIE, MANDORLA AMARA E UN SENTORE DI TAPPO

Una delle regole d’oro per vivere serenamente è disprezzare tutto quello che non si conosce. Serve per non avere il dubbio che ci si stia perdendo qualcosa, in modo da poter continuare a perdersela senza sapere quello che ci si sta perdendo. Non ho detto che serve a vivere bene, serve a vivere serenamente. Vivere male, ma serenamente.
Io, tanto per fare un nome, ho sempre provato pena per i cosiddetti intenditori di vino, per tutta quella marmaglia di parvenu col padellino al collo che invece di stappare e bere, stappa, annusa, esamina, rotea, annusa, inclina, scruta, annusa, sospira, sentenzia, pregusta, annusa, medita, annusa, scaraffa, annusa, esce, sacrifica un capretto a Bacco, torna, beve e sputa tutto in un secchio. Cos’avrà mai di speciale il vino? Pensavo sorseggiando la mia birra Moretti. In fondo lo scopo dell’alcol è stordirsi per sopportare la compagnia degli esseri umani, è da idioti spendere soldi in vino quando puoi ottenere lo stesso risultato con un po’ di alcol Buongusto. Questo pensavo, poi un giorno ho assaggiato un bicchiere di vino e ho cambiato idea. Non avevo mai sentito niente del genere, nel senso che non avevo mai bevuto vino, al massimo solo “vino”, ma vino mai ed è stata una sorpresa incredibile scoprire che non solo non sa di “vino”, ma è addirittura buono. In un attimo mi è passata davanti agli occhi tutta la birra in sconto dell’Esselunga.
Adesso mi piace addirittura andare in quei posti chiamati enoteche, dove a piatti pretestuosi si abbinano vini senza virgolette, vini che in un attimo ti fanno dimenticare lo schifo di gente che ti circonda, quella marmaglia di parvenu col padellino al collo eccetera eccetera, gente che probabilmente penserà la stessa cosa di me, se non fosse che il mio padellino è decisamente più bello. L’unico problema è che non sono posti economici. In generale è difficile cavarsela con meno di cinquanta euro, che nel mio caso significa grosso modo i risparmi di tutta la vita (scrivere su questo blog è meno redditizio di quanto si pensi). Per questo ci vado di rado, ma quando ci vado tutto deve essere perfetto: metto gli occhiali buoni, mi faccio la barba da entrambi i lati e noleggio uno smoking con tanto di bastone, cilindro e coniglio.


Cosa gradisce da bere?

Dunque, vediamo, forse i ciccioli caramellati si abbinerebbero bene con un Barolo Riserva Reale del ‘32, mentre il caviale di cervo chiamerebbe di più un Brunello Superiore Sangue di Cristo del ‘18, quindi nell’indecisione prendo il vino più economico che avete.

Acqua frizzante o naturale?

Quella del bagno andrà benissimo, grazie.


Mi portano un Barbaresco del 2004, 100% nebbiolo, invecchiato tre anni in botti di rovere, rosso granato con riflessi aranciati, 14.5 gradi, quarantaquattro euro. Mentre me lo stappano con tutte le cerimonie del caso, io per sicurezza do una controllata al portafoglio: se rinuncio al dolce e scarto tutti i porcini del risotto posso farcela. Il sommelier annusa il tappo e me lo porge, io, non sapendo che fare, lo mangio. Poi finalmente mi versa il vino.
La prima cosa che ho capito da quando bevo il vino è quando sa di tappo. Non bisogna essere degli esperti o avere una lingua sviluppata come quella di Gene Simmons, semplicemente sembra di bere una spremuta di sughero, tutto qui. Non è questione di fare i difficili o altro, è che se un vino sa di tappo fa schifo, soprattutto se costa quarantaquattro euro e il mio Barbaresco del 2004 costava proprio quarantaquattro euro.


Sa di tappo.

Oh oh oh, tappò! S’è pà posìbl, messió. Quello che lei sante è la botté.

La botté?

Me ui, messió, la botté. Probabilmante lei non è abituató a vini di una scerta strutturà.

Per caso era una botte di sughero?


La prassi vorrebbe che il cliente avesse sempre ragione e tante altre belle cose, ma questo sommelier sembrava non conoscere la prassi. O forse la conosceva molto meglio di me. Inizia a dirmi che se sapesse di tappo lui lo sentirebbe, che tutti lo chiamano Mr. Tappo perché sente un tappo a due chilometri di distanza, che lui fa parte dell’Associazione Sommelier Italiani Nonché Internazionali (ASINI) e via così lodandosi e sbrodolandosi in epiteti lusinghieri rivolti a sé stesso, finché conclude facendomi questa proposta: lui, se proprio insisto, mi porta un’altra bottiglia, ma solo se ammetto che non è il vino che sa di tappo ma sono io che non so apprezzarlo. Quest’ultima frase me la dice con un forte accento di Caserta.
Se fossi stato un vero signore avrei ordinato un altro vino senza fare troppe storie e glieli avrei pagati entrambi, ma poi mi sarebbe toccato restare a lavare i piatti per chissà quanto tempo e questo non so se un vero signore l’avrebbe fatto, così ho pensato che era di gran lunga più semplice bermi in silenzio la mia spremuta di sughero. Dopotutto è sempre meglio di una birra Moretti.

PRETI - EP.7 EUCARESTIA



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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GERRYFAGIA

Sai chi mi piace?

Chi?

Gerry Scotti.

Gerry Scotti e Fiorello sono i migliori.

No, Fiorello è troppo magro.

In che senso?

È troppo magro, cosa ci fai con uno così?

Con Fiorello? Niente.

Appunto.

Veramente lui e Gerry Scotti mi piacciono come conduttori. Sono spigliati, simpatici...

Non avevo mai considerato Gerry Scotti da questo punto di vista.

E da che punto di vista l’avevi considerato?

Fisico.

Intendi dire...

Fisico.

Mm.

Non sto dicendo che mi piaccia sessualmente.

Sicuro?

A me piacciono le donne.

Lo dici solo per farmi piacere.

No, davvero. Gli uomini mi fanno schifo.

Okay.

Pensa che quando vado in bagno non riesco nemmeno a prendermelo in mano.

Adesso non esagerare.

Perché, tu ci riesci?

No, no...

Io mi devo fare la doccia al buio, se no vomito. Gli uomini mi fanno orrore.

Anche a me.

A parte Gerry Scotti. Lui mi piace.

Ma non sessualmente.

No, te l’ho detto.

Okay.

Mi piace nudo, ma non sessualmente.

Cioè?

Mi fa venire appetito.

Gerry Scotti?

Sì. Appena lo vedo me l’immagino roseo e paffuto adagiato su una bistecchiera. A volte, preso dal trasporto, inizio persino a sbottonarmi i pantaloni.

I pantaloni?

Per fare spazio al cibo.

Ah.

Oppure in padella, infarinato e cotto nel burro con un po’ di marsala. Due belle scaloppine di Gerry Scotti. O al forno, semplice semplice, con un rametto di rosmarino fra le orecchie.

Tutto intero?

Sì, perché? A me Gerry Scotti piace tutto.

Ma non ci faresti sesso, vero?

Ma va’, sei matto?

Bene.

Al massimo una bottarella, ma non sessualmente.

LA CITTÀ EROTICA

PRETI - EP.6 SINDONE



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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UFO (UNIDENTIFIED FLYING OXYMORON)

Gli ufo. Come si fa a credere agli ufo? Chi crede in Dio ha almeno una giustificazione: è nato in un mondo dove tutti credono in Dio. Per smettere di crederci dovrebbe avere voglia e tempo di farsi delle domande e il coraggio di darsi delle risposte sgradevoli: non c’è nessuna vita eterna, nessun ente supremo è innamorato di me, tutto svanirà nel nulla. Invece uno che crede agli ufo è uno che ci ha pure dovuto pensare, è uno che ha fatto un ragionamento e alla fine del ragionamento si è risposto: “ma certo! Gli ufo!”. E le distanze immense fra le stelle? Ufo tecnologicamente molto evoluti. E l’assurdità di venire fin qui per nascondersi? Molto evoluti e timidi. E il fatto che non esista nemmeno un articolo sull’avvistamento di ufo su The Astrophysical Journal o su Astronomy & Astrophysics, mentre ce ne sono a centinaia su Focus? Evoluti, timidi e esperti di marketing.
Anni fa mi è capitato di vedere sulla Rai un documentario che parlava di vita extraterrestre, un argomento che m’interessa molto, soprattutto da quando ho capito che la vita terrestre non è che mi piaccia più di tanto. Bene, chi hanno chiamato a parlarne? Un astronomo? Un esobiologo? Uno scrittore di fantascienza? No, hanno chiamato uno “studioso di ufologia”, che è come dire un “esperto di niente” o un “letterato analfabeta”, cioè uno che al massimo può parlare con competenza di ossimori, ovviamente ossimori volanti non identificati.
Per tutto il tempo la trasmissione ha confuso l’ufologia con la ricerca di vita extraterrestre e ha inanellato una tale serie di catastrofiche stupidaggini, che per un attimo ho pensato che fosse uno scherzo, una gigantesca messinscena televisiva organizzata ai miei danni su un pianeta Terra di cartapesta e con una storia universale interpretata da figuranti, solo per arrivare finalmente al giorno dello scherzo: io che guardo questa cosa in tv.
Ecco un breve estratto significativo.



"Cosa raffigura quell'oggetto rosso a destra della croce?"


Anche cercando “San Girolamo” con Google non si riesce proprio a capirlo. Cosa sarà mai? Un mandala 3d?


Un set completo per immersioni subacquee?


Un orinatoio ergonomico?


Una lavatrice con carica dall’alto?


Una grattugia elettronica?


Una stampante laser senza ruote?


Wally?


Fettine sceltissime di bovino adulto?


No. È un disco volante. Paolo Uccello ha voluto sorprendere tutti raffigurando San Girolamo senza il suo caratteristico cappello, e al posto del cappello ha preferito dipingere un disco volante delle dimensioni di un cappello, a forma di cappello e appoggiato per terra come un cappello.
Questa roba non solo è andata in onda sulla tv di Stato, ma è pure andata in onda col bollino "Rai Educational". Mi chiedo: se questa è la tv “educational”, com’è la tv “non-educational”?
No, scherzo, non voglio saperlo.

LA VORAGINE

PRETI - EP.5 TELEOLOGIA



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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ALCUNE FOTO DI ME

Ricevo e volentieri pubblico questa mail di Samantah, una ragazza che ho conosciuto per caso qualche giorno fa passando per la casella dello spam. In genere cestino queste cose, ma stavolta ho deciso di non restare indifferente.

Ciao,
Samantah è il mio nome e ho venticinque anni. Io vivo a Praga, in Polonia, una città bella e piena di libidine, ma anche così povera. Scusa se il mio italiano non è perfetto, ho iniziato a imparare di recente. Se per caso sbaglio qualche parola, per favore, leccami.
Durante il comunismo io e la famiglia siamo vissuti comodamente, non è che navigavamo nello smegma (si dice così, vero?), ma in qualche modo riuscivamo sempre a farcela. Ora tutto è diverso. Il capitalismo ha fatto buone cose, il libertino mercato e una certa lussuria, ma anche tanta ingiustizia. I miei genitori hanno perso il lavoro e io e la famiglia siamo caduti in disgrazia. Non ti descrivo le pene in cui viviamo, enormi e turgide pene.
Io ho trovato lavoro alla Durex, faccio la collaudatrice a cottimo, ma il poco denaro che guadagno è a malapena sufficiente per la cura medica. Devi sapere che soffro di una forma molto non scherzosa di ipertrofia al petto (le disgrazie non vengono mai sole) e il mio corpo sottile rende molto difficile trasportare queste enormi e sode mammelle. Periodicamente si gonfiano di latte e, se non trovo qualcuno disposto a succhiare, inizio a straripare e spruzzare in tutto il mondo e rischio lo svenimento in preda a spasmi, se qualcuno non aiuta i miei poveri capezzoli.
Ti allego alcune foto di me. Come puoi vedere non ho i soldi per comprare vestiti e sono costretta a stare tutto il giorno in mutandine di pizzo e giarrettiere. Non è una vita semplice e veramente non so più dove sbattere. Scusa se non sono molto brava a esprimere me stessa, ma immagino che tu sei abbastanza superdotato per capire.
Pensa che in inverno io e le mie piccole sorelle Sarah, Hannah e Luisah (tutte venticinque anni come me) per riscaldarci siamo costrette a strofinarci l’una contro l’altra. È molto penoso, perché Hannah è una persona eccitabile e questo tipo di cosa la sfinisce.
L’altro giorno, per combattere il freddo, si è cosparsa tutto il corpo di gelato alla crema, ma il gelato è tanto freddo (purtroppo non abbiamo nemmeno i soldi per studiare termodinamica) e così io e le altre abbiamo dovuto leccare. Tremava tutta, poverina! Tu al calduccio nella comoda casa italiana non sai nemmeno immaginare i posti dove riesce a infilarsi il gelato. È stato un lavoro lungo e cistercense, ma alla fine siamo riuscite a leccare tutto. Avresti dovuto vederla, quanta compassione faceva, tutta sgocciolante di saliva coi capezzoli appuntiti per il freddo.
Per questo ti chiedo di aiutarci e inviarci un paio di euro. Non importa una grande somma, quello che hai in banca va benissimo.
Un bacio grande grande con le mie grandi labbra.
Samantah

I SUOI CAPELLI

PRETI - EP.4 MORALE



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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COPPIA D’ANIMALI

Molte specie animali formano coppie: rinoceronti, pesci martello, ratti della sabbia, eccetera. Naturalmente esistono delle eccezioni, per esempio i tonni se ne stanno isolati in piccole lattine di metallo, comportamento comune a molti animali sott’olio, mentre alcune specie di molluschi si ammucchiano in grandi quantità attorno al proprio capo di partito, tuttavia si tratta di casi rari. La maggior parte degli animali tende a formare coppie. La stabilità di queste coppie varia da specie a specie e può andare da pochi nanosecondi (il tempo medio di una copula per l’homo sapiens sposato) a centinaia di anni, come per le statuine di plastica sulle torte nuziali. È bene precisare che non si sta parlando di monogamia, comportamento abbastanza raro in natura e praticato soprattutto dopo i novant’anni, ma semplicemente di coppie, cioè di gruppi di due animali più o meno della stessa specie dove uno dei due, quasi sempre lo stesso, introduce una parte del proprio corpo, quasi sempre la stessa, nel corpo dell’altro senza essere denunciato. Eccezione: se un essere umano introduce nel proprio stomaco un petto d’anatra, costui e l’anatra non vanno considerati una coppia, a meno che l’anatra non sia consenziente.
Qual è l’origine di questo comportamento? A cosa serve? È qualcosa che ha a che fare col sesso?
Chiunque abbia un po’ di esperienza avrà certamente notato che al mondo esistono due sessi. Attenzione: “sessi”, non “generi”. La parola “genere” appartiene al gergo politicamente corretto oggi tanto in voga e non vale la pena usarla, perché presto sarà sostituita da qualche altro eufemismo, qualcosa come “tipo” o “categoria”, finché di ammorbidimento in ammorbidimento tutte le parole del mondo saranno sostituite da un più asettico “cosa”.


Cosa cosa cosa, cosa.

Cosa cosa cosa.

Cosa?

Cosa.


Perché due sessi e non sette o otto? O, ancora meglio, uno solo? Sarebbe fantastico se ci fosse un sesso solo, la vita sarebbe incredibilmente più semplice e serena. Un essere umano dedica circa la metà del suo tempo all’accoppiamento (il doppio se si tratta di un maschio): il novanta percento di questo tempo è speso a pensare all’accoppiamento, l’uno percento a praticarlo e il resto a pulirsi. È chiaro che senza queste preoccupazioni uno potrebbe dedicarsi maggiormente a cose più serie, come l’ufologia o i viaggi nel tempo, la sua vita scorrerebbe pacifica e serena finché un giorno, alla prima masturbazione, paf! si sdoppierebbe in due neonati identici, entrambi forniti di mammelle per potersi autoallattare. Purtroppo il problema è che con un solo sesso sarebbe impossibile il rimescolamento genetico e oggi il genere umano non sarebbe così assurdamente evoluto. Probabilmente vivrebbe ancora in enormi scatoloni di cemento e andrebbe pazzo per i quiz televisivi.
Un numero di sessi superiore a due garantirebbe un rimescolamento genetico molto superiore e la specie umana riuscirebbe ad adattarsi anche ai cambiamenti climatici più rapidi: in inverno nascerebbero bambini con le orecchie pelose e in estate con le ciabatte di gomma, però diminuirebbero in modo proporzionale le possibilità di accordarsi sul giorno e il luogo della copula. È già difficile mettersi d’accordo in due, figuriamoci se ci fossero più sessi, ognuno col suo ben determinato set di orifizi e protuberanze e la sua personalissima idea su come deve essere un rapporto.
Chiaramente due sessi è il compromesso migliore: è più facile accontentarsi e c’è un briciolo di speranza che il figlio non sia un imbecille come i genitori.

L'ULTIMA EMAIL

PRETI - EP.3 LITURGIA



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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INTERVISTA A DIO

Prima di tutto una domanda doverosa, qual è il suo vero nome?

...

Non so se ha letto i giornali negli ultimi tremila anni, ma c’è un dibattito molto acceso su questo punto.

...

Non mi dica che nemmeno lei può nominare il suo nome. Come fa quando telefona? “Pronto, sono tu sai chi”?

...

Okay, senta, perché ha creato il mondo?

...

Ci pensi pure tutto il tempo che vuole.

...

Apprezzo molto le persone riflessive, per non parlare delle divinità riflessive.

...


Intanto che ci pensa, mi dice almeno perché ha creato l’uomo?

...

L’uomo, la donna e tutto quel che segue.

...

Non lo sa o non vuole che si sappia?

...

Se mi permette, vorrei farle vedere come li avrei creati io. È solo uno schizzo, eh.

...

Le piace? Mi sarei permesso di aggiungere un cervello di scorta.

...

Ah, e questa qui non è una canna da pesca ma il pene. Molta gente lo apprezzerebbe, sa? Io penso che se gli uomini riuscissero a succhiarselo da soli ci sarebbero molte meno guerre.

...

Chi tace acconsente?

...

Lei è decisamente un tipo di poche parole, è curioso che abbia tutto questo successo.

LA COLLANA

PRETI - EP.2 CONSENSUS GENTIUM



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

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MAYA, UN NOME TROPPO PICCOLO PER UN POPOLO COSÌ GRANDE

I Maya sono un popolo con una storia antichissima, eppure di loro sappiamo ancora molto poco. Ecco alcune cifre: 21 5 74 1 1 96.
La parola “Maya” significa “proboscide”, ma quello che è ancora più curioso è che nella lingua dei Maya la parola proboscide non esiste, o perlomeno non si scriveva così. Il sistema di scrittura Maya è ancora oggi uno dei più grandi misteri dell’archeologia moderna. Ecco per esempio un’iscrizione trovata su un vaso a forma di grande conchiglia nei pressi di Nacajuca:



Queste parole sono invece state rinvenute su una piccola scultura in Guatemala a forma di sasso qualsiasi:



I Maya vivevano in sontuosi palazzi a forma di spazio sotto gli alberi, costruiti perlopiù in legno lavorato a tronco avvolto da corteccia e con tegole di foglie che servivano per ripararsi dalla pioggia, una delle tante invenzioni Maya. Il loro abbigliamento era semplice e allo stesso tempo raffinato: le donne vestivano comodi involucri di epidermide ornati da due lunghe cotolette con capezzolo e da un triangolino di pelo molto discreto, mentre la moda maschile prevedeva un elegante batacchio penzolante fra le gambe, forse usato per misurare il tempo.
La scienza dei Maya era straordinariamente avanzata e non aveva nulla da invidiare a quella di altri grandi popoli come gli Unni, i Vandali o i cacciatori di teste del Borneo. Per esempio conoscevano lo zero e probabilmente anche il cinque, il nove e il ventiquattro e sapevano benissimo che la Terra è sferica, anche se la loro idea di sfera non era esattamente come la nostra.


Il sistema cosmologico dei Maya poneva la Terra al centro dell’universo e il Sole, gran sorriso della divinità, al di sopra dei pezzi di stoffa (le nuvole) che portano alla bocca una ciotola di formiche (la Luna) ruotanti verso destra con la pancia sporgente (le stelle, Giove e Pluturno).
Molti associano i Maya alla violenza dei riti religiosi, ai sacrifici umani e così via, ma questa fama è assolutamente immeritata. Facevano tributi di sangue alle divinità, è vero, ma la cosa non li divertiva per niente.
Che altro? Si spostavano da un posto all’altro usando gratuitamente i piedi, non avevano centrali nucleari e, scoperta recentissima, sono stati i primi a inventare la polvere da sparo, cosa di cui andavano ghiotti. Sembra invece infondata la credenza che li vorrebbe creatori dell’opera lirica: i Maya non sapevano cantare né suonare, come dimostrerebbero numerosi graffiti che li rappresentano mentre non cantano e non suonano, ma questo non è da vedere come un limite. Il disinteresse dei Maya per la musica ha probabilmente le sue origini nel modo in cui si pettinavano, anche se al momento rimane solo un’ipotesi senza senso.
Un discorso a parte merita il calendario di questo grande popolo, probabilmente uno dei più ingegnosi e sofisticati. L’anno è suddiviso in otto mesi, uno subito e gli altri a seguire. Il primo mese è quello stabilito per fecondare le donne e ha la durata di ventisei giorni, mentre gli altri durano in tutto duecentocinquantuno giorni e sono assegnati alla fecondazione delle donne che non ci stanno. La durata dell’anno Maya è quindi di duecentosettantasette giorni più o meno undici a seconda dell’umore del dio Oca Selvatica, che si manifesta sotto forma di oca selvatica tutte le volte che un Maya incontra un’oca selvatica. Le oche selvatiche erano sacre per i Maya, infatti le mangiavano con molto rispetto. A noi questo calendario può forse sembrare scomodo, ma sarebbe sbagliato giudicare una cultura così lontana con i nostri criteri. Per i Maya la precisione e la regolarità non erano valori, mentre tenevano in grande considerazione l’imprecisione e il fare le cose a caso.
E poi ci sono i leggendari rutti Maya, terrore dei nemici (i Maya non avevano nemici) e all’occorrenza pratici asciugacapelli (se solo avessero avuto la bocca sopra la testa), ma l’argomento è troppo complesso per poter essere trattato senza birra.

L'ISOLA

PRETI - EP.1 GENESI



Voci: Guglielmo Favilla (stagista) e Fabrizio Odetto (parroco)
Musica: Snook

(Episodio successivo)

ADAMO E GRAVITÀ

I MIEI PROSSIMI VENTIQUATTRO FILM

Un uomo va da un uomo per imparare il lavoro che ha sempre sognato (per quanto possa sembrare incredibile ci sono uomini che sognano un lavoro, mentre non pare ci siano cocorite che sognano una gabbia), non un lavoro qualsiasi, ma un lavoro dove ci si mette in costume e ci si esibisce davanti a un pubblico, nella speranza che questo ricambi con offerte generose. Non sto parlando dello spogliarellista, ma del prete. Distinguere un prete da uno spogliarellista è facilissimo, il prete è quello fissato col sesso.
Due preti si incontrano, uno vecchio e uno giovane, e quello vecchio insegna a quello giovane tutti i trucchi del mestiere: come vanno servite le particole, che vestiti mettere a seconda dell’occasione e soprattutto, la cosa forse più difficile, come raccontare barzellette rimanendo seri. Questa in sintesi la trama dei miei prossimi ventiquattro film. Sì, ventiquattro. Ventiquattro come le ventiquattro ore del giorno, le ventiquattro tonalità maggiori e minori, le ventiquattro stagioni. Certo, si tratta di ventiquattro film che durano circa un minuto l’uno, ma sono pur sempre film, perché un film è un film anche se dura un minuto, così come il nulla è il nulla anche se dura un’ora e mezza. In pratica si tratta di un reality show di animazione: ventiquattro dettagliatissime perlustrazioni della vita quotidiana di due preti alle prese coi problemi di tutti i preti: tenersi occupati in attesa della morte. Che poi è un po’ il problema di tutti gli esseri umani. Infatti la differenza fra un essere umano e un essere cavallo, procione, ragno o mesoplodonte di Travers è che la cavallitudine, la procionaggine, la ragnezza o la mesoplontità di Travers hanno tutte una fine, mentre l’umanità ha una fine e in più sa di avere una fine. Voler vivere e sapere di dover morire. Divertente, vero?
Fare il casting per i due protagonisti non è stato semplice. All’inizio pensavo di scegliere due spogliarellisti


poi una maestra e un calciatore


un muratore e un nazista


una flautista e un pilota di formula uno


una molecola di azoto e un cowboy


San Pietro Martire e Robofrog VI


poi alla fine ho pensato che era meglio scegliere due preti. Chi meglio di due preti può rappresentare la vita di due preti?


Il titolo della serie è “Preti” e sarà visibile a partire da lunedì prossimo su questo blog, tutti i lunedì, ma forse anche qualche giovedì, oppure, può succedere, a volte il mercoledì o il venerdì, ma sicuramente mai il sabato o la domenica (anche se non ci giurerei).

NEWTON E EVA

PODIO PER TUTTI

Carissimi,
sono Giancarlo Trombetta e come tutti voi ho preso parte alla prestigiosa corsa campestre di Bovinate in Puntarecchia. Domenica prossima, tempo permettendo, ci sarà la cerimonia di premiazione in piazza Duomo in presenza del sindaco, una vetrina importante per atleti giovani come noi, alcuni anche anagraficamente, che ambiscono a fare di questo sport la loro professione. Potete immaginare il mio disappunto quando ho saputo che l’organizzazione ha deciso di predisporre il podio solo per i primi tre classificati. No, dico, i primi tre! A questo punto perché non i primi zero? In un Paese come il nostro dove si dice sempre che bisogna dare spazio ai giovani, premiare solo tre persone è una vergogna! Perché sminuire così l’impegno e la dedizione di chi arriva quarto? Ha forse fatto meno fatica dei primi tre? Di certo non ha potuto godere delle raccomandazioni che sempre spingono avanti i soliti noti. Immagino non sia sfuggito a nessuno che il vincitore è, guarda caso, il figlio di un caro amico del fratello dell’istruttore di nuoto di una donna che, si dice, lavorava nel negozio di caccia e pesca dove ora si serve il cognato del sindaco in persona! Ma voglio credere che sia solo una coincidenza.
Ho dunque deciso di inviare un comunicato di protesta alle redazioni del Gazzettino di Puntarecchia e dell’Eco di Sorbolana per denunciare questa ignobile discriminazione nei confronti di tutti coloro che arrivano quarti, chiedendo espressamente che d’ora in avanti venga loro riconosciuto il diritto di salire sul podio insieme ai primi tre. È una battaglia di civiltà cui spero vogliate aderire numerosi. Questo schifo deve finire!
Solo per pura coincidenza sono arrivato quarto.
Giancarlo Trombetta

Buongiorno a tutti,
sono assolutamente d’accordo con Giancarlo. Dobbiamo far sentire la nostra voce se vogliamo che questo sport che amiamo e che tutti si ostinano a considerare un banale hobby (fare le passeggiate in campagna) diventi in futuro un lavoro serio e rispettato come gli altri, una professione cui possa accedere chiunque abbia volontà e passione, non solo una piccola elite di kenioti raccomandati.
Faccio solo notare che arrivare quinti non è poi così diverso che arrivare quarti. Per questo sarei propenso ad estendere il principio sacrosanto affermato da Giancarlo anche alla quinta posizione.
Sicuro che non vorremo certo dividerci su questo punto, vi saluto con un abbraccio.
Per pura coincidenza sono arrivato quinto.
Paolo Sorite

Ciao ragazzi,
concordo sull’importanza di essere tutti uniti nel chiedere rispetto e parità di diritti per tutti gli atleti, senza distinzioni di credo, razza o posizione di arrivo. Basta! Non è possibile che alcuni siano trattati con tutti gli onori mentre gli altri non siano degnati nemmeno di una medaglia. È semplicemente scandaloso! Per questo credo che la cosa più giusta da fare sia far salire sul podio tutti i partecipanti.
Per pura coincidenza sono arrivato ultimo.
Sandro Pelosi

Caro Sandro,
la tua osservazione è comprensibile e anch’io penso che si debba porre fine una volta per tutte al precariato nel mondo dell’atletica leggera. Eppure, perdonami, non credo che la tua proposta sia del tutto adeguata a questo caso particolare. I partecipanti all’ultima corsa sono stati circa 1500 e, come puoi ben capire, il podio verrebbe troppo alto. Se conti che l’altezza di un gradino è circa trenta centimetri, un podio del genere dovrebbe essere alto quasi mezzo chilometro. Chi ha voglia di fare una salita del genere, soprattutto dopo quaranta chilometri di corsa? Per non parlare del fatto che i primi arrivati, finendo a tali altezze, sarebbero meno visibili degli ultimi, il che sarebbe una plateale ingiustizia. Rispetto la tua dignità di ultimo arrivato, ma credo che il podio debba essere allargato solo al quarto. Al massimo al quinto.
Giancarlo Trombetta

Ciao.
Sono d’accordo con Giancarlo.
Paolo Sorite

Scusate,
ma i numeri di Giancarlo non mi convincono. A parte che i partecipanti non sono 1500 ma 1482, vorrei far notare che i gradini di un podio non si susseguono uno dopo l’altro come quelli di una scala, ma sono sfalsati. Ciò significa che per ogni gradino bisogna contare un’altezza di quindici centimetri, non trenta, il che porta al dimezzamento della stima fatta da Giancarlo. Se poi consideriamo che nessuno vieta di fare gradini più bassi, ce la si può tranquillamente cavare con un podio non più alto di cento metri. Cosa sono cento metri? Se uno ha vinto una corsa di quaranta chilometri sarà pur capace di salire cento metri di corsa, no? Oppure devo pensare che c’è sotto qualcosa?
In ogni caso io credo che sia più rispettoso per la dignità delle persone non differenziare le posizioni di arrivo con un’umiliante disposizione in altezza, per questo è di gran lunga preferibile fare a meno del podio e dare la medaglia d’oro a tutti. Sono sicuro di non essere l’unico a pensarla così.
Sandro Pelosi.

Ciao a tutti,
scusate se intervengo così tardi ma ho rubato questo computer solo ora. Appoggio la proposta di Sandro e propongo di estenderla anche ai non partecipanti. È assurdo che in un paese civile si escluda dalla premiazione di una gara chi non ha partecipato alla gara. Quante persone vediamo correre dalla mattina alla sera senza che nessuno ricompensi la loro fatica? C’è chi corre per prendere il treno, chi per rispondere al telefono o per andare in bagno, e tutte le volte senza ricevere la minima considerazione dei media. È un’ingiustizia che non si può più sopportare.
Peppe

Carissimi,
il comunicato avrebbe avuto senso se lo avessimo inviato immediatamente dopo la gara, com’era nelle mie intenzioni, e soprattutto se condiviso da tutti. Mi duole invece constatare che hanno prevalso gli individualismi e questo ha tolto forza e credibilità alle nostre rivendicazioni. Pertanto ho deciso di non inviarlo.
Un saluto a tutti e in bocca al lupo per il futuro.
Giancarlo Trombetta
P.S. Per pura coincidenza il terzo classificato è stato squalificato.

IL DONO DELLA VITA

La vita non è un dono.
Un dono è una cosa che viene data a qualcuno che esiste a prescindere dal dono, cioè una cosa che, una volta ricevuta, può anche essere messa da parte e dimenticata. Per esempio nessuno è obbligato ad appendersi al collo quei ridicoli peni colorati chiamati “cravatte”. Si può accettare una cravatta con un sorriso cortese e poi buttarla nell’immondizia con un sorriso sincero, così tutti sorridono e nessuno ci resta male. Invece la vita non è così. La vita è quello che tu sei. Se ti levi la vita non diventi un tu senza vita. Non puoi accettare o rifiutare quello che sei, lo sei e basta, così chi ti ha dato la vita non te l’ha donata, te l’ha imposta. Non è il dono che qualcuno ha fatto a te, ma sei tu a essere il dono che quel qualcuno ha fatto a se stesso. Tu non sei il festeggiato cui viene gentilmente donata una cravatta, i festeggiati sono gli altri, festeggiati e festeggianti allo stesso tempo. Tu sei la cravatta. Non ci sono schiere di esistenze senza vita che aspettano da qualche parte nel nulla un benefattore che doni loro una vita. Chi dona la vita dona contemporaneamente vita e esistenza, e entrambe le cose le dona a se stesso: per essere felice, per sentirsi giusto, per togliersi uno sfizio, chi lo sa? Ognuno ha il suo particolare motivo, o forse non ha nessun motivo, non è questo che conta, quello che conta è che la vita non viene donata a chi nasce ma a chi la fa nascere. Un dono fatto a se stessi può essere ancora chiamato dono, è vero, ma solo per scherzo.
Ma prescindendo da tutto questo e facendo finta che tu non sia la tua vita ma un qualcos’altro con l’aggiunta di una casa, uno scooter, una cravatta e una vita, un dono resta comunque una cosa fatta per far piacere a chi la riceve. Chi dona ha piacere a far piacere. Si chiama altruismo. L’altruismo non è il far piacere disinteressatamente, visto che non è possibile non essere interessati a quello che si fa, l’altruismo è farsi piacere facendo piacere. Sia l’egoismo che l’altruismo mirano al proprio piacere, ma non per questo sono la stessa cosa: il piacere del primo prescinde dal far piacere o dispiacere ad altri, mentre il piacere del secondo è conseguenza del far piacere ad altri. Chi dona la vita è altruista? Chi dona Champagne a un non astemio è altruista, chi dona un film a un appassionato di cinema è altruista, chi dona una cravatta a uno che odia le cravatte fa un errore, pensava gli piacessero, ma è ancora altruista, invece chi dona qualcosa che non ha idea di cosa sia è ancora altruista? Perché la vita è così, è una scatola in cui può esserci dentro di tutto, anche il lupus eritematoso sistemico, la morte dei tuoi figli o quarant’anni in catena di montaggio. È altruismo donare una scatola chiusa di cui non si conosce il contenuto? Chi dona la vita fa una cosa che fa piacere a lui, come tutte le cose che uno fa, altruistiche o egoistiche che siano, ma non ha nessuna idea se farà piacere anche a chi la riceve, e questo si chiama egoismo. La vita non è un dono ma una scommessa sulla pelle di un altro.
Ma prescindendo anche da questo e dando per scontato che la vita sia sempre sana, fortunata e comoda, rimane comunque il fatto che un dono, una volta donato, appartiene a chi lo riceve: può essere perso, rubato o esaurirsi, ma è comunque nella disponibilità di chi lo ha ricevuto. Chi dona una cravatta non pretende che tu gliela debba restituire in qualsiasi momento, anche subito, senza preavviso, senza nemmeno chiederti per favore, ma venendotela a strappare dal collo quando meno te l’aspetti. Invece chi dice di donare la vita dona contemporaneamente anche l’obbligo certo e incondizionato di restituirla, cioè dona anche la morte. Non si può donare una cosa senza l’altra. Chi ti dona la vita ti dona una cravatta che non sarà mai tua, un film anticipandoti il finale, uno Champagne in una bottiglia di titanio senza apertura, cioè ti fa un dono che consiste nel negarti quel dono, perché la morte non è un qualcosa di accidentale che, se capita, mette fine alla vita, la morte è un aspetto essenziale della vita, un aspetto che definisce la vita e la rende quello che è, e a sua volta la vita è un aspetto essenziale della morte. Non si può guardare un morto senza immaginarlo quand’era vivo e non si può guardare un vivo, vecchio o giovane che sia, senza vederlo già morto.
Si puniscono gli assassini perché danno la morte, ma in realtà nessun assassino può dare veramente la morte a qualcuno, al massimo può anticiparla. A dare la morte sono i genitori.

NEBBIA

LA VOSTRA CRISI NON LA PAGHIAMO

A Bologna, sul muro della facoltà di Filosofia, c’è una scritta che dice “la vostra crisi non la paghiamo”. O forse c’era e adesso è stata cancellata. Oppure, niente di più probabile, è stata cancellata e poi scritta di nuovo. A Bologna la gente è così, deve scrivere tutto quello che le passa per la testa, e se per caso non ha con sé un pezzo di carta non le resta che scriverlo sul primo palazzo d’epoca che le capita sotto mano. Con caratteri a grandezza d’uomo. Circondati da fiamme. Tante fiamme. Così resta più impresso: “la vostra crisi non la paghiamo”. Ma vostra di chi?
Io purtroppo non so rispondere, non mi intendo di economia e finanza. Certo so cos’è un titolo di stato e, a grandi linee, potrei persino spingermi a spiegare cos’è un cosiddetto derivato, ma è una conoscenza vaga, insufficiente per potermi fidare di qualsiasi opinione netta io possa farmi sull’argomento. Fortuna che a Bologna la gente sembra invece intendersene. È proprio vero che l’apparenza inganna: chi mai direbbe che tutte queste persone in canottiera, ciabatte e birra Moretti sono grandi esperte di economia mondiale?
“È colpa degli speculatori”, dicono. Che gentili, non ho nemmeno dovuto chiedere, qualcuno si è premurato di farmelo trovare scritto su un muro. Allora per curiosità sono andato a fare un giro in uno dei posti con la più alta concentrazione di speculatori di tutti il mondo: la City di Londra.
Fra costosissimi palazzi di vetro e metallo allegramente mischiati a costruzioni in stile Tudor, postrinascimentale, barocco, vittoriano e chi più ne ha più ne metta, c’è tutto un viavai di gente in ghingheri accuratamente pettinata e spolverata, con la valigetta in una mano e il caffè di Starbucks nell’altra. Maledetti bastardi. Attraverso le finestre dei loro uffici li si può vedere davanti ai computer mentre tramano alle spalle della gente comune. Me l’immagino quello che dicono.


Allora, signor McGillis, quanti Stati ha fatto fallire oggi?

Dunque, vediamo... Capo Verde, Mauritania e Bhutan.

Tre?

Sì.

Cioè, mi faccia capire, lei in tutta una giornata di lavoro ha fatto fallire solo tre Stati?

Ah no, aspetti: quattro. C’è anche l’Azauad.

L’Azauad?

Sì.

L’Azauad non è uno Stato.

Come no? Guardi, ha anche la bandiera. L’ho fatto fallire, signore.

Non è riconosciuto dall’Onu.

Beh, io questo non potevo saperlo.

È solo una regione del Mali.

Allora tre e mezzo.


Solo una cosa non mi torna: com’è possibile che in questo covo di delinquenti, dove la gente lavora quotidianamente alla distruzione del mondo, tutti sono silenziosi, cortesi e hanno molta cura della città in cui vivono, mentre a Bologna, dove la gente ci tiene tanto a salvare il mondo, tutti sono rumorosi, cafoni e sembrano non avere altro obiettivo se non la distruzione della città in cui vivono? Perché, va detto, a Bologna le persone si intenderanno anche di economia, ma in quanto a civiltà sono una tacca sopra ai tirannosauri.

IO E LE MIE SCARPE

MARCO TRAVAGLIO

L’altro giorno sono andato in libreria a sentire la presentazione dell’ultimo libro di Marco Travaglio. Dico “di” Marco Travaglio non solo perché è un libro scritto da Marco Travaglio, ma anche perché appartiene a Marco Travaglio e soprattutto, cosa che ho scoperto solo sul posto, è fatto con pezzi di Marco Travaglio. Non pezzi di vitale importanza, ci mancherebbe, se no non si spiegherebbe come fa a vendere tutte quelle copie, ma pezzi che Marco Travaglio produce continuamente e che di tanto in tanto si separano da lui, pezzi come pelle di Marco Travaglio, ciglia di Marco Travaglio, unghie di Marco Travaglio e così via. Questi materiali vengono raccolti da un fedelissimo inserviente che segue Marco Travaglio fin da quando è nato (il suo nome è Marco Travaglio) e sono conservati in appositi recipienti a forma di Marco Travaglio, dopo di che vengono riciclati in modo da ottenerne carta da libro di Marco Travaglio. “Riciclati” non è però la parola adatta, dal momento che sembra suggerire l’idea di un passaggio da qualcosa di più nobile a qualcosa di meno nobile, per questo Marco Travaglio preferisce chiamare questo processo con l’insolito e caratteristico nome di “Marco Travaglio”.
Alla presentazione c’era tantissima gente, quasi mille persone, e questo nonostante potesse entrare solo chi conosceva la parola d’ordine di Marco Travaglio, parola che, per ovvi motivi, non sono autorizzato a rivelare. All’ingresso della libreria “Marco Travaglio” Marco Travaglio distribuiva delle maschere con le fattezze di Marco Travaglio da mettere durante la presentazione, in modo che fra i presenti ci fosse più affiatamento. Sono maschere un po’ rigide, ma molto somiglianti. Marco Travaglio stesso ne porta sempre una. Per chi poteva permetterselo era stato persino allestito un piccolo ambulatorio per interventi di chirurgia estetica, in cui Marco Travaglio in persona si occupava di dare ai lineamenti altrui le sembianze di Marco Travaglio. È uno dei suoi hobby preferiti. A chi gli fa visita a casa o in ufficio lui offre sempre tè, biscotti e Marco Travaglio, dopo di che chiede gentilmente il permesso di intervenire chirurgicamente sulle fattezze dell’ospite. Il tutto ovviamente senza insistenze o obblighi di nessun tipo, chi non vuole sottoporsi al trattamento non deve fare altro che fuggire.
La presentazione è stata molto interessante, del resto Marco Travaglio è un oratore a dir poco Marco Travaglio. Certo è un po’ complicato seguire i suoi discorsi nel dettaglio, sia perché sono discorsi abbastanza tecnici e non facilmente comprensibili da chi non è addentro alla materia (Marco Travaglio), sia perché Marco Travaglio usa solo due parole: “Marco” e “Travaglio”. Solo raramente ricorre ad altre parole, come per esempio: “arco”, “aglio”, “gli”, “tra”, “vaglio” e, anche se non sono sicuro di aver sentito bene, “o”. Ciononostante è stato un grande successo, tanto che alla fine non c’erano abbastanza copie per tutti (anche perché Marco Travaglio le ha comprate quasi tutte).
In particolare a me è piaciuta la parte in cui Marco Travaglio ha parlato di sé. Col suo modo di fare molto diretto e sempre un po’ ironico, ha raccontato che lui fa sempre due sogni ricorrenti. Uno è in realtà un incubo e gli procura grande angoscia. In questo sogno c’è lui che insegue Marco Travaglio e, per quanto si sforzi di correre veloce, non riesce mai a raggiungerlo. Quando fa questo sogno si sveglia sempre nel mezzo della notte tutto sudato e col cuore in gola e l’unica cosa che riesce a calmarlo è stringere forte il suo peluche di Marco Travaglio in scala uno a uno.
L’altro sogno invece è tutta un’altra cosa. È come l’incubo, solo che qui è lui a essere inseguito da Marco Travaglio e, dopo una breve corsa nei prati, si lascia raggiungere. Il risveglio è spiacevole per altri versi, ma niente che non si possa risolvere con un fazzoletto.
Ah, quasi dimenticavo il titolo del libro: “Marco Travaglio”.

CRAPULONI E SALUTISTI

Vivere come se si fosse immortali è un comportamento assurdo. Mi riferisco a chi tratta il proprio corpo come se fosse una cosa di cui si può fare a meno. Certo sarebbe bello. È una gran scocciatura doversi trascinare dietro per tutta la vita chili e chili di frattaglie sanguinolente avvolte in un sacchetto di pelle, una roba che va periodicamente rifornita, pulita, tosata e svuotata. Sarebbe molto meglio poter fare a meno del corpo e passare tutta la giornata a rotolarsi nel letto, ma purtroppo non si può. Io non sono il mio corpo, ma senza il mio corpo io non ci sono. Lo dimostra il fatto che nessuno è ancora riuscito a mandarlo da solo a fare la spesa. Non sto criticando chi si nutre solo di ciccioli e tuorli d’uovo, beve alcol denaturato e fuma tutto ciò che è combustibile, sto solo dicendo che è assurdo vivere come se si fosse qualcosa che non si è, cioè immortali. È come se uno si comportasse come se fosse un cavallo. Cosa direbbe la gente di uno che andasse in giro con gli zoccoli, mangiasse biada, dormisse in piedi e quando qualcuno gli facesse notare che non è un cavallo rispondesse imbizzarrendosi? Direbbe che è assurdo. E se è felice così? Può darsi, salvo quei brevi inevitabili momenti di lucidità in cui, nella solitudine della sua stalla, si ricorda di essere solo un povero essere umano che finge di essere un cavallo. Perché sotto sotto ognuno di noi sa di non essere un cavallo.
Allo stesso modo è assurdo dedicare la vita alla manutenzione del corpo, come se eliminando tutte le cause di morte si potesse essere immortali.


Hai d’accendere?

Non fumo.

Beato te, io col tabacco mi faccio i suffumigi. Vuoi qualcosa da bere?

Non bevo.

Nemmeno un --

No, grazie.

Allora ti faccio un tè coi biscotti.

Non mangio.

Posso --

Non respiro.


In questo caso quello che si ignora è che la morte non è uno spiacevole incidente che interrompe la vita quando uno meno se l’aspetta, ma uno spiacevole modo di essere vivi. Vivere come se si fosse immortali è assurdo, ma è assurdo anche vivere come se si potesse diventarlo. Da questo punto di vista non c’è differenza fra crapuloni e salutisti: sono solo due modi diversi di fuggire di fronte alla dura verità di non essere un cavallo.

FREDDY

Non esagerare col vino.

Mica devo mica guidare.

Hai i trigliceridi alti.

I trigliceridi?

I trigliceridi, tesoro.

I trigliceridi sono a posto.

Sono alti.

Cos’è ‘sta roba?

Non ti piace?

Ci hai messo il formaggio?

Nella pasta?

Sì.

Sei matto?

È strana...

È il basilico.

Mi fai la pasta col formaggio e pensi che non me ne accorga?

È solo il basilico. Lo sai che hai problemi con le cose verdi.

Fa schifo.

Ti faccio qualcos’altro.

Questo dallo al cane.

Il cane?

Sì.

Il cane è il secondo.

Cosa?

Il cane.

Sì.

È il secondo.

Cosa stai dicendo?

Arrosto di cane.

Freddy?

Arrosto di Freddy.

Non è vero.

Dovevo buttarlo via?

Hai ucciso Freddy?

No.

Tu hai ucciso Freddy!?

Era già morto, io l’ho solo cucinato.

Freddy è morto?

È in forno.

Non ci posso credere.

È caduto dalle scale.

Com’è successo?

Niente, è uscito sulle scale e si è buttato.

È caduto?

Per me si è buttato. Sai com’era Freddy.

Come hai potuto cucinarlo?

Olio e rosmarino.

Gesù Cristo...

Dovevo buttarlo via? Volevi che lo buttassi nell’immondizia?

Taci, per favore.

È pur sempre carne. Carne di un animale sano, fra l’altro.

È Freddy!

Dove vai?

Mi faccio due uova.

Lascia stare, faccio io.

Dove sono le uova?

Siediti.

Dimmi solo dove sono.

Per favore, siediti.

Fammele strapazzate.

Sale e pepe?

E peperoncino.

Tu siediti.

Okay.

Okay?

Okay.

Torno subito.
 
Ah, mettici anche un po’ di Freddy.

RADIOGRAFIA DELL'ANIMA

L’abbigliamento è un argomento molto delicato. Quante amicizie sono finite per un cavallo dei pantaloni troppo basso? Quanti matrimoni sono entrati in crisi per un marito in mutande e ciabatte? Per non parlare delle scritte sulle magliette: mai fare commenti sulle scritte che uno decide di portare in giro come un uomo sandwich, mai, nemmeno quando la scritta dice “si prega di commentare la scritta”. Per questo motivo affronterò l’argomento con la massima delicatezza possibile. Mi sono anche cosparso le dita di borotalco.
Chi pensa che sia superficiale giudicare una persona dall’abbigliamento sbaglia, perché l’abbigliamento non è un semplice involucro che ricopre la persona. I vestiti non si infilano da soli sul corpo, purtroppo, e anche quando uno si mette la prima cosa che capita in realtà sta scegliendo: sceglie di non scegliere. Persino il non vestirsi è un modo di vestirsi, il più studiato di tutti, perché nessuno è indifferente al proprio aspetto, come è abbondantemente dimostrato dall’esistenza degli specchi. L’abbigliamento è un’espressione di sé, come il linguaggio, il comportamento o la suoneria del telefono.
Ci si veste sempre per gli altri, mai per se stessi. Il che non significa necessariamente vestirsi per piacere agli altri, ma magari per distinguersi dagli altri, per essere rispettati dagli altri, per stupirli, per mettersi in mostra, per passare inosservati o chissà per quale altro motivo, ma tutto sempre e solo per gli altri. Quando uno dice che si veste per piacere a se stesso, in realtà sta solo dicendo che si veste per dare agli altri l’idea che gli piacerebbe che gli altri avessero di lui, cioè, anche in questo caso, si veste per gli altri. Del resto basta pensare a cosa farebbe se gli altri improvvisamente sparissero. Forse per un po’ continuerebbe a vestirsi nello stesso modo, è l’abitudine, ma sarebbe interessante vedere come si vestirebbe dopo un anno, dopo dieci anni, dopo cento anni. Siamo sicuri che dopo diecimila anni di esistenza solitaria sulla Terra una persona avrebbe ancora voglia di mettersi i tacchi o di stirarsi la camicia? Ma soprattutto come si vestirebbe se gli altri non fossero proprio mai esistiti? Probabilmente si butterebbe addosso qualcosa a seconda del clima e della pericolosità degli animali circostanti, ma di certo non avrebbe il concetto di abbigliamento. Una persona sola fin dalla nascita sarebbe nuda come una bestia. Autenticamente nuda, non semplicemente svestita.
L’abbigliamento, come tutte le espressioni di sé, dice qualcosa di chi lo esprime. Nella maggior parte dei casi non è facile capire cosa dica, ma ciò non significa che non dica niente. Per esempio cosa dicono i sandali infradito? Che la decenza è solo una futile convenzione borghese? Che basta solo un po’ d’aria per scacciare ogni cattivo odore? Che la civiltà occidentale ha finalmente debellato l’ancylostoma duodenale? Spero che nessuno sia così ingenuo da pensare che ci si mette i sandali perché sono comodi. La comodità dei sandali è il pretesto per metterli, non il motivo.
C’è però un tipo di abbigliamento che è particolarmente facile da interpretare e che dice tutto della persona che lo porta. Una specie di radiografia dell’anima.


L’abbigliamento eccentrico è un travestimento, quindi la prima cosa che dice di chi lo porta è il personaggio che sta interpretando, cioè dice in modo esplicito, chiaro e dettagliato chi quella persona vorrebbe essere (un ribelle, un artista, uno stimato professore dandy mezzo aristocratico e mezzo matto) e di conseguenza dice chi di sicuro quella persona non è, perché solo chi sa di non essere una certa persona ha bisogno di travestirsi da quella persona. Nessuno dovrebbe quindi stupirsi di scoprire che uno che va in giro vestito come un bambino a carnevale millanti titoli che non ha, perché è ovvio che chi mente già nel vestirsi mentirà anche nel parlare. Chi è falso è falso in ogni espressione di sé, dalla montatura degli occhiali alle dichiarazioni d’amore, cosí come un pianoforte scordato è stonato qualsiasi cosa suoni.
Ma l’abbigliamento eccentrico dice anche altre cose. Per esempio dice che chi lo porta è una persona vanitosa, egocentrica, esibizionista e altre cose non riferibili in modo adeguatamente delicato, ma soprattutto dice che è una persona frivola. Tenuto conto della smisurata quantità di cose che varrebbe la pena conoscere durante questo brevissimo soggiorno terrestre, già è abbastanza curioso che uno possa spendere anche solo un minuto a scegliersi le scarpe, figuriamoci occuparsi di un intero guardaroba. Penso sia per questo che è così difficile trovare luminari vestiti da pagliacci.

LE MIE FOTO DELLE VACANZE

A me piacerebbe tantissimo viaggiare ma purtroppo c’è l’inconveniente che non mi piace viaggiare. Nel senso che mi piacerebbe tantissimo vedere posti nuovi, cosa che faccio regolarmente con Google Maps (anche se non vado mai oltre Bardonecchia), ma allo stesso tempo l’essere in posti nuovi mi mette a disagio. Non so perché. Forse c’entra col fatto che sono cresciuto in una famiglia apprensiva, una di quelle famiglie che appena hanno un figlio rivestono i mobili di gommapiuma e limano le unghie del gatto. Il risultato è un figlio senza graffi e ammaccature, ma totalmente incapace di vivere in un mondo non imbottito.
Per me è molto faticoso allontanarmi da casa, lasciare gli angoli familiari, le sporgenze rassicuranti e tutte quelle piccole e accoglienti fessure in cui è così riposante lasciarsi andare. Ma per non assecondare fino in fondo ciò che mio malgrado sono, tempo fa ho fatto una pazzia: ho preso carta di credito e Lexotan e sono andato nel posto più lontano raggiungibile in treno: Londra. Che città fantastica! Nonostante le differenze di cultura, clima, fuso orario e composizione chimica del caffè, ho trovato innumerevoli posti in cui sentirmi a casa. Ecco solo alcune delle oltre duemila foto che ho fatto in questa meravigliosa città.










L'ABITUDINE


DIO PADRINO

L’Italia è un Paese di mafiosi. Non tanto nel senso che è un Paese di criminali più o meno organizzati, certo ci sono anche quelli, quanto nel senso che è un Paese di gente con una mentalità mafiosa. Gli italiani sono costituzionalmente mafiosi. Vista la coerenza e la spontaneità con cui si comportano da mafiosi, uomini e donne, vecchi e bambini, nullatenenti e berlusconi, non mi stupirei se gli italiani avessero il gene della mafiosità.
La mentalità mafiosa consiste nel dare per scontato che fra appartenenti a uno stesso clan ci si faccia dei favori, con conseguente danno per tutti quelli che non ne fanno parte. “Che vadano a farsi un clan” pensa il mafioso, dove con clan si intende un qualsiasi gruppo di persone accomunate da parentela, amicizia, partito, sindacato, religione, squadra del cuore, pettinatura o qualsiasi altra cosa in base alla quale due o più individui possono considerarsi idealmente vicini, escluso naturalmente l’abitare sullo stesso pianeta. La peculiarità della mentalità mafiosa non consiste solo nel fare o chiedere favori al proprio clan, ma anche e soprattutto nel dare per scontato che questo sia normale, che lo facciano tutti in tutto il mondo. Solo così può succedere che uno si lamenti pubblicamente della collusione tra mafia e politica e poi cerchi di influenzare una commissione per far assumere un suo amico, che un altro si lamenti di un concorso truccato e poi chieda al parroco di mettere una buona parola in Comune per sistemare il fratello, che un impiegato si lamenti di essere stato ingiustamente trasferito e poi chieda al macellaio juventino come lui di tenergli da parte il filetto, che uno si lamenti di aver dovuto ripiegare sulla salsiccia e poi implori Dio di occuparsi della sua colicisti. Ecco, Dio.
Il Dio degli italiani, con i suoi nascondigli segreti e le sue schiere di Santi picciotti, è la perfetta trasposizione metafisica della mafia. Un Dio che estorce l’anima alla gente in cambio di protezione dai crimini che egli stesso commette, che premia chi lo adula e punisce chi lo ostacola, che recluta nuovi adepti con misteriosi riti di iniziazione e che elargisce favori a suo insindacabile piacimento a chiunque gli lecchi adeguatamente il metafisico sedere. Quest’ultima è la cosa più inquietante della religione cattolica: che alla gente sembri normale pregare Dio in cambio della concessione di una grazia, un Dio che si presume giusto, non un pazzo scatenato come Shiva, un doppiogiochista come Odino o un bastardo come Ahriman. La gente quando ha un problema trova normale andare da Dio, entrare in casa sua col cappello in mano e chiedergli piagnucolando un favore personale, magari adulandolo un po’, ricordandogli subdolamente i propri servigi e promettendogli eterna riconoscenza. E per di più trova normale che questo Dio si lasci convincere: “tu che mi sei tanto caro sarai accontentato, tu invece che te la fai col clan degli Induisti beccati 300 mg al giorno di acido ursodesossicolico. A vita!”.
Questa è la giustizia divina per gli italiani, e di conseguenza questo è il senso di giustizia che gli italiani applicano nella loro vita di tutti i giorni. Quando un italiano cerca di essere giusto, cerca di esserlo nel senso in cui lo è il suo Dio Padrino: aiutare quelli del mio clan, danneggiare gli altri. E questo è un problema, visto che esiste sempre almeno un clan di cui uno non fa parte.