IL CICCHETTO

Miguel.

Sì, signore?

Portane uno anche per me.

Sì, signore.

Due cubetti di ghiaccio e niente seltz, mi raccomando.

Sì, signore.

Miguel.

Signore?

Lascia stare, vieni qui.

Sì, signore.

Hai sentito cos’ha detto il dottore.

No, signore.

Aiutami a stendermi, mi fa male la schiena. D’ora in poi dovremo imparare a moderarci. La volontà c’è, ma il corpo... Te ne accorgerai anche tu.

Sì, signore.

All’inizio va come una locomotiva, puoi buttarci dentro tutto quello che vuoi, ma poi... tirami un po’ su i cuscini, per piacere. Ancora un po’... solo una volta sono stato male. Te l’ho raccontato?

Sì, signore.

Eravamo a Les Crayeres di Reims, hai presente?

No, signore.

Hai lavorato lì, per un po’.

Mai, signore.

Ero con mia moglie e altra gente, il matrimonio di non so chi.

Sua figlia, signore.

Per accompagnare le langoustines royales, mi sono preso un boccale di amaro Ramazzotti alla spina. Sai i boccali da un litro?

Sì, signore.

Un bel boccale pieno fino all’orlo. Andava giù come niente, Miguel. Così ne ho presi altri due. Poi in albergo sono stato male. Ho vomitato tutto sull’ascensore, ma non è mica stato l’amaro. Erano gli scampi che non erano freschi.

Certo, signore.

Ma vallo a spiegare a mia moglie...

Sì, signore.

Torna qui, era solo un modo di dire.

Scusi, signore.

Tra l’altro era il matrimonio di mia figlia, voglio dire, se ho voglia di passare la nottata sul water mi faccio una scodella di trippa fredda, giusto?

Sì, signore.

Non c’è bisogno di andare fino a Reims. Giusto, Miguel?

Sì, signore.

Dico bene, Miguel?

Sì, signore.

Un po’ più giù, sii gentile.

Sì, signore.

Questa coperta è lercia.

Sì, signore?

Annusa.

Lercia, signore.

Domani cambiala.

Sì, signore.

Tu non è che lo prenderesti un bicchierino, vero?

No, signore.

Piccolo, piccolo.

No, signore. Grazie, signore.

Giusto. Meglio non prendere certe abitudini. Fossi riuscito a insegnarlo ai miei figli... Hai figli, Miguel?

No, signore.

Bravo. Un goccetto di Bianco Sarti?

Signore...

Come non detto. Fra l’altro è tardi, non vorrei dover saltare la dialisi. Come si dice, Miguel? Un’emodialisi peritoneale al giorno...

Di torno, signore.

Aiutami, sono scomodo.

Sì, signore.

Ah, Miguel Miguel Miguel... voi che avete la fortuna di muovervi su e giù come vi pare, avanti e indietro come vi pare, magari non ve ne rendete neanche conto, vero?

Non saprei, signore.

Vov?

...

Fa bene, c’è l’uovo.

...

Non avrei mai immaginato di dover elemosinare un cicchetto a un messicano.

Signore --

PORTAMELO!

Sì, signore.

Miguel.

Signore?

Hai sentito anche tu cos’ha detto il dottore.

No, signore.

Facciamo che lo bevi tu.

Sì.

Sì, cosa?

Sì, signore.

Bravo ragazzo. Al massimo te ne assaggio un po’.

Sì, signore.


(da capo)

LA COLONIA

Pronto?

Un’ambulanza, presto!

Cos’è successo?

Mio marito!

Sta male?

È un topo!

Intende dire --

Un topo!

Strano.

È successo all’improvviso, fra il dessert e il caffè.

Ha per caso il muso appuntito, le vibrisse e una lunga coda sottile e senza peli?

No.

Sempre più strano.

Non si lasci ingannare dalle apparenze. Sembra un essere umano, ma è un topo. Un grosso topo in giacca e cravatta.

Squittisce?

No. Ma si vede benissimo che muore dalla voglia di farlo.

Okay, signora, non si agiti. Le mando subito qualcuno.

Fosse stato un altro animale l’avrei sopportato. Non so, un gattino, una cocorita, un unicorno, ma un topo... Come può un uomo così elegante diventare un topo?

Non ha mai notato niente di strano?

Per esempio?

Non so, escrementi per casa, cose così...

Sabato scorso eravamo da Louis Vuitton, avevo assoluto bisogno di una borsetta nuova, a un certo punto mi giro e lo vedo che sta rosicchiando un paio di scarpe. È stato così imbarazzante.

Da dove chiama?

Sono in piedi sul tavolo.

Suo marito è lì con lei?

Sì. Stavamo festeggiando il nostro anniversario, il settimo o l’ottavo, non ricordo. Era una persona così perbene, prendeva anche lezioni di sci.

Molti topi lo fanno.

Ora dorme.

Ne è sicura?

Gli ho dato una bottigliata in testa.

Bene. Ora dia fuoco alla casa e poi chiuda la porta a chiave. C’è qualcun altro?

I bambini.

Quanti?

Ventuno.

Ventuno?

Sì. Stanno tutti nel controsoffitto.

Contrordine. Prima chiuda la porta e poi dia fuoco alla casa.

COME HO VINTO IL FESTIVAL INTERNAZIONALE DI COMPOSIZIONE MUSICALE DI BÜRGERMEISTER

Il festival internazionale di composizione musicale di Bürgermeister, in provincia di Lodi, è uno dei più rinomati e autorevoli festival di musica d’avanguardia di tutta Bürgermeister. Come dice il nome stesso si tiene a Bürgermeister, nei vecchi stabilimenti delle officine tessili, e ogni anno richiama l’attenzione di migliaia di musicisti, compositori, esperti del settore e semplici curiosi. Com’è noto i curiosi non mancano mai, soprattutto quando si tratta di incidenti stradali e musica d’avanguardia.
Il regolamento del festival, redatto nel 1959, è stato pensato in modo da tener conto delle diverse correnti musicali sorte in tutto il mondo nel dopoguerra, con un occhio di riguardo per la sperimentazione, le nuove tecnologie e tutto ciò che si suona coi bonghi. In pratica il festival funziona così: i compositori mandano i loro brani e il migliore vince. Regolamento sofisticato ma scrupoloso, che ha garantito alla manifestazione una larga e duratura partecipazione.
Io ho partecipato nel 1992. Ricordo che quell’anno c’erano i migliori talenti di tutto il mondo, gente che avrebbe cambiato il modo di concepire la musica per oltre venti minuti. Uno di questi era il maestro russo Goran Starnazzi, oggi noto soprattutto per la monumentale raccolta “Il clavicembalo ben temperato, ma non troppo”: novantadue preludi e ottocentotrenta fughe per tasto solo.


No, non va bene.

Ma come, maestro? È da stamattina che lo prendo a martellate.


Ero lì non in qualità di compositore, ma come semplice scordatore di pianoforti.


Se ti dico che non va bene...

Ho fatto tutto quello che mi ha detto: ho sostituito i martelletti con zampe di gatto, ci ho versato dentro due bottiglie di Cynar e l’ho fatto suonare per otto giorni da Gigi d’Alessio.

È ancora troppo impostato, troppo pomposo. Lo senti o no?

L’ho anche riverniciato di beige, come piace a lei.

Senti il Do centrale, senti! Senti quanto sa di Schumann!

Ma, maestro, quello non è un Do.

Pft! Quanto sei limitato! Se entro domani non è come dico io, ti faccio licenziare, chiaro? Ti faccio sbattere fuori così, con uno schiocco di dita! E quando sarai in mezzo alla strada, sdentato, pieno di pulci, coperto di stracci puzzolenti e bucce di mandarino a chiedere l’elemosina e rovistare nei cassonetti insieme ai cani, io passerò di lì e ti dirò: “accetta la mia carità, sudicio straccione” e ti lancerò un gettone dell’autopista. Ah ah ah!


Veramente io facevo volontariato, ma non mi sembrava il caso di contraddire il maestro per così poco.
Un altro grande talento che ho avuto la fortuna di conoscere è il maestro Sandro Labresaola, artista eclettico e uomo di cultura, una vera e propria istituzione nell’ambito dell’improvvisazione per pianola Bontempi senza spina. Lo conobbi al buffet d’inaugurazione, dove mi propose gentilmente di imboccarlo.
Ricordo ancora nitidamente la serata finale, i compositori rimasti in lizza per il primo premio erano tre: Joseph Reinardson, Eudora Miglioni e un promettentissimo Tullio De Piscopo. Io ero ai piedi del palco, emozionatissimo. Avevo il compito di intercettare gli sputi del pubblico con un mestolo di stagno.
Si parte col pezzo di Joseph Reinardson dal titolo “Come ti combino Ligeti”, un’esecuzione del quartetto per archi n.2 di György Ligeti tramite mangianastri mono con pile scariche e voce di Joseph Reinardson stesso che ne canticchia alcuni frammenti fingendo di farsi la doccia.
La giuria giudica il pezzo ben costruito e tecnicamente ineccepibile, ma poco originale.
Eudora Miglioni presenta invece un brano generato al computer secondo il seguente algoritmo: termometri distribuiti agli spettatori misurano in tempo reale le loro temperature corporee a intervalli di un secondo e con la precisione del millesimo di grado, ogni variazione di temperatura superiore in valore assoluto a 0,025 gradi Celsius viene convertita in una stringa numerica data dalla temperatura corporea finale, dal gradiente della temperatura e dalla distanza dello spettatore dal primo posto vuoto alla sua sinistra, successivamente tutte le stringhe vengono ordinate secondo la loro lunghezza e la quantità di 0 e combinate in modo da formare una matrice quadrata di ordine minimo (per gli elementi eventualmente mancanti il programma prende in successione i termini della serie di Fibonacci), infine l’algoritmo calcola il determinante di tale matrice, lo moltiplica per il codice di avviamento postale di Codogno e lo divide per pi greco, dopo di che emette un La.
La giuria giudica il pezzo ingegnoso e a tratti provocatorio, ma poco originale.
Tullio De Piscopo, invece, suona i bonghi e si aggiudica all’unanimità il primo premio.
Io ho vinto il festival internazionale di composizione musicale di Bürgermeister l’anno successivo, presentando una sedia. Bisogna ammettere che, come brano musicale, una sedia è parecchio originale.

ESPERIMENTI SUL TIFO

Per che cosa tifano i tifosi? Per la squadra. Cioè? Che cos’è la squadra per un tifoso?
Se fossi il presidente della Roma e della Lazio farei questo piccolo esperimento. Durante l’intervallo di Roma-Lazio venderei tutti i giocatori e lo staff della Roma alla Lazio, e tutti quelli della Lazio alla Roma, poi all’inizio del secondo tempo andrei a nascondermi dietro una bandierina del calcio d’angolo per vedere cosa succede. Verosimilmente la maggior parte degli spettatori si sentirà presa in giro e lascerà ordinatamente lo stadio senza accoltellarsi più di tanto, ma i tifosi? Cosa faranno i tifosi? Insulteranno i loro nuovi giocatori? Tiferanno per la squadra avversaria? Oppure continueranno a tifare per la loro squadra come se niente fosse? Forse. Che cos’è la squadra se non i giocatori di cui è composta? La maglia, si dice.
Il tifoso è fissato con la maglia. Puoi fargli di tutto, rubargli trenta euro ogni domenica, comprimerlo in scatole di sardine su rotaia, prenderlo a manganellate sulla capocchia di spillo, ma guai a toccargli la maglia. Chi sputa sulla maglia è un nemico, mentre chi la bacia è un amico, anche se alla fine si tratta sempre di saliva. Perché per il tifoso è così importante il modo in cui si spalma la saliva sulla maglia?
Per cercare di capirlo potrei fare così: sempre nell’intervallo di Roma-Lazio, oltre a scambiare giocatori e staff, stabilisco che da quel momento in poi la maglia della Lazio sarà gialla e rossa con il simbolo di una lupa, mentre quella della Roma sarà bianca e azzurra col simbolo di un’aquila, la famosa aquila capitolina che porta i lombrichi a Romolo e Remo. In questo modo i tifosi vedranno rientrare in campo i vecchi giocatori della Roma con addosso una maglia giallo-rossa e i vecchi giocatori della Lazio con una maglia bianco-azzurra, solo che i giocatori della Roma con la maglia della Roma sono la Lazio, mentre quelli della Lazio con la maglia della Lazio sono la Roma, lo si capisce dal fatto che il calcio d’inizio del secondo tempo sarà battuto dagli stessi del primo tempo, vestiti come nel primo tempo e con lo stesso animaletto cucito addosso. Sotto quale curva andrà a sventolare la sua maglia giallo-rossa Totti, il capitano della Lazio?
Ma forse i tifosi non tifano nemmeno per la maglia, tifano per il nome della squadra. Bene, allora dopo aver scambiato giocatori e colori, scambio anche i nomi: la Lazio si chiamerà Roma e la Roma si chiamerà Lazio. Il cambiamento si noterà dal fatto che la squadra che alla fine del primo tempo stava vincendo, all’inizio del secondo starà perdendo. È una cosa che ogni tifoso dovrebbe notare. Se invece stavano pareggiando è più difficile, anche se i più attenti dovrebbero notare che sul tabellone non ci sarà più scritto “Roma-Lazio 0-0” ma “Lazio-Roma 0-0”. In pratica quello che rimane invariato è la storia delle due squadre: gli scudetti, le partite memorabili, eccetera. Vuoi vedere che i tifosi tifano per la storia?
Non resta che una cosa da fare: alla fine di quel famoso primo tempo annuncerò con grande rammarico ai giocatori che le loro squadre sono appena state sciolte, ma niente paura, sulle ceneri della Roma fonderò subito una nuova squadra, la Lazio, che sarà convenzionalmente chiamata “Roma”, avrà come colori sociali il giallo e il rosso e inizierà la sua nuova magica avventura nel mondo del calcio con i giocatori e tutto lo staff della vecchia Roma, mentre quest’ultima sarà rifondata sulla Lazio, si chiamerà “Lazio” e avrà i colori e i giocatori della Lazio. Lo speaker dello stadio si premurerà di spiegare tutto per bene.
Che cosa faranno i tifosi? Continueranno a tifare per la loro squadra, cioè l’altra, o inizieranno a tifare per gli avversari, che in realtà sono i loro?
Infine tutti i giocatori saranno sostituiti da ventidue piccole scimmie.

VECCHIAIA BRUCIATA

Il Papa non sa proprio che farci col suo ruolo di Papa, è come uno scimpanzè con uno Steinway. Ha uno Stato tutto per sé (una monarchia assoluta, non una repubblica marinara), masse di fedeli disposte a seguirlo ovunque, la possibilità di pontificare (okay, questa la usa), ma soprattutto il potere di inventare nuovi dogmi, così, di punto in bianco, nuovi comandamenti, nuovi sacramenti, tutto quello che gli passa per la testa purché lo dica “ex machina” o qualcosa del genere. Invece lui cosa fa? Dice messa in latino, saluta le suore dalla finestra, prende un tè col Patriarca di Costantinopoli, sfila col camauro di nutria e ogni tanto racconta barzellette sui gay. Per carità, è una vita rispettabilissima, ma c’era bisogno di diventare Papa? È come avere la vista a raggi X e usarla per leggere il giornale senza voltare le pagine. Capisco essere pigri, la pigrizia è uno dei miei hobby preferiti, ma questo è diverso, questo è immorale. Con tutta la gente che muore per mancanza di pontificati, non si può buttare via il proprio in questo modo, come se fosse una cosa da niente.
Ci sono un milione di cose che si possono fare con un pontificato, l’importante è sbizzarrirsi, stupire il mondo, lasciare un segno nella noiosissima storia di questo noiosissimo pianeta annoiato. E invece niente. Fra tutti quelli che si sono alternati in sella all’ambitissima papamobile (che prima dell’invenzione del motore a scoppio era una biga trainata da agnostici), chi può vantarsi di aver reso veramente giustizia al proprio ruolo papale? Forse si può salvare San Pietro, l’inventore del Paradiso, o Urbano II, quello delle crociate, volendo anche Alessandro VI, l’unico uomo con più figli che spermatozoi, ma gli altri chi se li ricorda? Cos’hanno fatto Pelagio I, Agapito II o Iridio CXCIII? Chi li ha mai sentiti nominare? E questo Benedetto XVI? Cosa aspetta? Già dalla scelta del nome si era capito che buttava male. Benedetto XVI esisteva già, era un tizio del Quattrocento, un certo Jean Langlade, detto “l’antipapa” probabilmente perché fatto interamente di antimateria. Cosa puoi aspettarti da uno che non si è nemmeno sforzato di trovare un nome nuovo? Solo sbadigli.
Ma io al suo posto saprei cosa fare, io, Papa Daitarn IV, per prima cosa dichiarerei guerra a San Marino e Andorra, e dopo averli conquistati scambierei i loro nomi, poi staccherei tutti gli affreschi vaticani e li riattaccherei alla rovescia, sostituirei la croce (simbolo desueto oltre che di malaugurio) con un punto di domanda, l’acqua santa con lo yogurt alla menta e le ostie con i ciccioli, e infine, com’è ovvio, creerei un certo numero di nuovi comandamenti, fra cui:

14. non mangiare pesce fritto durante le feste,

21. il surrealismo non esiste,

63. sposta l’orologio avanti di mezz’ora quando sbadigli,

65. non sterzare,

80. leggi solo le pagine dispari,

153. ricorda di santificare il martedì,

632. ama te stesso come il tuo prossimo,

846. è solo tosse nervosa,

921. mangia pesce fritto tutti i martedì,

e ogni domenica mattina, affacciandomi alla mia proverbiale finestra vaticana, mi masturberei sulla folla festante.
Resta da capire coma mai Papa Benedetto XVI si comporti come si comporta, da zelante amministratore dell’inessenziale, scrupoloso burocrate della noia, ostinato custode del niente di niente. Chi lo sa? Qualcuno sostiene che un comportamento estroso non si addica a un pensatore del suo calibro, peccato che la parola pensatore non si addica a un Ratzinger del suo calibro.

LA BOTTEGA DEL PADRE

Era una sera di febbraio come ce ne sono poche (un 29), quando Mario entrò trafelato nella bottega di suo padre James.
«Mario?» disse James un po’ stupito di vederlo ancora alzato a quell’ora.
«Chi altri?» disse Mario a James, ma James non ribatté. Mario camminava rapidamente su e giù per la bottega del padre ostentando il fatto di essere ancora alzato.
«Che ora è?» chiese James pensando a che ora fosse.
«Non sono qui per parlare dell’ora» rispose seccamente Mario, il figlio trafelato di James.
James posò la merce in vendita nella sua bottega e la sistemò sul bancone. Senza guardare Mario, disse: «Mario». Mario aveva intuito dove il padre voleva andare a parare, ma non disse niente, continuò a camminare su e giù come se niente fosse. «Che ci fai ancora alzato a quest’ora?» chiese James.
«Perché?» chiese Mario «che ora è?».
«Non lo so» rispose James.
James e Mario si conoscevano da tanti anni ed erano sempre stati padre e figlio, avevano avuto innumerevoli diverbi, a volte anche molto accesi, ma quella sera era diverso. Nell’aria si diffondeva il caratteristico odore delle merci in vendita nella bottega di James, un odore ben noto a entrambi, ma che non serviva a riavvicinarli. Forse era l’ora.
«Povero James» disse Mario a James. James non si capacitava di quanto affannosamente Mario camminasse su e giù per la bottega, sembrava un uccello in gabbia.
«Sembri un uccello in gabbia» disse James a Mario.
«Un figlio in bottega» lo corresse Mario.
«Mario,» disse James «a essere precisi,» seguitò «un Mario in bottega».
«Di James» concluse Mario col fiato grosso. Tutto quel camminare gli stava facendo passare di mente che era ancora alzato a quell’ora.
«Ho pensato a una cosa» pensò James.
«A cosa pensi, James?» chiese Mario a James, il padre.
«Niente» mentì James.
«Menti» rispose Mario, e senza quasi accorgersene accelerò il passo. James tacque.
«Esigo che tu me lo dica» esigette Mario.
«È vero, Mario,» disse James «lo ammetto,» ammise «ho pensato» pensò.
«Ha pensato...» pensò Mario.
«Sì» sottolineò James con un cenno della testa come a dire «sì».
«Cos’hai pensato?» chiese Mario.
«La cosa che ho pensato» disse James. Evidentemente si credeva molto più intelligente del figlio.
«Cosa?», Mario lo scongiurò in ginocchio senza smettere di camminare.
«Ho pensato a cosa ci fai ancora alzato a quest’ora».
Mario sgranò gli occhi come se sentisse pronunciare quelle parole per la prima volta.
«È la verità,» disse James «Mario».
Mario era un ragazzo con la testa a posto, appoggiata sul collo, giusto a metà fra la spalla sinistra e la spalla destra, ma non gli piaceva sentirsi rinfacciare certe cose, soprattutto quando camminava su e giù nella bottega di James e James, suo padre, lo sapeva bene.
«James» disse Mario «lo sai bene che non mi piace sentirmi dire certe cose quando cammino nella bottega di James». Ma James non aveva tatto. Era così fin dalla nascita, senza tatto, le cose gli scivolavano dalle mani in continuazione, senza che potesse farci niente. Per sua fortuna lavorava in una bottega specializzata nella vendita di articoli che non si rompono quando cadono. «Scusa» si scusò James guardando Mario negli occhi di Mario, ma Mario si voltò dall’altra parte. Era stanco.
«Sono stanco,» disse trafelato «e trafelato» aggiunse, e se ne andò sbattendo la porta camminando su e giù nella bottega del padre all’ora in cui era ancora in piedi dicendo «me ne vado».
James ci rimase male e, fra sé e sé, disse «ci sono rimasto male».

HOMO SAPIENS SAPIENS

Tutti dicono che gli uomini siano la specie più evoluta del pianeta. Ma chi lo dice? I cavalli?


Sai una cosa, Fischietto?

Dimmi.

Sai cos’ho pensato oggi fra un nitrito e l’altro?

Aspetta, fammi indovinare, che è proprio una gran fortuna avere il pene lungo un metro.

No, ho pensato che gli esseri umani sono la specie più evoluta del pianeta.

Era la mia seconda scelta.


In realtà i cavalli non hanno nessuna opinione in merito, il che è sicuramente un punto a loro favore. E poi cosa significa “evoluti”? Come si misura l’evoluzione? Le mosche sanno volare e camminano sui muri, ma questo non fa di loro dei supereroi.
A essere obiettivi, da un punto di vista strettamente biologico, lo scopo di un essere vivente è riprodursi. Tutto è in funzione di questo. Le natiche, per esempio, servono a sedersi, sedersi serve a riposarsi, riposarsi serve a stare svegli, che serve a lavorare, che serve a guadagnare, che serve a procurarsi il cibo, che serve a sopravvivere, che serve a riprodursi. Fine. Sul pianeta ci sono sessantadue miliardi di piattole e sette miliardi di uomini, chi è più evoluto?
Prendiamo un’altra specie, i gatti, questi poveri animali con le unghie così affilate e gli occhi così sporgenti. Cosa fanno due gatti che si incontrano per caso? Se non hanno niente da dirsi si ignorano, altrimenti si accoppiano senza troppi complimenti in mezzo alla strada. È un comportamento semplice, lineare, logico. Invece due persone che si incrociano per strada? Se non si conoscono ma vorrebbero tanto fare l’amore, si ignorano, se invece si conoscono ma non hanno nessuna voglia di parlarsi, si salutano, fanno colazione insieme e magari mettono al mondo un paio di figli.
Due gatti che si odiano si azzuffano, vince chi perde meno occhi. Logico. Se invece due uomini si odiano, uno inizia a parcheggiare il motorino davanti all’ingresso dell’altro, l’altro fa sgocciolare i panni sul balcone del primo, questo lo denuncia perché non ha il terrazzo a norma, l’altro gli ammazza a martellate la figlia e i tg ci ricamano sopra per due settimane per la gioia di tutte le coppie che a tavola non hanno niente da dirsi. È evidente che le cattedre di logica dovrebbero essere assegnate ai gatti, ma, si sa, i concorsi universitari sono truccati.
C’è ancora una cosa. Tutti sanno che quelli che si vantano, oltre a essere poco attendibili nei loro autogiudizi, di solito sono anche dei poveri sfigati, e chi li sta ad ascoltare lo fa solo per cortesia o compassione. Ora, che nome si sono dati gli esseri umani? Gorilla Glaber? Australopithecus Ignarus? Homo Caput Fallicus?