LA MOGLIE DEL SUPEREROE

IL PROBLEMA DELLA MUSICA LEGGERA

La musica leggera è un fenomeno relativamente recente, soprattutto se la tua età inizia a essere confrontabile col secolo.
Un tempo non esisteva la musica leggera, esisteva la musica popolare. Carina, ma non ci vivevi. Se volevi vivere con la musica, dovevi dedicarti a quella che ora viene impropriamente chiamata "musica classica", mentre la musica popolare potevi cantarla nei campi o al compleanno del nonno. Nessuno faceva come lavoro il compositore di musica popolare, era assurdo solo pensarlo. Al massimo i compositori prendevano la musica popolare e la usavano come ispirazione. Ci sono tanti esempi a questo proposito, ma il mio preferito è la trentesima variazione Goldberg, dove Bach prende due canzoni contadine, qualcosa tipo "Rosalba ti amo" e "Verza e costine è la morte sua", e le combina insieme creando questo capolavoro


Meraviglioso, vero? Ascoltiamolo ancora


Certo sarebbe bello se Bach fosse ancora vivo e potesse fare la stessa cosa con Fausto Leali e i Nirvana. Pagherei.
Oggi c'è l'industria della musica leggera e quindi è più facile vivere con le canzoni che con qualsiasi altro tipo di musica. E fin qui tutto bene: se una cosa è semplice, mica deve essere per forza brutta. Meglio una birretta del supermercato che quei vini arancioni cosiddetti "naturali" che sanno di Vinavil. Non è la semplicità il problema della musica leggera (cfr. La musica classica non esiste). Il problema della musica leggera è che spesso suona falsa.
Molto spesso.
Prendiamo Beethoven. Quando Beethoven usava la forma sonata, era preoccupato che la  ripresa potesse suonare falsa. La ripresa è una riproposizione più o meno variata dell'esposizione, e Beethoven aveva paura che si sentisse lo sforzo compositivo di rendere interessante una cosa già sentita. Incredibile, no? Oggi le canzoni ti fanno sentire lo stesso ritornello trenta volte senza nessun problema e Beethoven si preoccupava della ripresa. Ecco perché nella sua musica la parte che precede la ripresa è un momento molto delicato, quasi ansiogeno. Non sono cose che ho scoperto io, eh. Me le ha dette Adorno.
Per Beethoven, tutto ciò che lasciava trapelare lo sforzo compositivo correva il rischio di suonare falso. Ma anche nascondere questo sforzo poteva suonare falso, visto che anche far sembrare spontaneo ciò che è costruito richiede uno sforzo compositivo. In fondo questo è il paradosso dell'arte: una finzione che aspira alla verità.
Prendiamo ora uno dei migliori esempi di musica leggera novecentesca: Creep. Non sono ironico, la considero veramente una bella canzone. Ciononostante suona falsa.
Già il fatto che ci sia questa maledetta batteria rende tutto abbastanza falso. Ora noi ci siamo abituati a sentire la batteria e ci sembra una cosa normale, ma ci rendiamo conto che mentre questi suonano la loro canzone, c'è uno che prende a bastonate delle scatole? E non le prende a bastonate a caso, che magari potrebbe essere interessante, ma a tempo! Cioè, voglio dire, c'è uno che sottolinea il tempo di una canzoncina in 4/4 con delle bastonate. È come se le sonate di Beethoven venissero suonate col metronomo acceso. Un metronomo a 160 decibel.
Ma lasciamo stare la batteria, ok? Ormai la batteria fa parte del folclore terrestre, posso accettarla, quello che più di tutto fa sembrare false le canzoni non è la batteria, i tamburelli o le nacchere, ma l'enfasi. Perché c'è tutta quell'enfasi? Enfasi nell'arrangiamento, enfasi nell'interpretazione, enfasi dappertutto. A cosa serve? È come se uno facesse gol nella partitella settimanale coi colleghi e esultasse come se fosse la finale dei mondiali. Voglio dire, fa ridere.
Per avere un'idea di tutta l'enfasi che c'è in Creep (bellissima canzone, seriamente), non serve neanche ascoltarla, basta un'immagine del video.


Cioè, ci manca solo il mascara che gli cola sulle guance.
È per questo motivo che la musica leggera andrebbe sempre accompagnata con un po' di ironia. Se non puoi raggiungere la verità, almeno punta alla sincerità.

PASSATO REMOTO, MANEGGIARE CON CAUTELA


Quando tanti anni fa, in un passato ormai lontano e compiuto, ho deciso di aprire questo blog, mi sono imposto di non usare mai il passato remoto, ed è un peccato, perché in realtà lo saprei usare benissimo. Segue esempio.

Ieri, verso le quattro, ebbi fame e mi cossi un uovo. Mi piacque a tal segno che mi strussi e piansi, così mi dissi: "un altro?", e un altro uovo fu: lo presi e lo bollii, ma quando stetti per mangiarlo, triste sorpresa, ciò che vidi mi incusse spavento: l'ebbi cotto oltremisura. Allora stramaledissi la mia imperizia, apersi o aprii la finestra e lo espulsi.
"Maledetto, fosti!", mi gridò un tizio dalla strada. A quanto pare lo colpetti.

Visto? C'è anche un trapassato remoto, e avrei potuto anche metterci un tratrapassato remoto: "ebbi avuto cotto". Bello, eh? Però qui si vede già un grosso problema di queste forme verbali: suonano pretenziose. Quando uno usa il passato remoto, sembra che voglia darsi delle arie da scrittore. È come andare in pizzeria col cilindro, il farfallino e il bastone da passeggio: certo, sei elegante, ma sei anche un po' ridicolo.
Stesso problema col punto e virgola. Le rare volte che mi permetto di usarlo, m'immagino sempre che uno possa dirmi “Punto e virgola!? Ma chi cazzo ti credi di essere? Cesare Pavese?".
Ma forse questi sono problemi che mi faccio io. Del resto ho lo stesso problema anche con i quartetti di Bartók: quando mi trovo in società, in particolare in quelle situazioni formali in cui devo interagire con gente con cui non ho particolare confidenza, evito accuratamente di dire che mi piacciono i quartetti di Bartók*. In queste occasioni, se per caso il discorso va sulla musica, io, per tranquillizzare tutti, dico che mi piace Fausto Leali. Funziona. Per esempio, quando viene il tecnico della caldaia a fare il controllo dei fumi, io gli dico subito che mi piace Fausto Leali, così, a bruciapelo, così lui si rilassa e mi guarda dall'alto in basso perfettamente a suo agio. A volte, mentre lui lavora e mi insudicia tutto il pavimento, io mi metto in un angolo e canticchio:

Ma dove va a finire il cielooo
E forse questo arcobalenooo
Ho bisogno del tuo amooor
Anima del mio cuooor
Oh, oh, oooh

Ovviamente devo inventare, mica lo ascolto davvero, Fausto Leali.
Ma il problema più grosso del passato remoto è un altro e non dipende dalla mia sensibilità. È un problema oggettivo che chiunque può tristemente constatare: il problema del passato remoto è che, se non stai attento, ti costringe a scrivere “feci”. E questo è grave. È molto grave. Uno fa la sua composizione di parole tutta elegante e carina, con tutti i punti e virgola al posto giusto, gli avverbi di dieci sillabe, le parole ottocentesche, le anafore, gli anacoluti studiati per bene, gli aggettivi come se piovesse e soprattutto gli andai, i dissi, i riflettei e poi all’improvviso: feci.
È terribile. Come ha potuto l'inventore della lingua italiana farci questo dispetto? È come se Michelangelo, dopo aver dipinto la Cappella Sistina, in un angolo del Giudizio Universale avesse inciso un piccolo cazzettino stilizzato. Così, tanto per rovinare tutto.
Allora come si fa? Se uno ha deciso di usare il passato remoto, come si comporta quando arriva il momento del verbo "fare"? Passa al passato prossimo? Andai, dissi, riflettei, ho fatto? No, dai, non si fa.
Ricorre a dei sinonimi? Tipo "compii", "effettuai", "produssi mediante una tecnica e/o un'azione"? Pure peggio. I sinonimi si usano per precisare il senso del discorso, non per confondere le acque. È una questione di onestà intellettuale. Se devo dire imbuto ottantasei volte, scrivo “imbuto” ottantasei volte, non scrivo "imbottavino", "pevera", "coso bucato che si restringe in fondo" e così via, non siamo mica alle medie.
Quindi?
Quindi niente, o si accetta eroicamente il rischio di mettersi in ridicolo e si scrive “feci” tutte le volte che è necessario, oppure si bandisce dalla propria vita il passato remoto.

*: Mai ascoltato Bartók in vita mia.