IL SIGNORE DI GIANCARLO

Quella mattina Giancarlo si svegliò tardi, colpito in testa da un riccio di castagna.


Promemoria per il futuro: mai dormire sotto i castagni.
Di solito lo svegliava il suo signore, l’illustrissimo Morcimone di Braganzio, signore di Braganzio e dintorni, comandante di Braganzio e console ad interim di Braganzio, il più blasonato cavaliere di tutta la Braganzia inferiore (e anche in quella superiore non è che fosse considerato poi tanto male), ma quella mattina il suddetto signore non c’era.


Forse si era allontanato per dar seguito a qualche bisogno corporeo, pensò Giancarlo, dopotutto anche i signori devono fare pipì. Stranamente, però, oltre all’illustrissimo signore non c’era più nemmeno la sua illustrissima roba: lo scudo, l’elmo, la bandiera coi disegnini e tutte le altre cose tipiche dei signori. Che fosse andato a fare pipì armato come in battaglia? E se sì, perché andarci a cavallo? Giancarlo si grattava con circospezione l’orecchio e intanto guardava le orme lasciate da Crinodonte, l’illustrissimo cavallo del suo illustrissimo signore, che si addentravano nel bosco. Di corsa.
A Giancarlo non piacevano i boschi. C’erano tante cose che non gli piacevano: il pane inzuppato nell’acqua, il freddo, il vento nelle orecchie, ma meno di tutto gli piaceva entrare nei boschi, soprattutto quando c’era freddo e vento come adesso. Meno male che almeno non stava mangiando pane inzuppato nell’acqua, pensò entrando nel bosco.
All’inizio sembrava notte, poi, man mano che gli occhi si abituavano al buio, continuava a sembrare notte. Mai visto un posto così buio.


Giancarlo cercò il suo signore dappertutto: dietro i cespugli, sugli alberi, sotto le foglie e dentro i ricci di castagna, non si sa mai, ma di lui non c’era traccia e anche se ci fosse stata di sicuro non l’avrebbe potuta vedere col buio che c’era. Lo cercò rispettosamente senza chiamarlo per nome per non disturbarlo, senza mangiare perché non ne aveva il permesso, in lungo e in largo per tutto il bosco senza mai perdersi d’animo, perché, va detto, non si può perdere quello che non si ha.
Quanto gli mancava. Porta la legna! Sì, signore! Svuota il secchio! Sì, signore! Pettina il cimiero! Sì, signore! Era così semplice obbedire e Giancarlo ringraziava il cielo tutti i giorni di essere nato Giancarlo e non signore.


Intanto che pensava a queste cose, sentì dei passi sulle foglie. Tutte le sue vertebre si misero a scodinzolare: fra gli alberi si muoveva una figura svelta, col petto in fuori e un’aria decisamente illustrissima. Giancarlo notò che era senza cavallo e senza armatura e che muoveva la testa in modo curioso, come a scatti. Forse il suo signore non stava bene? Aveva un aspetto terribile, tutto arruffato, con le gambe sottili da far paura e camminava in tondo come se stesse cercando qualcosa per terra. Era anche diventato stranamente piccolo, poco più grande di un animale da cortile, ma soprattutto Giancarlo non ricordava che avesse il becco e le penne. Infatti era un barbagallo.


Si avvicinò a quell’animale decisamente meno illustre del previsto e gli chiese se sapeva dove fosse il suo signore, ma il barbagallo disse di no, o almeno così gli sembrò di capire, visto che Giancarlo non conosceva la lingua del barbagallo e, va detto, nemmeno aveva mai visto in vita sua quella strana gallina che lì per lì aveva deciso di chiamare barbagallo. Chiese la stessa cosa a tutti gli animali del bosco, al rinocefalo, al bue bisonte, al cormoragno, al tritacervo, al rombotauro, all’ippostorno, al corvo irsuto e persino alla scontrosa oca perenne, ma la risposta era sempre la stessa: incomprensibile.
Erano ore che camminava, forse anni, e ancora non aveva trovato niente: un capello, un torsolo di mela, un panino col prosciutto... che fame, pensò, e si fermò a mangiare qualcosa: pane inzuppato nell’acqua.


Che fai? Gli domanda una voce.
Giancarlo alza la testa dalla scodella e si inginocchia all’istante. L’abitudine.


Mangio.

Sì, questo lo vedo. Chiedevo che fai qui, è pericoloso.

Davvero?

Non hai letto i cartelli?

Non si vede niente.

Esatto. È quello che c’è scritto.

Ah.

Seguimi!


A parlargli era una specie di cimice o forse uno strano uccello notturno a forma di cimice, fatto sta che si trattava chiaramente dello spirito del bosco. Capire quello che diceva richiedeva una certa immaginazione, ma era sempre meglio di niente.
Lo spirito, cosa molto gentile da parte sua, lo portò in una piccola radura senza alberi e lì Giancarlo vide una cosa incredibile che non avrebbe mai creduto possibile: il cielo era ancora al suo posto, esattamente dove lo aveva lasciato l’ultima volta. Era notte, ma in confronto a prima sembravano le due del pomeriggio. Sto cercando il mio signore, disse Giancarlo. Lo spirito del bosco gli si posò sul naso.


L’illustrissimo Morcimone di Braganzio.

Mai sentito nominare.

È qui da qualche parte.

Impossibile.

Ma ho visto le impronte entrare nel bosco.

Quelle erano le impronte dell’orsopardo.

Dell’orsopardo?

Sì. Il tuo signore è un orsopardo?

Non credo.

Allora qui non c’è.


Giancarlo fece di sì con la testa, ma solo per cortesia. Era una cosa troppo brutta per essere vera.


E sai per caso dirmi dove posso trovare questo “orsopardo”? Lo chiese con tutta la gentilezza che riuscì a simulare, ma lo spirito del bosco era già volato via senza nemmeno salutare. Tipico degli spiriti.
Giancarlo si sdraiò sull’erba bagnata. Solo cinque minuti, si disse. Il cielo era così limpido che si potevano vedere tutte le stelle conosciute e un po’ anche quelle sconosciute: il Melograno, il Ghiro Polare, la grande Nube Piumosa, il Copriletto... che sonno, pensò. Giancarlo diceva sempre quello che pensava.


La mattina dopo si svegliò tardi, colpito in testa da un riccio di castagna.