CHI RIMANE

COME È FATTO UN CAMIONISTA

La situazione perfetta in cui vedere una persona come realmente è, denudata da inibizioni sociali e false cortesie, sono i commenti anonimi in rete. Ovviamente con “anonimato” non intendo il semplice uso di uno pseudonimo. Fa ridere chi chiama “nome vero” il nome anagrafico e “nome falso” uno pseudonimo, confondendo la validità legale di un nome con la sua riconoscibilità pubblica. Non mi pare che qualcuno definisca “anonimi” Mel Brooks (Melvin Kaminsky), Rita Hayworth (Margarita Cansino) e Madonna (Maria qualcosa). Senza contare che lo pseudonimo che uno si sceglie da solo è molto più “vero” dello pseudonimo che gli viene affibbiato alla nascita da genitori e Stato.
L’anonimato è quella condizione in cui non si è riconoscibili e non si deve rispondere delle proprie azioni, ed è una condizione che rende la gente particolarmente sincera, molto più del vino. Su internet è facile essere anonimi, ci vogliono quindici secondi a creare un indirizzo email fittizio, aprire un account Facebook con un nome a caso e andare a importunare qualche grillino, cosa che peraltro non ho mai fatto, ma fuori da internet come si fa? Bisogna mettersi i baffi finti? Fare un accento straniero? E come fanno gli stranieri coi baffi? In realtà il modo più efficace di essere anonimi fuori da internet è rinchiudersi in un voluminoso esoscheletro di metallo dotato di clacson, ruote motrici e motore a scoppio. Solo così è possibile sguinzagliare se stessi in giro per il mondo senza nessuna paura, e non bisogna fare nemmeno la fatica di esprimersi verbalmente. Al sicuro nel proprio abitacolo, uno diventa un puro grumo di volontà senza nome, il cui unico scopo è arrivare dove vuole arrivare nel più breve tempo possibile, fosse anche al cimitero.
È per questo motivo che, se si vuole conoscere a fondo una persona, basta guardare come guida. Ci sono i paurosi, che guidano come se fossero nella giungla; i rissosi, che appena si sentono feriti nell’orgoglio ingaggiano un duello di clacson; i rigorosi, che se vedono un segnale tipo questo
spengono la macchina e proseguono a piedi; gli esteti, che considerano la segnaletica stradale puro ornamento; gli indecisi, che girano ore e ore attorno alla stessa rotatoria nella speranza che appaia il cartello giusto, e naturalmente la categoria più diffusa di tutte: gli imbecilli, quelli che usano i lampeggianti come fossero siluri fotonici (secondo me fanno anche il rumore con la bocca). Tutti i caratteri umani sono rappresentati nei modi di guidare, puri e evidenti come se fossero scritti sulla targa. Poi ci sono i camionisti, anzi il camionista.
Dico “il” camionista, perché in realtà si tratta di una sola persona con tanti corpi, cosa che si evince dal fatto che tutti i camion si comportano allo stesso modo in tutte le autostrade dell’universo: si buttano sulla tua corsia appena sei a tiro, sorpassano gli altri camion alla stessa velocità con cui crescono le unghie, viaggiano appiccicati uno all’altro come una specie di centipede umano, sfoggiano effigi di Padri Pii e donne nude (mai donne pie e padri nudi), si imbizzarriscono contro qualsiasi cosa non abbia le fattezze di un camion e, in generale, seguono un misterioso sistema di regole non scritte di cui solo loro sono a conoscenza, una specie di codice cavalleresco del camionista. Chi lo trasgredisce viene preso a clacsonate senza nessuna pietà. 
Un giorno, mentre osservavo un camion fermo davanti a me in una piazzola di sosta, mi sono chiesto: ma come sarà fatto un camionista, questa entità eterna e ubiqua? Avrà le sembianze previste dal suo stereotipo, cioè un energumeno grezzo e unto coi ciuffi di peli che gli escono dalle orecchie? O invece sarà completamente diverso, tipo un lombrico? Quali caratteristiche deve avere una creatura per poter sopportare una vita in autostrada, da solo, a quella velocità insostenibile? Per esempio, un autista di bus deve avere una grande capacità di concentrazione per ignorare tutti quelli che parlano col conducente, un tassista deve avere memoria, un pilota di Formula Uno deve riuscire a non addormentarsi, ma un camionista? Com’è fatto un camionista? Per togliermi la curiosità, mi sono avvicinato al camion e ho aperto la portiera. Non c’era nessuno.

ISTRUZIONI PER TROVARE POSTI SILENZIOSI

A me piace il progresso. Non sono uno di quelli che dice “ah, come si stava bene nel paleolitico, quando eravamo a contatto con la natura e le controversie venivano risolte in modo semplice e spontaneo: a mazzate sulla testa”. No, grazie. A me piace la civiltà, mi piace che si faccia la coda al supermercato, che ci si chieda gentilmente il permesso prima di accoppiarsi e, cosa non trascurabile, che sia io a mangiare gli animali e non viceversa. Uno come me nel paleolitico non sarebbe sopravvissuto neanche un minuto, tempo di mettere la testa fuori da mia madre e mi sarei preso la polmonite. Ora invece ho una medicina per tutto: lo sciroppo per la tosse, le pastiglie per lo stomaco, le gocce per la gente, per non parlare di internet. Come si faceva a vivere prima di internet? Se ora voglio il sushi, apro il computer e lo ordino. Prima uno cosa doveva fare? Uscire di casa? Ma siamo matti? Ciononostante devo dire che c’è una cosa, una sola, che invidio molto al passato: il silenzio.
Oggi sembra che tutto sia congegnato per cancellare il silenzio: clacson, suonerie, betoniere, persino in aereo, a undicimila metri di quota, c'è un casino pazzesco, e non mi si dica che è il rumore dei motori, per favore. È chiaramente un suono diffuso all’interno della cabina per coprire l’insostenibile silenzio che ci sarebbe a quella quota, perché, lo sappiamo, la gente non riesce a sopportare il silenzio, al massimo lo regge per un minuto, non di più. È come se il silenzio potesse rivelare qualcosa di terribile, qualcosa che sotto sotto tutti sanno ma non vogliono sentirsi dire.
Fra tutti gli strumenti che l'uomo ha ideato per eliminare il silenzio, ce n’è uno che li batte tutti: le canzoni. Lo scopo principale delle canzoni non è fare musica, come ingenuamente si crede, ma cancellare in modo sistematico e definitivo dall’esistenza umana ogni traccia di silenzio, anche la più piccola, e questo vale per tutte le canzoni, da Gigi D’Alessio ai Radiohead, su su fino ai Girls in Hawaii. Le canzoni sono dappertutto, nei bar, in palestra, nelle sale d’attesa, persino nei bagni pubblici, e anche se ti chiudi nel ripostiglio di casa tua e ti tappi le orecchie, le canzoni continueranno comunque a risuonarti nella testa con le loro melodie orecchiabili. Non vorrei sembrare esagerato, ma le canzoni sono la negazione ontologica del silenzio, perché non si limitano a coprirlo, cosa che può fare anche un banale neonato, ma lo annientano come possibilità. A causa delle canzoni, non è rimasto nessun posto sulla Terra dove si possa trovare un po’ di silenzio. Ecco una lista dei posti dove ultimamente l’ho cercato:
- Camera da letto.
- Box doccia.
- Cassetto delle posate.
- Bilbao.
- Monte Cimone.
Niente da fare, è più facile trovare un valigia con un milione di euro (piccola nota: non ho trovato nemmeno quella). Quindi? Quindi niente, sembrerebbe non esserci nessuna speranza. In realtà un piccolo posto silenzioso è rimasto, solo che non è un luogo fisico, ma un luogo dell’anima.

















Ah ah ah scherzo! Il giorno in cui scriverò seriamente “luogo dell’anima”, per favore qualcuno mi abbatta. Dicevo, un posto silenzioso c’è, ed è la musica, dove con “musica” intendo la musica cosiddetta classica, anche se sarebbe più corretto chiamarla “musica europea dal Cinquecento a oggi escluse le canzoni”, ma che qui per semplicità chiamerò, appunto, “musica”. A differenza delle canzoni, la musica non solo non cancella il silenzio, ma lo contiene, lo usa e in qualche caso particolarmente fortunato lo crea.
Il modo più brutale per vedere il contenuto di silenzio di un brano musicale è guardare la sua onda sonora. Questa è l’onda di Misses, una canzone che ho impiegato circa tre mesi a togliermi dalle orecchie.


Mentre questa è quella del primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven


Mentre nella sinfonia ci sono i forte e i piano, i pianissimo, i piano pianissimo e addirittura le pause, la canzone è praticamente tutta sparata al massimo. Questo è ottenuto con la compressione dell’intervallo dinamico, un effetto molto usato nella musica leggera e che serve a rendere il volume uniforme. È per questo che le canzoni si prestano così bene a fare da tappezzeria sonora: sono sempre perfettamente udibili dall’inizio alla fine, senza il rischio di pericolosi silenzi.
Ma oltre al silenzio come assenza di suoni, c’è anche un altro tipo di silenzio, quello che si ha quando ciò che potrebbe essere detto non viene detto e, in certi casi, se è non detto bene, può essere più eloquente di ciò che viene detto. A differenza delle canzoni, dove tutto è esplicito e esibito come in un film porno, la musica parla anche attraverso quello che non dice. Prendiamo per esempio questa fuga del Clavicembalo Ben Temperato.


Le quattro voci iniziano a parlare una alla volta, si rispondono, si ripetono (nello stesso modo o capovolte), si inseguono e soprattutto qualche volta tacciono. Non parlano sempre tutte assieme, a volte sono in tre, in un paio di casi rimangono solo in due, ma le voci che tacciono non spariscono, sono sempre lì anche loro, potrebbero parlare ma per qualche motivo preferiscono stare in silenzio, ed è così bello ascoltare le persone che stanno in silenzio.