INTRODUZIONE A UN USO CONSAPEVOLE E APPROPRIATO DELL’ESPRESSIONE “SCRIVERE BENE”

Una cosa che si sente spesso dire se si soggiorna per un po’ sul pianeta Terra (parlo di quella sferetta azzurra a centocinquanta milioni di chilometri dal Sole da cui proviene tutto quel chiasso) è che un romanzo è scritto bene oppure male: “scritto bene ma fa dormire”, “bella storia ma scritto male”, “la cosa meglio scritta che abbia mai letto in tutta la mia vita e, al momento, anche l’unica” e così via. All’inizio non ci facevo molto caso, pensavo fosse una specie di intercalare senza significato, un po’ come “vero?”, “diciamo” o “c’è gente che non arriva alla fine del mese”, ma poi ho visto che le persone ci tengono parecchio, arrivando a volte anche a picchiarsi. Ora, siccome non ho mai visto nessuno picchiarsi per un intercalare, almeno non ancora, a un certo punto ho capito che non si tratta di un intercalare ma di un giudizio. Un giudizio che a dir la verità non ho ancora ben capito cosa significhi, e ho l’impressione che non l’abbiano capito nemmeno quelli che lo esprimono.
Qual è il significato di “scritto bene”? Scorrevole? Chiaro? Forbito? Corretto? O è forse un apprezzamento tipografico?


Hai letto “I Buddenbrook”? Ha un garamond eccezionale.

Eh, sì. Thomas Mann ci sa proprio fare. Hai notato i puntini di sospensione?

Sempre tre.

Un maestro della letteratura.


Io credo che il più delle volte “scritto bene” significhi semplicemente “mi piace”, solo che dicendo “scritto bene” uno dà al suo giudizio una parvenza di oggettività. Le persone hanno questo brutto vizio di oggettivare il soggettivo: dicono “fa freddo” non “ho freddo”, “è noioso” non “non lo capisco”, “è ingiusto” non “è una cosa che danneggia me e/o una o più persone a cui tengo”, e così via. Sul “mi piace” non c’è niente da discutere: a me piace, a te non piace, ciao.
Invece che cosa potrebbe voler dire “scritto bene”, supponendo che si volesse andare controcorrente e usare questa espressione per il suo significato e non solo per il rumore che fa in bocca?
Io ho una proposta: un romanzo è “scritto bene” se

1. dice qualcosa,

2. la dice in modo coinvolgente.

1.
“Dice qualcosa” non nel senso che insegna qualcosa, come se un romanzo fosse un mezzo per educare il lettore e condurlo alla virtù (per questo ci sono già i film porno), ma nel senso che fa vedere qualcosa, magari qualcosa di comune o persino banale, da un punto di vista nuovo. Un romanzo (ma anche una persona) dice qualcosa quando fa vedere quel qualcosa di cui parla in un modo originale. Attenzione, però: “originale” non nel senso di inedito, come se fosse possibile brevettare un punto di vista (se così fosse, l’inventore di “Venezia è bella ma non ci abiterei” a quest’ora sarebbe miliardario), ma “originale” nel senso di originario della persona che scrive (o parla), e non delle trasmissioni televisive che frequenta. Chi spiattella solo luoghi comuni (veri o falsi che siano) non esprime il proprio punto di vista, ma il punto di vista del tempo e del posto in cui vive. In pratica non è una persona, ma una pettinatura.
Un romanzo che “dice qualcosa” è un romanzo che fa vedere qualcosa nel modo in cui quella cosa è vista dalla persona che la fa vedere.

2.
Ma questo far vedere deve anche essere coinvolgente, altrimenti nessuno guarda. Anche il semplice puntare l’indice è un modo di far vedere, ma indicare col dito è sufficiente a far vedere? Se si aggiunge un “guarda là!” è già meglio, ma è ancora meglio se il gesto dell’indicare viene accompagnato da un pugno sui denti.


Guarda là!

Eh?

PAM!


Il problema è che se dopo il pugno non c’è niente da far vedere, allora è meglio iniziare a correre. Credo sia per questo che John Grisham fa così tanta attività fisica.


Un romanzo è coinvolgente quando ti mette in uno stato d’animo, e lo stato d’animo ideale è quello adatto a vedere le cose dal punto di vista di chi scrive.
Stabilito questo, quando un romanzo si può dire “scritto male”?
Stando alla definizione appena data, i romanzi scritti male possono essere suddivisi in due categorie: i romanzi scritti male propriamente detti, cioè quelli che non hanno nessuna delle due proprietà del romanzo scritto bene, e i romanzi che non sono scritti né bene né male (i cosiddetti romanzi “così così”), cioè i romanzi a cui manca una di quelle due proprietà: quelli che hanno la proprietà 1 ma non la 2 (i romanzi a tesi) e quelli che hanno la proprietà 2 ma non la 1 (i romanzi tutta trama).
I romanzi a tesi sono quelli che hanno qualcosa da dire, ma la dicono come il libretto di istruzioni della lavastoviglie. Più che raccontare vorrebbero spiegare, ma non possono farlo perché sono romanzi, così il racconto è solo un pretesto per collocarsi nel reparto narrativa. Questi romanzi si distinguono principalmente per il fatto di essere insipidi e verbosi, e se si fa bene attenzione si può leggere fra le righe la scaletta dell’autore: “qui dico che l’amore vince su tutto”, “qui che la scienza è arida”, “vietato sostare in doppia fila”, eccetera.
Invece i romanzi tutta trama raccontano il niente in modo molto avvincente. Mettono in moto la psiche del lettore, lo sprofondano suo malgrado nell’intreccio come fossero sabbie mobili e gli danno una vita fittizia di cui occuparsi quando la sua è momentaneamente pallosa. Sono perfetti per ammazzare il tempo, solo che quando li hai finiti ti lasciano solo un grande senso di “embè?”.
Infine ci sono i romanzi scritti male propriamente detti, cioè quelli che oltre a non avere niente da dire, lo dicono pure male. Per avere un esempio di questo tipo basta andare in libreria e prendere un libro a caso dallo scaffale “novità”.

(Applicazioni)