16. CHE COSA NON È LA FELICITÀ
“Felicità” è un’altra di quelle parole che tutti usano, ovunque e con chiunque, ma che ognuno usa a modo suo, senza minimamente preoccuparsi che gli altri intendano quello che lui intende e, in molti casi, senza sapere bene nemmeno lui che cosa davvero intende. C’è chi intende “euforia”, come quelli che ostentano gioia di vivere quando sono in pubblico e poi magari in privato si rannicchiano in un angolo buio del sottoscala, c’è chi intende “allegria”, chi “spensieratezza”, “tranquillità”, “gratificazione personale”, “appagamento intellettuale”, “piacere fisico”, “scarpe comode” e così via, tanto che non mi stupirei se qualcuno intendesse “cavallo”.
Tu non sei felice.
Cosa dici? Certo che sono felice.
Non con me.
Ti giuro che sono felice.
Eppure...
Non sono mai stato così felice come adesso.
Dimostramelo.
Non ho niente di cui lamentarmi, vorrei che tutto rimanesse così com’è e quando penso a te provo una sensazione piacevole.
E questa la chiami felicità?
Beh, sì.
Tu non sai cos’è la felicità.
Cos’ho fatto per meritarmi questa frase fatta?
La vera felicità è veloce, resistente e docile. Molto precoce, può essere messa al lavoro già a tre anni.
Non ti seguo.
E poi nitrisce.
Eppure, tolti i pronomi, le congiunzioni e i sinonimi di pene, sono proprio le parole come “felicità” le più usate, parole-prezzemolo che servono più a insaporire i discorsi che a comunicare dei concetti. Sono parole che non vengono usate per il loro significato ma per il suono che hanno, in pratica sono onomatopee. Può sembrare incredibile che la gente riesca comunque a capirsi, e infatti non si capisce per niente. Nella maggior parte dei casi la gente non parla per capirsi ma per stare insieme, e tutto quello che serve per stare insieme è qualche salsiccia, della birra fresca e un po’ di parole dal suono comune che tengano tutti spensieratamente uniti: non “apoftegma”, “teleologia” o “ciniglia”, ma “amore”, “verità” e “felicità”.
Tuttavia, anche se è vero che ognuno parla di felicità a suo unico e insindacabile arbitrio, è anche vero che almeno su una cosa tutti sembrano essere d’accordo: ciò che la felicità non è. Per esempio non è la frustrazione. Partendo da questo dato si può allora affermare che condizione necessaria per essere felici, qualsiasi cosa questo significhi, è il non essere frustrati. È quindi possibile individuare almeno un insieme di persone sicuramente infelici: le persone poco sagge.
Ricordando quanto detto nella parte 13, l’insoddisfazione (n) di una persona è la quantità di amor proprio (a) che il suo orgoglio (o) non riesce a soddisfare
n = a - o
e si trasforma in frustrazione in tutti quei casi in cui supera l’orgoglio
a - o > o
cioè quando
a > 2o
Essendo l’orgoglio il prodotto dell’amor proprio per la saggezza (s), si ha allora che sono frustrate tutte e sole le persone per le quali vale la condizione
a > 2as
cioè
s < 0.5
che non è altro che la definizione di persona poco saggia (parte 14). Possiamo quindi affermare che tutte le persone poco sagge sono frustrate (e viceversa) e quindi infelici (ma non viceversa), indipendentemente da quanto siano intelligenti. Anche un genio, se poco saggio, sarà infelice, figurarsi gli altri.
Questo risultato potrebbe sembrare in aperta contraddizione con i dati empirici, visto tutto l’entusiasmo che spesso contraddistingue ultrà, tronisti, punkabbestia e tutte le altre specie di stolti che gioiosamente affollano questo pianeta, ma è solo perché bisogna ancora distinguere fra insoddisfazione e insoddisfazione, le due componenti dell’insoddisfazione. Come ormai dovrebbe essere chiaro, uno dei punti forti di questo modello è la scelta dei nomi.