PASSATO REMOTO, MANEGGIARE CON CAUTELA


Quando tanti anni fa, in un passato ormai lontano e compiuto, ho deciso di aprire questo blog, mi sono imposto di non usare mai il passato remoto, ed è un peccato, perché in realtà lo saprei usare benissimo. Segue esempio.

Ieri, verso le quattro, ebbi fame e mi cossi un uovo. Mi piacque a tal segno che mi strussi e piansi, così mi dissi: "un altro?", e un altro uovo fu: lo presi e lo bollii, ma quando stetti per mangiarlo, triste sorpresa, ciò che vidi mi incusse spavento: l'ebbi cotto oltremisura. Allora stramaledissi la mia imperizia, apersi o aprii la finestra e lo espulsi.
"Maledetto, fosti!", mi gridò un tizio dalla strada. A quanto pare lo colpetti.

Visto? C'è anche un trapassato remoto, e avrei potuto anche metterci un tratrapassato remoto: "ebbi avuto cotto". Bello, eh? Però qui si vede già un grosso problema di queste forme verbali: suonano pretenziose. Quando uno usa il passato remoto, sembra che voglia darsi delle arie da scrittore. È come andare in pizzeria col cilindro, il farfallino e il bastone da passeggio: certo, sei elegante, ma sei anche un po' ridicolo.
Stesso problema col punto e virgola. Le rare volte che mi permetto di usarlo, m'immagino sempre che uno possa dirmi “Punto e virgola!? Ma chi cazzo ti credi di essere? Cesare Pavese?".
Ma forse questi sono problemi che mi faccio io. Del resto ho lo stesso problema anche con i quartetti di Bartók: quando mi trovo in società, in particolare in quelle situazioni formali in cui devo interagire con gente con cui non ho particolare confidenza, evito accuratamente di dire che mi piacciono i quartetti di Bartók*. In queste occasioni, se per caso il discorso va sulla musica, io, per tranquillizzare tutti, dico che mi piace Fausto Leali. Funziona. Per esempio, quando viene il tecnico della caldaia a fare il controllo dei fumi, io gli dico subito che mi piace Fausto Leali, così, a bruciapelo, così lui si rilassa e mi guarda dall'alto in basso perfettamente a suo agio. A volte, mentre lui lavora e mi insudicia tutto il pavimento, io mi metto in un angolo e canticchio:

Ma dove va a finire il cielooo
E forse questo arcobalenooo
Ho bisogno del tuo amooor
Anima del mio cuooor
Oh, oh, oooh

Ovviamente devo inventare, mica lo ascolto davvero, Fausto Leali.
Ma il problema più grosso del passato remoto è un altro e non dipende dalla mia sensibilità. È un problema oggettivo che chiunque può tristemente constatare: il problema del passato remoto è che, se non stai attento, ti costringe a scrivere “feci”. E questo è grave. È molto grave. Uno fa la sua composizione di parole tutta elegante e carina, con tutti i punti e virgola al posto giusto, gli avverbi di dieci sillabe, le parole ottocentesche, le anafore, gli anacoluti studiati per bene, gli aggettivi come se piovesse e soprattutto gli andai, i dissi, i riflettei e poi all’improvviso: feci.
È terribile. Come ha potuto l'inventore della lingua italiana farci questo dispetto? È come se Michelangelo, dopo aver dipinto la Cappella Sistina, in un angolo del Giudizio Universale avesse inciso un piccolo cazzettino stilizzato. Così, tanto per rovinare tutto.
Allora come si fa? Se uno ha deciso di usare il passato remoto, come si comporta quando arriva il momento del verbo "fare"? Passa al passato prossimo? Andai, dissi, riflettei, ho fatto? No, dai, non si fa.
Ricorre a dei sinonimi? Tipo "compii", "effettuai", "produssi mediante una tecnica e/o un'azione"? Pure peggio. I sinonimi si usano per precisare il senso del discorso, non per confondere le acque. È una questione di onestà intellettuale. Se devo dire imbuto ottantasei volte, scrivo “imbuto” ottantasei volte, non scrivo "imbottavino", "pevera", "coso bucato che si restringe in fondo" e così via, non siamo mica alle medie.
Quindi?
Quindi niente, o si accetta eroicamente il rischio di mettersi in ridicolo e si scrive “feci” tutte le volte che è necessario, oppure si bandisce dalla propria vita il passato remoto.

*: Mai ascoltato Bartók in vita mia.