Quando si nota una cosa nuova, ci si inventa una parola nuova, anche quando la cosa nuova è in realtà una cosa vecchia che ha già la sua parola vecchia. Più la cosa sembra nuova, più la parola si diffonde, e a poco a poco tutti la usano: giornali, televisioni, salumifici. Se poi è una di quelle cose che indignano e infervorano, la parola nuova smette di essere una semplice parola e diventa un simbolo, non più un nome che nomina una cosa, ma la manifestazione sonora di un ideale e di tutte le persone che in quell’ideale si riconoscono. Quando questo succede, pronunciare quella parola diventa rischioso, non è più come dire “matita”, “stoppino” o “autolavaggio”, cioè parole qualsiasi per cose qualsiasi, ma è come avere in bocca un popolo, il Popolo della Parola. Il semplice pronunciare la Parola ti qualifica subito come amico o nemico del Popolo: amico è chi sbandiera la Parola, nemico è chi la usa come se fosse una qualsiasi parola. Parlare diventa tifare. Dico questo perché ho l’impressione che la parola “femminicidio” sia già arrivata a questo stadio simbolico, e siccome io non voglio tifare ma solo esprimere un concetto, ci tengo a precisare che se nego l’esistenza del cosiddetto femminicidio, non voglio con questo sbeffeggiare le persone che pensano che la società sia maschilista, categoria di persone alla quale, forse immodestamente, mi pregio di appartenere.
La parola “femminicidio” non è usata semplicemente per indicare l’assassinio di donne, cosa che esiste e che è ovvio che esista, almeno fintanto che esisteranno gli omicidi, ma l’assassinio di donne in quanto donne ad opera di maschi maschilisti, un fenomeno unanimemente considerato un’emergenza (Corriere) e che qualcuno ha addirittura paragonato all’Olocausto (Treccani). Quello che invece io sostengo è che gli uomini non uccidono le donne perché sono donne, ma perché sono persone che frequentano, e che il grande numero di donne uccise nelle relazioni di coppia non è un segno del maschilismo della società, ma un segno della congenita violenza maschile, violenza che si manifesta contro tutti e tutto: donne, uomini, animali, cose e anche contro se stessa, come dimostra il fatto che circa i tre quarti di quelli che si suicidano sono uomini (Istat). Per questo dico che il femminicidio non esiste, e che il fenomeno che questa parola vorrebbe descrivere è in realtà un fenomeno già noto: l’omicidio, una specialità in cui gli uomini prevalgono da sempre su qualsiasi altro sesso. Tutto questo può essere dimostrato.
Chiamiamo pu la probabilità che un uomo, frequentando una persona per un certo periodo di tempo, la uccida. Ovviamente ognuno ha il suo carattere e quindi ha più o meno probabilità di uccidere chi lo sorpassa senza giusta causa, chi lo contraddice col sorriso sulle labbra o chi si rifiuta di rammendargli i calzini, qui però, per semplicità, considereremo solo quantità medie supposte uguali per tutti gli uomini o, quando verrà il loro turno, per tutte le donne, indipendentemente dall’età, dall’istruzione o dalla montatura degli occhiali. Chiamiamo inoltre nu il numero di persone, uomini e donne, che un uomo frequenta nel periodo di tempo considerato, allora il numero medio di persone che ucciderà in quel periodo è punu, e il numero di omicidi commessi da tutti gli uomini di una popolazione di N abitanti è circa punuN/2, dove si è supposto che gli uomini siano circa la metà dell’intera popolazione (N). Ora, siccome la probabilità che un uomo a caso commetta un omicidio è molto bassa (pu«1), si ha che il numero di uomini assassini (au) è in prima approssimazione uguale al numero di omicidi commessi dagli uomini
au ≈ punu N/2
Analogamente si trova che il numero di donne assassine è
ad ≈ pdnd N/2
dove pd e nd sono le quantità corrispondenti a pu e nu per le donne. Vediamo adesso come scrivere il numero di vittime uomini (vu) e il numero di vittime donne (vd) nello stesso periodo di tempo.
Siccome la quantità di gente che uno frequenta è sempre molto inferiore a N, la frazione di uomini frequentati è mediamente
fu ≈ nu/(nu+nd)
e la frazione di donne è
fd ≈ nd/(nu+nd)
Un uomo frequenta nu persone, quindi funu uomini e fdnu donne, e per ogni uomo che frequenta ha una probabilità pu di essere ucciso e per ogni donna una probabilità pd. Qual è la probabilità (p’u) che sia ucciso? Poiché la probabilità che nessuno lo uccida è
1 - p’u = (1-pu)funu (1-pd)fdnu
la probabilità che sia ucciso almeno una volta è
p’u = 1 - (1-pu)funu (1-pd)fdnu
che con ogni probabilità è anche l’unica, essendo pu«1 e pd«1. A causa di questa piccolezza di pu e pd è anche possibile trascurare tutte le loro potenze superiori alla prima e i loro prodotti, e quindi approssimare p’u come segue
p’u ≈ pufunu + pdfdnu
Quindi il numero di vittime uomini è circa p’uN/2, cioè
vu ≈ (pufu + pdfd) nu N/2
e analogamente il numero di vittime donne è
vd ≈ (pufu + pdfd) nd N/2
Abbiamo quindi espresso il numero di assassini uomini e donne (au e ad) e il numero di vittime uomini e donne (vu e vd) in funzione di quattro parametri: violenza degli uomini (pu), violenza delle donne (pd), inserimento sociale degli uomini (nu) e inserimento sociale delle donne (nd). Definiamo ora
v = pu/pd
e
m = nu/nd
v è un indice di quanto gli uomini sono più violenti delle donne, a prescindere da quale sia l’oggetto della loro violenza. Se v è maggiore di 1, allora frequentare un uomo è più pericoloso che frequentare una donna, e più v è grande più il pericolo aumenta, e a niente può servire travestirsi da non donna. m è invece un indice di quanto gli uomini sono più inseriti nella società rispetto alle donne, cioè è un indice del maschilismo: se è maggiore di 1 la società è maschilista, se è uguale a 1 la società non è maschilista, se è minore di 1 sei nel sogno di certe femministe: una società identica a questa, ma con uomini e donne scambiati di ruolo. Date queste definizioni si può scrivere
au/ad = vm
e
vu/vd = m
In base a queste due equazioni quello che ci si aspetta in una società maschilista (m>1) e con uomini più violenti delle donne (v>1) è che gli uomini assassini siano più numerosi delle donne assassine, cosa ovvia, ma anche che gli uomini assassinati siano più numerosi delle donne assassinate, m volte più numerosi, indipendentemente da quanto gli uomini siano più o meno violenti delle donne. Può sembrare paradossale, ma in una società maschilista vengono assassinati più uomini che donne, e questo solo perché gli uomini frequentano più persone delle donne, e quindi più potenziali assassini. Così succede che più una società progredisce verso comportamenti meno maschilisti (m→1) più la proporzione di donne assassinate aumenta, che è l’esatto contrario di quello che quasi tutti danno per scontato.
Se ora sostituiamo al posto di au/ad e vu/vd i valori che si ricavano dai dati sugli omicidi dal 1992 al 2006 forniti dal Ministero dell’Interno, siamo in grado di dare una stima degli indici v e m al variare del tempo. Se è vero che il femminicidio non esiste e che gli uomini uccidono le donne non perché sono maschilisti ma perché sono uomini, allora si devono trovare due cose: che v è maggiore di 1, e che il suo valore rimane costante al passare del tempo, indipendentemente da come varia m.
Ecco i dati del Ministero riguardanti le vittime
Ho riportato la tabella per intero, ma quello che qui interessa è solo la suddivisione delle vittime fra uomini e donne indicata nelle prime due righe. Dividendo le percentuali della riga “maschio” per le corrispondenti percentuali della riga “femmina”, si ottiene la stima dell’indice di maschilismo nei trienni considerati
1992-1994: 5.5 ± 0.3
1995-1997: 4.6 ± 0.3
1998-2000: 3.4 ± 0.2
2001-2003: 3.6 ± 0.2
2004-2006: 2.8 ± 0.2
Essendo l’omicidio un evento raro, gli errori nelle stime di m sono stati calcolati assumendo che il numero di vittime emerga da una distribuzione di probabilità poissoniana. Questi risultati dicono che la società italiana è maschilista, e parecchio, visto che ancora nel periodo 2004-2006 le frequentazioni di un uomo sono circa 2.8 volte di più di quelle di una donna, ma dicono anche che al passare del tempo questo maschilismo diminuisce. Lo si vede ancora meglio nella figura qui sotto
Consideriamo ora i dati riguardanti gli assassini
Dalle prime due righe della tabella è possibile ricavare v, l’indice della violenza maschile
v = (au/ad)/m
basta dividere la percentuale maschile per la percentuale femminile e per il corrispondente valore dell’indice di maschilismo in quel triennio.
1992-1994: 3.4 ± 0.5
1995-1997: 3.2 ± 0.4
1998-2000: 3.2 ± 0.4
2001-2003: 3.0 ± 0.4
2004-2006: 3.9 ± 0.5
Il risultato è che gli uomini sono molto più violenti delle donne, più del triplo, e, cosa importante, la loro violenza non varia in modo significativo al passare degli anni, cioè resta approssimativamente la stessa indipendentemente da come varia il maschilismo. Qualsiasi sia l’origine della violenza maschile (io un’idea ce l’avrei), non si può dire che abbia qualcosa a che fare col maschilismo.
Nonostante gli uomini e le donne diventino sempre meno maschilisti, gli uomini rimangono costantemente più violenti delle donne, sia gli uomini maschilisti che gli uomini non maschilisti, e la loro violenza è rivolta contro tutti, senza alcuna distinzione di sesso, etnia o credo. In questo gli uomini non fanno veramente nessuna discriminazione. Quindi bisogna concludere che il femminicidio, inteso come omicidio maschilista rivolto specificamente contro le donne, non esiste, e che frequentare un uomo è pericoloso tanto per una donna quanto per un uomo.
Però questo non significa che il maschilismo non esiste. Il maschilismo esiste, solo che i suoi segni distintivi sono altri, per esempio la colonna a destra del Corriere.