INTERVISTA A BERNARDO BERTOLUCCI

Si dice che i suoi film attingano a esperienze vissute personalmente.

È vero, è una caratteristica di tutti i miei film. Mi ispiro sempre alla mia esperienza personale. Per esempio “Il tè nel deserto”, a me piace molto il tè.

E il “Piccolo Buddha”?

Un volta ho letto Siddharta, mi è piaciuto.

Perché i suoi personaggi sono così finti?

Chi può dire cosa sia finzione e cosa realtà nell’epoca della manipolazione dell’immagine? Mi ridia il portafoglio.

Cos’è finzione e cos’è realtà nell’epoca della manipolazione dell’immagine?

Okay, me lo ridia.

Anche “La tragedia di un uomo ridicolo” è autobiografico?

No.

Le piace il suo lavoro?

Certo che mi piace. Ci vuole mestiere e pazienza, ma bisogna anche essere disposti a sporcarsi le mani.

Lo dice anche mio zio.

Regista anche lui?

Quasi. Spurga i pozzi neri.

È un mestiere anche quello.

Oh no, lui lo fa per hobby. “The Dreamers”, il suo ultimo film, ha avuto un discreto successo di pubblico. Le ha fatto piacere?

Le pare che incassare come “L’asilo dei papà” si possa definire un successo di pubblico?

Che cos’è “L’asilo dei papà”?

Appunto. È che vengo bollato come regista italiano e questa cosa mi penalizza.

Pensa di non essere all’altezza?

Il mio passaporto è italiano, d’accordo, ma la mia anima è americana. Lo sa che negli Stati Uniti c’è un festival intitolato a me?

Intende un festival di cinema?

Pensi che nell’ultima edizione sono arrivate più di cento opere da tutto il mondo. C’erano dei lavori veramente interessanti, chi non c’è stato non può nemmeno immaginare quanto possa essere emozionante un documentario sulla salatura del prosciutto di cinghiale.

Gesù...

No, no, cinghiale. La verità è che mi preoccupo poco dei critici e delle loro stelline, non so se mi spiego. Per la maggior parte di loro un film è solo un pretesto per celebrare se stessi, non per celebrare me. Non sopporto i narcisisti.

Ha qualche nuovo progetto in mente?

Pensavo a un panino col salame.