LA BOTTEGA DEL PADRE

Era una sera di febbraio come ce ne sono poche (un 29), quando Mario entrò trafelato nella bottega di suo padre James.
«Mario?» disse James un po’ stupito di vederlo ancora alzato a quell’ora.
«Chi altri?» disse Mario a James, ma James non ribatté. Mario camminava rapidamente su e giù per la bottega del padre ostentando il fatto di essere ancora alzato.
«Che ora è?» chiese James pensando a che ora fosse.
«Non sono qui per parlare dell’ora» rispose seccamente Mario, il figlio trafelato di James.
James posò la merce in vendita nella sua bottega e la sistemò sul bancone. Senza guardare Mario, disse: «Mario». Mario aveva intuito dove il padre voleva andare a parare, ma non disse niente, continuò a camminare su e giù come se niente fosse. «Che ci fai ancora alzato a quest’ora?» chiese James.
«Perché?» chiese Mario «che ora è?».
«Non lo so» rispose James.
James e Mario si conoscevano da tanti anni ed erano sempre stati padre e figlio, avevano avuto innumerevoli diverbi, a volte anche molto accesi, ma quella sera era diverso. Nell’aria si diffondeva il caratteristico odore delle merci in vendita nella bottega di James, un odore ben noto a entrambi, ma che non serviva a riavvicinarli. Forse era l’ora.
«Povero James» disse Mario a James. James non si capacitava di quanto affannosamente Mario camminasse su e giù per la bottega, sembrava un uccello in gabbia.
«Sembri un uccello in gabbia» disse James a Mario.
«Un figlio in bottega» lo corresse Mario.
«Mario,» disse James «a essere precisi,» seguitò «un Mario in bottega».
«Di James» concluse Mario col fiato grosso. Tutto quel camminare gli stava facendo passare di mente che era ancora alzato a quell’ora.
«Ho pensato a una cosa» pensò James.
«A cosa pensi, James?» chiese Mario a James, il padre.
«Niente» mentì James.
«Menti» rispose Mario, e senza quasi accorgersene accelerò il passo. James tacque.
«Esigo che tu me lo dica» esigette Mario.
«È vero, Mario,» disse James «lo ammetto,» ammise «ho pensato» pensò.
«Ha pensato...» pensò Mario.
«Sì» sottolineò James con un cenno della testa come a dire «sì».
«Cos’hai pensato?» chiese Mario.
«La cosa che ho pensato» disse James. Evidentemente si credeva molto più intelligente del figlio.
«Cosa?», Mario lo scongiurò in ginocchio senza smettere di camminare.
«Ho pensato a cosa ci fai ancora alzato a quest’ora».
Mario sgranò gli occhi come se sentisse pronunciare quelle parole per la prima volta.
«È la verità,» disse James «Mario».
Mario era un ragazzo con la testa a posto, appoggiata sul collo, giusto a metà fra la spalla sinistra e la spalla destra, ma non gli piaceva sentirsi rinfacciare certe cose, soprattutto quando camminava su e giù nella bottega di James e James, suo padre, lo sapeva bene.
«James» disse Mario «lo sai bene che non mi piace sentirmi dire certe cose quando cammino nella bottega di James». Ma James non aveva tatto. Era così fin dalla nascita, senza tatto, le cose gli scivolavano dalle mani in continuazione, senza che potesse farci niente. Per sua fortuna lavorava in una bottega specializzata nella vendita di articoli che non si rompono quando cadono. «Scusa» si scusò James guardando Mario negli occhi di Mario, ma Mario si voltò dall’altra parte. Era stanco.
«Sono stanco,» disse trafelato «e trafelato» aggiunse, e se ne andò sbattendo la porta camminando su e giù nella bottega del padre all’ora in cui era ancora in piedi dicendo «me ne vado».
James ci rimase male e, fra sé e sé, disse «ci sono rimasto male».