Ci sono verità scomode e verità comode. Le verità scomode fanno vendere tanti libri e alzano lo share di molte trasmissioni ansiogene, quindi sono scomode solo per chi le ascolta ma certamente non per chi le dice. Nella maggior parte dei casi sono indistinguibili dalle comode balle. Le verità comode, invece, sono quelle che un po’ tutti già sanno, ma siccome sono comode la gente pensa che ci sia sotto una fregatura (“troppo comodo!”), così si comporta come se non fossero vere e alla fine, dopo qualche secolo, se le dimentica. Per esempio una verità comoda è che dio è solo io con la “d” davanti.
Poi c’è una terza categoria di verità: le verità comodissime. Vere e proprie pantofole per le orecchie. Eccone tre.
1.
L’hip hop non è un movimento culturale, non è un genere musicale, non è un modo di esprimersi e non è nemmeno una semplice moda, ma è un disturbo della personalità. Un disturbo che, se trascurato, può portare a non sapersi più nemmeno mettere il berretto dritto o scegliere la taglia dei pantaloni. Nei casi più gravi (hiphoppabbestia) il malato sente il bisogno di essere guidato da un cane, sia in strada che nelle scelte di tutti i giorni (cibo, abbigliamento, eccetera), e, cosa forse ancor più grave, perde gradualmente ogni controllo del proprio labbro inferiore, il quale inizia a penzolargli sulla faccia come un inutile salsicciotto facendogli perdere la stima degli altri e, in particolare, del suo cane. Finché questo disturbo non verrà riconosciuto in tutta la sua gravità dalle organizzazioni sanitarie e finché non ci saranno strutture adeguate per curare ed eventualmente riabilitare le persone che soffrono di hip hop, il mondo non potrà dirsi un posto veramente civile. Nell’attesa si può abolire il rap.
L’hip hop non è un movimento culturale, non è un genere musicale, non è un modo di esprimersi e non è nemmeno una semplice moda, ma è un disturbo della personalità. Un disturbo che, se trascurato, può portare a non sapersi più nemmeno mettere il berretto dritto o scegliere la taglia dei pantaloni. Nei casi più gravi (hiphoppabbestia) il malato sente il bisogno di essere guidato da un cane, sia in strada che nelle scelte di tutti i giorni (cibo, abbigliamento, eccetera), e, cosa forse ancor più grave, perde gradualmente ogni controllo del proprio labbro inferiore, il quale inizia a penzolargli sulla faccia come un inutile salsicciotto facendogli perdere la stima degli altri e, in particolare, del suo cane. Finché questo disturbo non verrà riconosciuto in tutta la sua gravità dalle organizzazioni sanitarie e finché non ci saranno strutture adeguate per curare ed eventualmente riabilitare le persone che soffrono di hip hop, il mondo non potrà dirsi un posto veramente civile. Nell’attesa si può abolire il rap.
2.
Il fumo non uccide. Lo so perché tempo fa sono uscito a cena con dei colleghi di mia moglie e a un certo punto, senza nessun preavviso, uno di loro si alza e tira fuori una sigaretta. Dio mio, penso, ora s’ammazza! E senza neanche aspettare il dessert! Mi guardo intorno per vedere la reazione degli altri, ma nessuno sembra farci caso. Com’è possibile? Uno si punta una pistola in bocca e tutti fanno finta di niente? È perché sanno che tanto andrà a suicidarsi fuori? In disparte e senza sporcare? O forse non sanno che il fumo uccide? Eppure è scritto su tutti i pacchetti di sigarette in modo chiaro e ben leggibile. Non sapete leggere? Chiedo. Tutti mi guardano male. Evidentemente li ho feriti nell’orgoglio. Ma la cosa più incredibile di tutte è che, dopo appena due minuti, il suicida torna a tavola come se niente fosse, sereno e sorridente, col fumo che ancora gli esce dalle narici. Pazzesco. Lo tengo d'occhio per tutto il resto della serata, ma niente, non muore. E nemmeno gli invecchia la pelle. Evidentemente, penso intanto che degusto il mio sorbetto mascarpone e ciccioli, dev’essere l’intero contenuto del pacchetto a uccidere, non la singola sigaretta, altrimenti in tabaccheria si venderebbero pacchetti con una sigaretta sola, visto che di solito uno compra una corda sola per impiccarsi, non venti. Per verificare questa teoria, cerco un pretesto qualsiasi per rivedere quest’uomo.
Il fumo non uccide. Lo so perché tempo fa sono uscito a cena con dei colleghi di mia moglie e a un certo punto, senza nessun preavviso, uno di loro si alza e tira fuori una sigaretta. Dio mio, penso, ora s’ammazza! E senza neanche aspettare il dessert! Mi guardo intorno per vedere la reazione degli altri, ma nessuno sembra farci caso. Com’è possibile? Uno si punta una pistola in bocca e tutti fanno finta di niente? È perché sanno che tanto andrà a suicidarsi fuori? In disparte e senza sporcare? O forse non sanno che il fumo uccide? Eppure è scritto su tutti i pacchetti di sigarette in modo chiaro e ben leggibile. Non sapete leggere? Chiedo. Tutti mi guardano male. Evidentemente li ho feriti nell’orgoglio. Ma la cosa più incredibile di tutte è che, dopo appena due minuti, il suicida torna a tavola come se niente fosse, sereno e sorridente, col fumo che ancora gli esce dalle narici. Pazzesco. Lo tengo d'occhio per tutto il resto della serata, ma niente, non muore. E nemmeno gli invecchia la pelle. Evidentemente, penso intanto che degusto il mio sorbetto mascarpone e ciccioli, dev’essere l’intero contenuto del pacchetto a uccidere, non la singola sigaretta, altrimenti in tabaccheria si venderebbero pacchetti con una sigaretta sola, visto che di solito uno compra una corda sola per impiccarsi, non venti. Per verificare questa teoria, cerco un pretesto qualsiasi per rivedere quest’uomo.
Ci rivediamo?
Okay.
Lo frequento per due settimane di fila, ottantadue sigarette in tutto, e non muore. Che sia a scoppio ritardato? Ieri sera l’ho chiamato e abbiamo ricordato insieme i bei tempi andati di quella cena di seimilacinquecentosettanta sigarette fa, e posso confermare che è ancora vivo. Quindi, se con la frase “il fumo uccide” s’intende in realtà dire “il fumo alla lunga potrebbe, anche se non si sa bene quando e comunque non è detto, uccidere”, significa che il fumo non uccide. Almeno finché le parole della lingua italiana non cambieranno significato.
3.
I ciclisti che si muovono in branco, cioè quelli che occupano lo spazio di una macchina ma vanno alla velocità di un ciclista, non hanno l’anima. Quindi possono essere tranquillamente investiti.
I ciclisti che si muovono in branco, cioè quelli che occupano lo spazio di una macchina ma vanno alla velocità di un ciclista, non hanno l’anima. Quindi possono essere tranquillamente investiti.