IL SANTO

LA CLEMENZA DI TIZIO

Pater Noster chi es in cieli
santificera tamen tum
at vegna un triantum
fiat voluntas tum
sit in cesa in pe par tera

Questo è il Padre nostro che recitava mia nonna tanto tempo fa, quando le messe erano in latino, i preti davano le spalle ai fedeli e la Madonna appariva ancora a circa il sessanta percento della popolazione. Uno potrebbe chiedersi: che senso ha pregare così, senza la minima idea di quello che si dice? Invece ha senso, perché il senso di una preghiera non sta in quello che la preghiera dice ma in quello a cui serve, cioè venerare la divinità. È come per i cori da stadio o gli slogan alle manifestazioni: l’importante non è il loro contenuto ma la loro funzione. Se invece di “forza Juve alè alè” o “i diritti non si vendono” la gente urlasse “pater Juve/diritti chi es in cieli” sarebbe esattamente la stessa cosa.
Fra tutte le sequenze preconfezionate di parole quelle più sgradevoli sono sicuramente le frasi fatte. Chi le usa è come se volesse farti mangiare del cibo già masticato e rimasticato da milioni di persone, in modo che anche tu possa rimasticarlo ben bene e poi depositarlo nella bocca di qualcun altro. La cosa peggiore è poi quando uno pronuncia una frase fatta col fare di chi sta dicendo qualcosa di molto significativo, come quelli che dicono “silenzio assordante” soppesando bene le parole, magari emettendo anche un delicatissimo borborigmo di compiacimento fra “silenzio” e “assordante”. Perché lo fanno? Dove pensano che uno abbia vissuto? In un bagagliaio al centro della Terra coi tappi nelle orecchie? L’unica cosa che si può fare dopo aver detto “silenzio assordante” è scusarsi, come quando si rutta, e sperare che il proprio interlocutore non se ne sia andato, perché solo a questo possono servire certe abusatissime frasi fatte: sfollare la gente. Pare che in certi posti non particolarmente democratici le usino al posto dei manganelli: qui la polizia è equipaggiata con potenti megafoni e carica la folla urlando “SILENZIO ASSORDANTE! SILENZIO ASSORDANTE! SILENZIO ASSORDANTE!”.
Quanti fulmini a ciel sereno devo ancora sopportare? Quanti dubbi amletici? Quante bagarre in aula? Quanti frizzi e lazzi, lacci e laccioli, luci e ombre, messaggi di speranza, cifre da capogiro, macchine del fango, tensioni alle stelle, Italie in ginocchio, popoli di internet, tam tam sul web, dittatori sanguinari senza se e senza ma che tra il serio e il faceto scendono in piazza a nascondersi dietro un dito che indica la Luna, ma soprattutto, ultimo ma non ultimo, quanti silenzi assordanti? Va bene tutto, anche di tutto e di più, ma, per favore, basta silenzi assordanti. Uno studia, si laurea col massimo dei voti, trova un lavoro onesto in qualche giornale più o meno on line e poi che fa? Dice “silenzio assordante”. Uno dovrebbe sempre sforzarsi di trovare le parole adatte a esprimere quello che ha in mente, soprattutto quando è pagato per farlo, ma se proprio non ha in mente niente e parla solo per percuotere l’aria, allora che almeno usi frasi fatte meno fatte.
A questo scopo ho personalmente redatto una lista di frasi fatte non ancora del tutto fatte. Come tutte le frasi fatte anche queste non significano assolutamente niente, però sono meno dolorose.

Ernia al discolo
Risate fragolose
Canto del cingolo
Nervi a fior di latte
Scaccia noci
Anus dei
Segno dell’intestino
Un diavolo per capezzolo
Sindone di Stoccolma
Giano di fronte
Motorino laringoiatra
Ape Maria
Uovo sodoma
Capo espiratorio
Monitor del Presidente
Pane azimuth
Classe digerente
Allappamento materno
Sacra rotula
Spruzzi di gioia
Grande raccordo granulare
Dj hospital
Pesche sciroccate
Croce edilizia
Truppe caramellate
Ayurvedi questo
La clemenza di tizio

SCALE

REDUCTIO AD ESSEREM UMANUM

Quando si parla di cose brutte, Hitler è senza dubbio il termine di paragone più usato in tutta la storia dei termini di paragone. Un tempo, quando sterminare la gente rientrava nelle normali mansioni di un sovrano, c’era molta più scelta: Pisistrato, Artaserse III, Nerone, eccetera, in pratica bastava dire un nome a caso e nove volte su dieci il paragone era calzante, oggi invece sembra che ci sia solo Hitler: “razzista come Hitler”, “dispotico come Hitler”, “senza navigatore di serie come Hitler” e così via, tanto che quando una persona adulta e non ragionevolmente sbronza nomina Hitler viene subito bollata come sempliciotta. Sempliciotta come Hitler, ovviamente. Nessuno può negare che il paragone sia abusato, eppure ha una sua logica: Hitler è un ottimo esempio di essere umano.
È un caso estremo, è vero, ma solo riguardo a tutto quello che è riuscito a fare, non riguardo a quello che sognava di fare. Se si considera solo quello che sognava di fare, Hitler è un caso perfettamente comune. Anche l’uomo comune vorrebbe tanto prendere a sberle chi lo contraddice, dare fuoco a chi non ha le sue stesse abitudini alimentari e, soprattutto, avere tutto il mondo ai suoi piedi, miliardi e miliardi di persone che lo applaudono e gli dicono quanto è fuori del comune. In pratica l’unica differenza fra Hitler e l’uomo comune è che Hitler ha realizzato i suoi sogni.
Hitler non è nato già dittatore, con l’uniforme, la svastica e tutto quanto, non è andato a scuola da dittatore e non ha giocato al Piccolo Dittatore, ma è stato un bambino come tutti gli altri. A volte è veramente difficile rendersi conto che certi soggetti sono stati anche loro bambini.


Eppure è così. Anche Hitler aveva le guance paffute, rideva come un matto quando lo zio gli faceva le pernacchie e voleva tanto bene alla mamma. Crescendo ha fatto il chierichetto come tutti, ha fumato le sigarette di nascosto come tutti e come tutti ha sbirciato nei bagni delle ragazze. Poi, da grande, è diventato un comico. Anche questo come tutti, solo che mentre tutti diventano comici involontari, lui è diventato un comico professionista. Questa è una cosa che le biografie non dicono, ma del resto non dicono nemmeno che era un grande tifoso del Milan, cosa che spiega i colori sociali del nazismo.
Per anni Hitler si è esibito nei piccoli locali di Linz e dintorni, spesso davanti a poche decine di persone e dividendo il palco con gruppi folk o spogliarelliste, ma riscuotendo sempre un certo successo fra i presenti. Il suo umorismo caustico e politicamente scorretto era molto apprezzato, soprattutto negli ambienti colti della borghesia. Certo non era una celebrità, ma il lavoro non gli mancava mai «e questa è la cosa importante» gli diceva sempre sua madre. Come tutti Hitler aveva bisogno di qualcuno che gli facesse coraggio.
I suoi pezzi forti erano le imitazioni di Chaplin e Mussolini, fuse insieme in un nuovo irresistibile personaggio, nonché le arzigogolate teorie del complotto con cui riusciva a spiegare tutto, dalla sconfitta nella prima guerra mondiale agli alluci non opponibili. Per esempio, la grande depressione era dovuta al complotto delle banche controllate dai poteri forti controllati dalla massoneria controllata dai bolscevichi controllati dai tassisti controllati dagli alieni controllati dagli ebrei. Ogni complotto finiva immancabilmente con gli ebrei, erano il suo tormentone. Hitler diceva cose terribili sugli ebrei, ma questo non disturbava nessuno. Dopotutto era un comico. Tutti si divertivano da morire quando faceva la gag del rabbino al forno o si accendeva la pipa coi libri di Voltaire e Hobbes. Il pubblico aumentava di sera in sera e i giornali locali iniziavano a notarlo, così un giorno Hitler decide di fare il salto di qualità e presentarsi davanti a una grande platea: non studenti fuori corso o intellettuali più o meno di sinistra, ma gente normale. Allora si dà da fare e con l’aiuto di alcuni sponsor riesce a organizzare uno spettacolo in piazza a Norimberga, una cosa in grande stile, con scenografie, costumi e tutto.
Quando sale sul palco si trova davanti trentamila persone. Non cento o mille, ma trentamila: sessantamila occhi, seicentomila dita, chissà quanti peli del naso. Una persona normale sarebbe probabilmente svenuta, invece lui no, lui ha preso il Lexotan. Hitler inizia subito con uno dei suoi cavalli di battaglia: il monologo dei complotti. «Bisogna sempre partire col botto, dare la sveglia al pubblico» gli ha spiegato il suo consulente artistico (adesso aveva anche un consulente artistico). «E mi raccomando urla. Urla sempre». Il monologo riesce alla perfezione: i tempi sono giusti, la recitazione impeccabile, l’orchestra accompagna tutte le sue piroette e le sue smorfie come in un cartoon della Warner, eppure la gente non ride. Però applaude. Applaude così tanto che sembra voglia sbriciolarsi le mani. Hitler sulle prime è perplesso. Vorrebbe togliersi i baffetti adesivi e gridare «ehi, guardate che sto scherzando!» invece si presenta alle elezioni e prende il 37%.

L’UOMO CHE SALUTA

IO MASCHILISTA

Le parole nominano la realtà, è vero, ma è anche vero che le parole, una volta in uso, diventano più reali delle cose che nominano, esistenti o inesistenti che siano. Così succede che la realtà sia fatta perlopiù di parole, non di cose, e che la vita di ognuno si regga essenzialmente su un grosso cumulo di parole. Magari uno pensa di essersi fatto una “posizione”, di avere trovato “l’anima gemella” e di “vivere felice e contento”, invece si è fatto solo una parola, ha trovato un luogo comune e vive in una frase fatta. Vivere è parlare. Ciò di cui non si parla è come se non esistesse, mentre ciò di cui si parla senza che esista è come se esistesse veramente. È per questo motivo che cose come l’anima, gli ufo o l’astrologia sono più reali di qualsiasi cosa realmente esistente ma, purtroppo per lei, senza nome.
Le parole sono talmente reali che quando due parole diverse hanno un suono simile si dà per scontato che siano uguali. È quello che succede per esempio con “maschio” e “maschilista”. Siccome sono due parole che fanno vibrare le orecchie più o meno nello stesso modo, la gente tende a confonderle e a pensare che tutti i maschi siano maschilisti, o che perlomeno lo siano quasi tutti, e che quei pochi che non lo sono sotto sotto vorrebbero esserlo o lo sono stati o lo saranno. Quel che è certo è che il maschilismo è una cosa da maschi, lo dice la parola stessa. Perciò è impossibile che una femmina sia maschilista. Una femmina maschilista sarebbe una maschemmina, cioè una cosa che non esiste, come può essere empiricamente verificato guardando in un qualsiasi dizionario.

“Mascarpone”. Grossa scarpa da maschio.
“Mascella”. Ascella maschile.
“Maschera”. Colui che era maschio, eunuco.

Come previsto, nessuna traccia di maschemmine.
Invece non è così. Anche “àncora” e “ancòra” sono due parole simili, eppure nessuno ormeggerebbe mai una nave con un avverbio, anche se, sono pronto a scommettere, un sacco di gente deve averci provato. Allo stesso modo il maschilismo non è l’essere maschi. Quello si chiama maschilità e uno non può farci niente. Non senza un buon chirurgo, almeno. Che cos’è allora il maschilismo? È per caso una dottrina novecentesca? C’entra col nichilismo? O è forse un’ideologia che propugna l’importanza del misurare la massa in chili? Perché ci saranno di sicuro persone che fanno il tifo per un certo sistema di unità di misura e diventano matte se uno usa il CGS. Le persone fanno il tifo praticamente per qualsiasi cosa: partiti, divinità, canzoncine, figuriamoci se non fanno il tifo anche per le unità di misura.
Ma il maschilismo non è niente di così assonante. Il maschilismo è essenzialmente un sistema di pregiudizi sulle donne. Attenzione, però: per essere maschilisti non è sufficiente avere dei pregiudizi qualsiasi, ma serve un ben preciso set di pregiudizi. Una persona che desse per scontato che le donne sono intellettualmente superiori agli uomini, più adatte di loro al comando e alle posizioni di potere in generale, e particolarmente versate per il bricolage, avrebbe seri pregiudizi nei loro confronti, pregiudizi ridicoli e infondati come quelli di un maschilista, ma non sarebbe un maschilista. Sarebbe qualcos’altro, qualcosa che al momento non ha un nome. Maschilista è solo ed esclusivamente colui che attribuisce a una donna certe specifiche caratteristiche da donna per il solo fatto che questa è una donna, e per sapere in cosa consistono queste specifiche caratteristiche ci si può servire del più autorevole manifesto del maschilismo militante in Italia: “Io donna”.
Per avere un’idea abbastanza precisa del modo in cui il maschilista standard considera una donna è sufficiente guardare il menù del sito.


Potremmo chiamarlo “il menù del maschilista”.
D’accordo, la voce “attualità” non è maschilista. Questo è forse l’unico segno di apertura all’emancipazione femminile riscontrabile nella rivista, che è fatta per “una donna che sa conciliare impegno e cultura con interessi più tipicamente femminili quali moda, cosmetica, spettacolo, arredamento e cucina”. La frase tra virgolette non me la sono inventata per ridicolizzare la rivista, ma l’ho copiata direttamente dal sito RCS pubblicità. Certa gente si ridicolizza da sola, non c’è bisogno di aggiungere niente.
Alla voce “personaggi” si incontra il primo vero pregiudizio maschilista. Di che personaggi si parla? Se si parlasse di politici, economisti o intellettuali dotati di più o meno peni allora bisognerebbe concludere che secondo “Io donna” i personaggi che interessano a una donna sono circa gli stessi che interessano a un uomo. Invece non è così. I “personaggi” di cui si parla sono soprattutto attrici, modelle e pop star, e, cosa ancora più importante, il modo in cui se ne parla è sempre e invariabilmente quello del pettegolezzo: come sono vestite, con chi scambiano effusioni, come si pettinano i peli della testa, eccetera. Da tutto questo si ricava il seguente

PREGIUDIZIO #1
Alle donne interessano i pettegolezzi.

Da questo pregiudizio fondamentale, convinzione tanto radicata quanto inconsapevole di ogni maschilista che si rispetti, discende tutta una serie di pregiudizi-corollario: la proverbiale cattiveria delle donne (spettegolare è anche parlare alle spalle), la loro falsità (i pettegolezzi sono spesso infondati), la scarsa intelligenza (chi ripiega sui pettegolezzi è perché non capisce le cose serie), eccetera.
Al pettegolezzo seguono “moda” e “bellezza”, due  voci molto eloquenti: mentre per un uomo è importante essere intelligente, determinato e brillante, per una donna è importante essere esteticamente piacevole o, come si dice, “carina”, cioè ben vestita, adeguatamente profumata e con la faccia dipinta secondo le usanze del luogo. In poche parole

PREGIUDIZIO #2
Le donne devono essere belle.

Pregiudizio che in certi posti si rovescia nel suo opposto

PREGIUDIZIO #2b
Le donne non devono essere belle.

In questi casi al posto di “moda e bellezza” si ha “burqa e non bellezza”, ma il pregiudizio alla base è lo stesso: ciò che conta in una donna è la bellezza, in un caso da esibire nell’altro da nascondere.
Dopo il pettegolezzo e la bellezza, il menù del maschilista prevede “viaggi e tempo libero”. Di per sé questo non è un pregiudizio maschilista, in fondo a tutti piace viaggiare e essere liberi. Per trovare il maschilismo bisogna farsi coraggio e leggere quello che la voce contiene, solo in questo modo si possono trovare cose come: “l'ereditiera più glamour di Hollywood, Paris Hilton, ha scelto per le sue vacanze di Natale Aspen, in Colorado. Eccola mentre scia con una giacca a vento rosa shocking: è impossibile passare inosservata”, cioè cose che sembrano pensate non per una donna, ma per la caricatura di una donna.

PREGIUDIZIO #3
Le donne sono frivole.

Segue poi un grande classico del maschilismo: “Casa e cucina”. Per natura e per vocazione le donne sono principalmente adibite alla cura del focolare domestico, devono quindi prima di tutto tenere in ordine la casa e cucinare, ma anche fare la spesa, badare alla prole, buttare l’immondizia e ricordarsi periodicamente di svuotare il maschio.

PREGIUDIZIO #4
Le donne devono badare alla casa.

E per finire la voce migliore di tutte, appuntata alla fine del menù come una medaglia di cui andare fieri: “Oroscopo”, ovvero come organizzare la propria giornata in base alla posizione in cielo di corpi quasi sferici orbitanti intorno a una stella di classe G, cioè una cosa assolutamente folle, se non fosse che, si sa,

PREGIUDIZIO #5
Le donne sono irrazionali.

Questo il maschilismo esposto in cinque comodi pregiudizi.
Ora, essendo “Io donna” una rivista letta da donne, scritta soprattutto da donne e diretta da una donna, si può affermare che questa rivista è la dimostrazione tangibile e sfogliabile che il maschilismo non è una qualità esclusiva degli uomini. Ovviamente una donna che spettegola, si fa bella, si interessa di cose frivole, bada alla casa e legge gli oroscopi non è necessariamente maschilista, ma è maschilista se, esattamente come qualsiasi uomo maschilista, ritiene che queste siano cose da donna.
Il maschilismo non è un’ideologia creata dagli uomini contro le donne, ma è il modo in cui le persone comuni, uomini e donne, concepiscono le donne. La società maschilista è fatta di uomini e donne maschilisti, e il maschilismo della società danneggia tutti, prima di tutto le donne, ma un po’ anche gli uomini, visto che giudicare le persone in base alla forma dei loro genitali invece che in base al loro comportamento è una cosa che, alla lunga, peggiora la vita di tutti.

IL PARASSITA

CANI SENZA ZAMPE CON LE ORECCHIE CHE PRUDONO

Leggendo questo blog uno potrebbe farsi l’idea che io sia ateo, ma non è così. Io credo in Dio, solo che penso sia una carogna. Per dimostrarlo non c’è bisogno di citare tutte le torture medievali che ha introdotto in questo suo bel mondicino: zanzare, ulcere, cancri, rapper e così via, ma basta solo pensare a come ha progettato l’essere umano: un essere che vuole prima di ogni cosa vivere, ma che l’unica cosa che sa è che deve morire. Caligola in confronto era Topolino. Dopo una cosa del genere, tutte le disgrazie divine sopraelencate passano in secondo piano, se non altro perché sono evitabili. Se per esempio vuoi evitare il cancro basta che ti compri una tuta spaziale e mangi solo cacca di scoiattolo. Poi magari ti viene lo stesso, però almeno vivi pensando che non ti verrà, e questo è già qualcosa. Se invece vuoi evitare il voler vivere sapendo di dover morire non puoi, perché è proprio in questa particolare disgrazia che consiste l’essere umani.
L’uomo è un generatore perpetuo di autosofferenza: se vive bene soffre perché sa che deve morire, se vive male soffre perché vive male. C’è da diventare matti. E infatti la gente diventa matta, come dimostrano tutte le piroette mentali che deve fare per dimenticarsi la morte: chi la nasconde, chi la nega, chi la rimanda, chi la abbellisce, chi le cambia nome e così via, solo che nessuno riesce veramente a dimenticarsela, perché è come dimenticarsi di essere vivi. Al massimo la gente riesce a far finta di essersela dimenticata, che è abbastanza diverso, come dimostra il fatto che quando c’è un pericolo i preti scappano esattamente alla stessa velocità degli atei. E non è finita qui. La gente è talmente matta che non solo implora il suo torturatore di non torturarla, cosa abbastanza comprensibile, ma arriva persino a considerarlo saggio, giusto, buono e non so più cos’altro, e a incolpare se stessa delle torture che subisce. In pratica le religioni sono una gigantesca sindrome di Stoccolma collettiva.
Nessun tribunale umano assolverebbe mai uno che facesse le cose che fa Dio, invece Dio, oltre a farla franca, viene pure considerato infinitamente buono. Non buono e basta, ma “infinitamente buono". Cioè, più buono di così non si può. Se io creassi in laboratorio dei cani senza zampe e poi gli mettessi sulla testa delle pulci per vedere cosa succede, chiunque, anche la più carogna degli uomini, mi giudicherebbe una carogna. Nessuno direbbe che quei cani sono perfetti, che sono stati creati così per motivi imperscrutabili e che nessuno si può permettere di giudicare l’operato di una gran brava persona come me. Tutti direbbero che sono una carogna, invece se è Dio a creare un intero mondo di cani senza zampe con le orecchie che prudono, allora viene considerato infinitamente buono.

O Dio infinitamente buono,
principio del nostro essere senza zampe
e del nostro prurito,
ricevi il nostro umile ringraziamento per i tuoi benefici,
e fa’ che al generoso dono di questa vita così eccitante
(soprattutto dietro le orecchie)
corrisponda il nostro impegno a lodarti, onorarti
e servirti tutti i giorni di barba e di capelli.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.

Quando Dio ha creato il mondo aveva quattro possibilità, che ora elencherò dalla meno carognosa alla più carognosa:

1. Creature immortali e coscienti
2. Creature mortali e incoscienti
3. Creature immortali e incoscienti
4. Creature mortali e coscienti

E se proprio non era capace di creare un mondo fatto bene o anche solo benino (chissà, magari non è onnipotente come dicono le Sacre Scritture di regime), aveva pur sempre l’opzione 0:

0. Non creare un bel niente

che è una cosa che sono capaci tutti. Invece no, Dio ha voluto fare il mondo e lo ha fatto male. Male non secondo me, ma secondo il giudizio morale di tutti quelli che ci vivono. Male anche secondo il giudizio dei credenti, se solo avessero la coerenza di ammetterlo.
Io non so se esiste un aldilà, ma se esiste e Dio sarà così onnisprovveduto da farmi avvicinare a lui un po’ più del dovuto, io, lo giuro, gli spacco la faccia.

MOBY DICK