IL MARITO DELLA VEGGENTE

Potevi dirmelo, almeno.

A che scopo?

Era anche mio figlio.

Sì, ma avrei dovuto espellerlo io.

Non vedo il problema.

Aspetta.

Che fai?

Ecco qua.

È un estintore.

Esatto. Ora lo vedi il problema?

Sandra, le donne sono biologicamente preparate a espellere cose grandi.

Ah, sì?

Sì.

Io non sono “le donne”.

Non è vero.

Io sarei morta.

Che ne sai?

L’ho visto.

Ascolta, certe cose non succedono più.

Ma possono succedere.

Non tutto quello che è possibile è anche probabile. L’aria in questa stanza, per esempio, le sue particelle potrebbero uscire tutte in una volta dalla stanza, così, all’improvviso. Esploderemmo come palloncini.

Questo non mi tranquillizza.

È una cosa possibile ma molto improbabile.

Però può succedere.

No.

L’hai detto tu.

La medicina ha fatto progressi enormi.

Sì, ma non è ancora riuscita a rimpicciolire i neonati.

Partorire è una cosa naturale.

Anche morire.

Anche nascere.

Vuoi che muoia?

Per favore...

Dillo.

Tu non muori.

Tutti moriamo.

Non tu.

Io ho sognato che morivo, va bene? Era un sogno premonitore.

Certo...

Tu hai mai sognato di morire?

Non so, penso di sì.

Però ti sei sempre svegliato.

Non me lo ricordo.

Tutti si svegliano quando sognano di morire, io invece ho sognato di essere morta.

È solo un sogno.

Certo, e questa è solo la realtà.

Sandra, non si prova niente a essere morti.

Non lo puoi sapere.

Quando gli atomi del cervello si disgregano non c’è più un organo che possa sentire qualcosa. Non si prova niente. È come... non so, è come essere questo estintore. Cosa prova questo estintore?

Chiediglielo.

Non prova niente.

Io ho sognato il niente.

Ascolta --

Ho sognato il niente, capisci?

No.

Ho sognato un lunghissimo niente. Anni e anni di niente.

Se stavi sognando, era qualcosa.

Chiudi gli occhi.

Sandra --

Chiudili.

Okay. E adesso?

Ssst!

...

Non è piacevole, vero?

LA MOGLIE DEL PITTORE

Sandro.

Un attimo, per favore.

Sono incinta.

...

Sandro --

È tutto sotto controllo, amore, non preoccuparti.

Sotto controllo?

Stai tranquilla.

C’è la lineetta, guarda.

Non sei incinta.

Mi sento strana.

Cioè?

Strana.

Strana come?

Come se fossi incinta.

Bah, non sei incinta.
 
Ma c’è la lineetta.

Che lineetta?

La lineetta blu, guarda.

Non c’è nessuna lineetta blu.

Sì, invece.

Non è blu.

Non è questo il punto.

È grigia.

Grigia?

Eh, è grigia.

Grigia-blu.

Grigia e basta.

Non è possibile, o c’è la linea blu o non c’è niente. Vuoi leggere le istruzioni?

Lascia stare le istruzioni, questo non è blu. Fine.

Allora cos’è?

Forse è sporco.

Per favore...

Ti è caduto, per caso?

Non è sporco.

Guarda, viene via. Vedi?

Smettila!

È solo una piccola macchia di sporcizia.

Non parlare così di nostro figlio!

Ora, se non ti spiace, avrei un quadro da finire.

Sporco di cosa?

Mm?

Il test di gravidanza.

Mah, non lo so.

Non abbiamo niente di blu in casa.

Non è blu!

Dammi la definizione di blu.

Ascolta --

È blu come la sodalite Boliviana.

Il blu non è così.

Ora lo porto dal farmacista e vediamo cosa dice.

Carla, io sono un pittore, okay? I colori sono il mio lavoro.

“Lavoro”.

Sì, lavoro.

Non è un lavoro.

Io lavoro, quindi è un lavoro.

Il lavoro è quando ti pagano.

D’accordo.

Cosa fai!?

Gli ho solo dato una spennellata, vedi?

Sei impazzito?

Ora è blu.

...

Cosa c’è?
 
Questo non è blu.

PUNTI DI VISTA

IL FEMMINICIDIO NON ESISTE

Quando si nota una cosa nuova, ci si inventa una parola nuova, anche quando la cosa nuova è in realtà una cosa vecchia che ha già la sua parola vecchia. Più la cosa sembra nuova, più la parola si diffonde, e a poco a poco tutti la usano: giornali, televisioni, salumifici. Se poi è una di quelle cose che indignano e infervorano, la parola nuova smette di essere una semplice parola e diventa un simbolo, non più un nome che nomina una cosa, ma la manifestazione sonora di un ideale e di tutte le persone che in quell’ideale si riconoscono. Quando questo succede, pronunciare quella parola diventa rischioso, non è più come dire “matita”, “stoppino” o “autolavaggio”, cioè parole qualsiasi per cose qualsiasi, ma è come avere in bocca un popolo, il Popolo della Parola. Il semplice pronunciare la Parola ti qualifica subito come amico o nemico del Popolo: amico è chi sbandiera la Parola, nemico è chi la usa come se fosse una qualsiasi parola. Parlare diventa tifare. Dico questo perché ho l’impressione che la parola “femminicidio” sia già arrivata a questo stadio simbolico, e siccome io non voglio tifare ma solo esprimere un concetto, ci tengo a precisare che se nego l’esistenza del cosiddetto femminicidio, non voglio con questo sbeffeggiare le persone che pensano che la società sia maschilista, categoria di persone alla quale, forse immodestamente, mi pregio di appartenere. 
La parola “femminicidio” non è usata semplicemente per indicare l’assassinio di donne, cosa che esiste e che è ovvio che esista, almeno fintanto che esisteranno gli omicidi, ma l’assassinio di donne in quanto donne ad opera di maschi maschilisti, un fenomeno unanimemente considerato un’emergenza (Corriere) e che qualcuno ha addirittura paragonato all’Olocausto (Treccani). Quello che invece io sostengo è che gli uomini non uccidono le donne perché sono donne, ma perché sono persone che frequentano, e che il grande numero di donne uccise nelle relazioni di coppia non è un segno del maschilismo della società, ma un segno della congenita violenza maschile, violenza che si manifesta contro tutti e tutto: donne, uomini, animali, cose e anche contro se stessa, come dimostra il fatto che circa i tre quarti di quelli che si suicidano sono uomini (Istat). Per questo dico che il femminicidio non esiste, e che il fenomeno che questa parola vorrebbe descrivere è in realtà un fenomeno già noto: l’omicidio, una specialità in cui gli uomini prevalgono da sempre su qualsiasi altro sesso. Tutto questo può essere dimostrato.
Chiamiamo pu la probabilità che un uomo, frequentando una persona per un certo periodo di tempo, la uccida. Ovviamente ognuno ha il suo carattere e quindi ha più o meno probabilità di uccidere chi lo sorpassa senza giusta causa, chi lo contraddice col sorriso sulle labbra o chi si rifiuta di rammendargli i calzini, qui però, per semplicità, considereremo solo quantità medie supposte uguali per tutti gli uomini o, quando verrà il loro turno, per tutte le donne, indipendentemente dall’età, dall’istruzione o dalla montatura degli occhiali. Chiamiamo inoltre nu il numero di persone, uomini e donne, che un uomo frequenta nel periodo di tempo considerato, allora il numero medio di persone che ucciderà in quel periodo è punu, e il numero di omicidi commessi da tutti gli uomini di una popolazione di N abitanti è circa punuN/2, dove si è supposto che gli uomini siano circa la metà dell’intera popolazione (N). Ora, siccome la probabilità che un uomo a caso commetta un omicidio è molto bassa (pu«1), si ha che il numero di uomini assassini (au) è in prima approssimazione uguale al numero di omicidi commessi dagli uomini

au ≈ punu N/2

Analogamente si trova che il numero di donne assassine è

ad ≈ pdnd N/2

dove pd e nd sono le quantità corrispondenti a pu e nu per le donne. Vediamo adesso come scrivere il numero di vittime uomini (vu) e il numero di vittime donne (vd) nello stesso periodo di tempo.
Siccome la quantità di gente che uno frequenta è sempre molto inferiore a N, la frazione di uomini frequentati è mediamente

fu ≈ nu/(nu+nd)

e la frazione di donne è

fd ≈ nd/(nu+nd)

Un uomo frequenta nu persone, quindi funu uomini e fdnu donne, e per ogni uomo che frequenta ha una probabilità pu di essere ucciso e per ogni donna una probabilità pd. Qual è la probabilità (p’u) che sia ucciso? Poiché la probabilità che nessuno lo uccida è

1 - p’u = (1-pu)funu (1-pd)fdnu

la probabilità che sia ucciso almeno una volta è

p’u = 1 - (1-pu)funu (1-pd)fdnu

che con ogni probabilità è anche l’unica, essendo pu«1 e pd«1. A causa di questa piccolezza di pu e pd è anche possibile trascurare tutte le loro potenze superiori alla prima e i loro prodotti, e quindi approssimare p’u come segue

p’u ≈ pufunu + pdfdnu

Quindi il numero di vittime uomini è circa p’uN/2, cioè

vu ≈ (pufu + pdfd) nu N/2

e analogamente il numero di vittime donne è

vd ≈ (pufu + pdfd) nd N/2

Abbiamo quindi espresso il numero di assassini uomini e donne (au e ad) e il numero di vittime uomini e donne (vu e vd) in funzione di quattro parametri: violenza degli uomini (pu), violenza delle donne (pd), inserimento sociale degli uomini (nu) e inserimento sociale delle donne (nd). Definiamo ora

v = pu/pd

e

m = nu/nd

v è un indice di quanto gli uomini sono più violenti delle donne, a prescindere da quale sia l’oggetto della loro violenza. Se v è maggiore di 1, allora frequentare un uomo è più pericoloso che frequentare una donna, e più v è grande più il pericolo aumenta, e a niente può servire travestirsi da non donna. m è invece un indice di quanto gli uomini sono più inseriti nella società rispetto alle donne, cioè è un indice del maschilismo: se è maggiore di 1 la società è maschilista, se è uguale a 1 la società non è maschilista, se è minore di 1 sei nel sogno di certe femministe: una società identica a questa, ma con uomini e donne scambiati di ruolo. Date queste definizioni si può scrivere

au/ad = vm

e

vu/vd = m

In base a queste due equazioni quello che ci si aspetta in una società maschilista (m>1) e con uomini più violenti delle donne (v>1) è che gli uomini assassini siano più numerosi delle donne assassine, cosa ovvia, ma anche che gli uomini assassinati siano più numerosi delle donne assassinate, m volte più numerosi, indipendentemente da quanto gli uomini siano più o meno violenti delle donne. Può sembrare paradossale, ma in una società maschilista vengono assassinati più uomini che donne, e questo solo perché gli uomini frequentano più persone delle donne, e quindi più potenziali assassini. Così succede che più una società progredisce verso comportamenti meno maschilisti (m→1) più la proporzione di donne assassinate aumenta, che è l’esatto contrario di quello che quasi tutti danno per scontato.
Se ora sostituiamo al posto di au/ad e vu/vd i valori che si ricavano dai dati sugli omicidi dal 1992 al 2006 forniti dal Ministero dell’Interno, siamo in grado di dare una stima degli indici v e m al variare del tempo. Se è vero che il femminicidio non esiste e che gli uomini uccidono le donne non perché sono maschilisti ma perché sono uomini, allora si devono trovare due cose: che v è maggiore di 1, e che il suo valore rimane costante al passare del tempo, indipendentemente da come varia m.
Ecco i dati del Ministero riguardanti le vittime


Ho riportato la tabella per intero, ma quello che qui interessa è solo la suddivisione delle vittime fra uomini e donne indicata nelle prime due righe. Dividendo le percentuali della riga “maschio” per le corrispondenti percentuali della riga “femmina”, si ottiene la stima dell’indice di maschilismo nei trienni considerati

1992-1994: 5.5 ± 0.3
1995-1997: 4.6 ± 0.3
1998-2000: 3.4 ± 0.2
2001-2003: 3.6 ± 0.2
2004-2006: 2.8 ± 0.2

Essendo l’omicidio un evento raro, gli errori nelle stime di m sono stati calcolati assumendo che il numero di vittime emerga da una distribuzione di probabilità poissoniana. Questi risultati dicono che la società italiana è maschilista, e parecchio, visto che ancora nel periodo 2004-2006 le frequentazioni di un uomo sono circa 2.8 volte di più di quelle di una donna, ma dicono anche che al passare del tempo questo maschilismo diminuisce. Lo si vede ancora meglio nella figura qui sotto


Consideriamo ora i dati riguardanti gli assassini


Dalle prime due righe della tabella è possibile ricavare v, l’indice della violenza maschile

v = (au/ad)/m

basta dividere la percentuale maschile per la percentuale femminile e per il corrispondente valore dell’indice di maschilismo in quel triennio.

1992-1994: 3.4 ± 0.5
1995-1997: 3.2 ± 0.4
1998-2000: 3.2 ± 0.4
2001-2003: 3.0 ± 0.4
2004-2006: 3.9 ± 0.5

Il risultato è che gli uomini sono molto più violenti delle donne, più del triplo, e, cosa importante, la loro violenza non varia in modo significativo al passare degli anni, cioè resta approssimativamente la stessa indipendentemente da come varia il maschilismo. Qualsiasi sia l’origine della violenza maschile (io un’idea ce l’avrei), non si può dire che abbia qualcosa a che fare col maschilismo.


Nonostante gli uomini e le donne diventino sempre meno maschilisti, gli uomini rimangono costantemente più violenti delle donne, sia gli uomini maschilisti che gli uomini non maschilisti, e la loro violenza è rivolta contro tutti, senza alcuna distinzione di sesso, etnia o credo. In questo gli uomini non fanno veramente nessuna discriminazione. Quindi bisogna concludere che il femminicidio, inteso come omicidio maschilista rivolto specificamente contro le donne, non esiste, e che frequentare un uomo è pericoloso tanto per una donna quanto per un uomo.
Però questo non significa che il maschilismo non esiste. Il maschilismo esiste, solo che i suoi segni distintivi sono altri, per esempio la colonna a destra del Corriere.

X

Andare a votare è una cosa importante: si stacca con la routine di tutti i giorni, si fanno due passi in centro, si incontrano vecchi amici e ci si tiene in allenamento con le X, cosa che può sempre tornare utile se un domani si dovesse diventare analfabeti. L’unica cosa a cui di sicuro non serve è eleggere. Non voglio fare il solito discorso che i partiti sono tutti uguali eccetera. I partiti non sono tutti uguali: ci sono partiti che si chiamano “partiti”, partiti che si chiamano “popoli” e partiti che si chiamano “movimenti”, non è questo il problema. E non è nemmeno che i politici sono corrotti, che sarà mai un po’ di corruzione? Dicono che il partito meno corrotto d’Italia sia stato quello fascista, ma non per questo mi precipiterei in massa a votarlo. Il problema è solo numerico.
Quante sono le persone che hanno diritto di voto? Cinquanta milioni? Bene, la mia povera piccola crocetta ha l’incidenza di una parte su cinquanta milioni. In pratica è come fermarsi al distributore a fare 10-6 euro di benzina. Senza contare che uno su cinquanta milioni è molto, ma veramente molto meno dell’errore che si commette nel contare le schede, il che significa che magari io faccio la fatica di andare a votare (tutto ciò che non può essere fatto on line per me è  “fare la fatica”) e poi arriva quello che mi annulla la scheda solo perché ho aggiunto alcuni consigli su dove potersela infilare. No grazie. Se proprio devo fare qualcosa di inutile, almeno che sia piacevole. Inutile più spiacevole uguale no grazie.
L’obiezione più comune che mi viene fatta è “e se tutti facessero come te?”. Magari tutti facessero come me: la TV trasmetterebbe solo videoclip del Settecento, i registi italiani andrebbero a lavare i vetri ai semafori e il Papa sarebbe solo un anziano in costume. Il problema, se mai, è proprio che fra quello che faccio io e quello che fanno gli altri quarantanove milioni e novecentonovantanove mila e novecentonovantanove elettori non c’è assolutamente nessun nesso. Sia che io voti sia che non voti, il risultato finale non cambia. Si chiama proprietà del non contare niente. “E la teoria che il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo?”. Certo, peccato che non si dica mai che questa teoria funziona solo con farfalle giganti.
La verità è che il suffragio universale è una fregatura, com’è ampiamente dimostrato dall’esistenza dei sondaggi. Con un sondaggio puoi sapere cosa voteranno cinquanta milioni di persone intervistandone solo mille, e tutto questo senza ricorrere a estenuanti poteri soprannaturali. Infatti, se una frazione f della popolazione vota per un certo partito (UCP), quando si prende un campione di n persone, con n molto minore dell’intera popolazione ma molto maggiore di 1, la probabilità UCP(x) che x persone del campione siano elettori dell’UCP può essere approssimata con una gaussiana avente valore atteso nf e varianza nf(1-f). Supponiamo per esempio che ci siano tre partiti: Partito Uno (PU), Partito Due (PD) e Partito Tre (PT), i cui elettori sono rispettivamente il 10%, il 40% e il 50% della popolazione. Preso un campione di 1000 persone, ecco come sono le gaussiane dei tre partiti


I risultati più probabili del sondaggio sono quelli individuati dai picchi delle tre gaussiane: 100 persone per il PU, 400 per il PD e 500 per il PT, cioè il 10%, il 40% e il 50% del campione. Però questi non sono gli unici risultati possibili, per esempio è possibile che il sondaggio dia invece ai tre partiti il 9%, il 39% e il 52%, rispettivamente. In linea di principio tutti i risultati sono possibili, tuttavia solo quei valori di x per i quali PU(x), PD(x) e PT(x) sono apprezzabilmente maggiori di 0 possono essere considerati realistici, mentre tutti gli altri sono così improbabili da essere praticamente impossibili. Quindi il fatto che le tre gaussiane della figura non si sovrappongano in maniera apprezzabile significa che, in questo caso, è sufficiente intervistare 1000 persone per avere un risultato elettorale attendibile. Infatti gli errori associati ai risultati percentuali (100√varianza/n) sono 0.9% per il PU, 1.5% per il PD e 1.6% per il PT, cioè molto meno della distanza fra i partiti. Ma se c’è bisogno di essere più precisi, si possono anche intervistare 10000 persone:


Tanto le persone da intervistare non mancano mai.
Il fatto che i sondaggi ogni tanto sbaglino non è colpa della teoria statistica, ma del campione. È colpa di quelli che cambiano idea all’ultimo momento, di quelli che mentono o di quelli che si vergognano di dire che votano per il PDQCSV (Partito Di Quelli Che Si Vergognano), ma se il sondaggio fosse segreto e valido come voto allora sarebbe tutta un’altra cosa. Avendo tempo da perdere e soldi da buttare, si potrebbe addirittura far votare un milione di persone e arrivare così ad apprezzare differenze fra i partiti dello 0.05%, così da permettere anche ai Radicali di stimare il loro elettorato. Capisco che possa sembrare poco educato abolire il suffragio universale, però una cosa è certa: far votare tutti non ha nessun senso, o meglio ha lo stesso senso di un rito magico collettivo.
È per questo motivo che la mia fedina elettorale è pulita.

DIO NON È UNO CHE SA STARE ALLO SCHERZO

A ripensarci, le persone più fastidiose del mondo non sono quelle che ho detto l’altra volta, ma i narcisisti. Tutti sono narcisisti, ognuno a modo suo: alcuni tanto, altri di più.
La cosa che rende il narcisismo così fastidioso è che è inconsapevole. Per qualche strano effetto distorcente del cervello umano (secondo me è stato montato al contrario), ognuno si vede molto più affascinante, arguto e sveglio di quello che è e dà per scontato che anche chi vive fuori dalla sua testa lo veda così, invece chi vive fuori dalla sua testa lo vede com’è in realtà e questo crea non pochi problemi nei rapporti sociali, primo fra tutti il fatto che sia considerato offensivo ricordare a una persona la verità, e cioè il suo non essere particolarmente affascinante, arguta o sveglia (nota per gli extraterrestri: sulla Terra la verità si chiama insulto).
Ma purtroppo il narcisismo non è limitato alle manifestazioni individuali. Se così fosse sarebbe tutto sommato sopportabile, anzi in certi casi sarebbe addirittura utile, visto che non c’è persona al mondo più facilmente manovrabile del narcisista.


Allora prendimi latte, uova, patate, anguille, grappa, prezzemolo e otto chili di farina. Mi raccomando, distribuisci la farina in bustine trasparenti da dieci grammi l’una.

Ma --

Se qualcuno ti fa storie sovrastalo con la tua smisurata intelligenza superiore.

Lo farò a polpette.

E non dimenticare il mercurio: sei bottiglie da un litro e mezzo da portare rigorosamente sulla schiena.

Ma --

Intelligenza superiore.

Vado.


Il narcisismo diventa veramente fastidioso quando assume forme collettive, come per esempio le religioni. Contrariamente a quello che si dice, il sentimento che sta alla base della religione non è l’amore per l’umanità, l’amore per la verità o l’amore per le frasi a effetto, ma l’amore per se stessi. Il tacito assunto di ogni religione è sempre e solo uno: “sono talmente affascinante, arguto e sveglio che solo un dio può avermi creato, di certo non una volgare trombata”. Ogni idolatria è in fondo un’egolatria e tutti i preti del mondo non sono altro che delle specie di ventriloqui, gente che si mette sulle ginocchia un pupazzetto di dio e gli fa dire quello che vuole. Mi dai torto? Relativista! Non mi obbedisci? Peccatore! Mi sfotti? Empio! Il sentimento religioso è solo narcisismo messo dietro il paravento della metafisica, in modo che uno possa lasciarsi andare alla più sfrenata autocelebrazione al riparo da occhi indiscreti, compresi i suoi (nota per gli extraterrestri: sulla Terra l’autocelebrazione si chiama “devozione”, l’autostima si chiama “fede” e i gusti personali si chiamano “leggi morali”). Quando un paravento è fatto bene ed è stato intessuto e amorevolmente preparato per millenni, magari con l’aiuto di qualche filosofo specializzato in paraventi, allora un narcisista può veramente realizzare il suo più grande sogno, che non è tanto autocelebrarsi, quanto rompere la testa a chiunque non lo celebri. Perché, dice il narcisista mentre impugna il badile, se non mi celebri non stai mancando di rispetto a me, nel qual caso potrei anche chiudere un occhio, ma stai mancando di rispetto a dio, e dio non è uno che sa stare allo scherzo (nota per gli extraterrestri: in caso di sbarco sulla Terra, meglio non togliersi il casco).

L'APPRENDISTA

ABBOZZO DI DIZIONARIO DELLE PAROLE MOLTO USATE MA DAL SIGNIFICATO POCO NOTO (IN RIGOROSO DISORDINE ALFABETICO)

Ci sono parole che tutti usano ma di cui nessuno conosce il significato. A prima vista potrebbe sembrare assurdo: come si fa a usare una cosa se non si sa a cosa serve? Sarebbe come pulire gli occhiali col prosciutto, fare surf in bicicletta o soffiarsi il naso con le orecchie di Mario, tutte cose assurde non tanto perché calzini, bicicletta e Mario servono ad altro, quanto perché chiunque usasse queste cose per pulire occhiali, fare surf o soffiare nasi si troverebbe a essere ostacolato, anziché agevolato, nel raggiungimento dei suddetti scopi. È assurdo fare una cosa allo scopo di non fare quella cosa. Quindi ci si dovrebbe aspettare che, essendo scopo precipuo delle parole il comunicare, chiunque usasse parole che non conosce, dovrebbe subito smettere di usarle. Ma questo non succede. Anzi succede il contrario: meno è noto il significato di una parola più la si usa, e più la si usa più la parola si diffonde, e più si diffonde meno se ne conosce il significato. Così capita che la gente usi parole senza significato in conversazioni senza senso nelle quali si infervora, litiga e qualche volta si ammazza per motivi a lei del tutto ignoti. Questa è l’assurdità, ma è un’assurdità che sembra tale solo finché ci si ostina a pensare che le parole servano a comunicare. In realtà basta aprire un giornale qualsiasi, affacciarsi in Parlamento o anche solo scambiare due parole col primo che passa per rendersi conto che le parole non servono a comunicare. La comunicazione è al massimo un comodo optional. È come avere un orologio con le lancette d’oro, il bracciale in acciaio satinato e un’impermeabilità garantita fino a milleduecento metri e scoprire che segna pure l’ora. Molto comodo, ma un orologio così non serve a segnare l’ora, serve a decorare il polso. Le parole servono a decorare la bocca.
Qui di seguito riporto le definizioni di alcune delle parole sconosciute attualmente più in voga, senza pretesa di completezza né di originalità, ma con la sola speranza che, diffondendosi il loro significato, se ne perda l’uso.

DIGNITÀ s.f. 1. Tessuto denso e untuoso, dalla consistenza molliccia, accumulato nel corpo degli animali, in particolare dei mammiferi: d. della donna, d. del malato, d. della balena. 2. Più in generale una qualsiasi sostanza oleosa usata per scopi industriali o alimentari: d. lubrificante, d. idrogenata | macchia di d., patacca.

VALORE s.m. Successione ritmica di movimenti del corpo secondo figure più o meno prestabilite, normalmente accompagnata da strumenti musicali quali nacchere, tamburello, ukulele o altri | v. classico, inteso come arte e tramandato di padre in figlio per impressionare la gente poco istruita | v. popolare, che è espressione del folclore di un popolo, p. es. v. del ventre | v. della vita, rituale tipico di molte società primitive, spesso accompagnato da sacrifici umani | v. della famiglia, eseguito collettivamente dai componenti di una famiglia, in casa e al riparo da sguardi indiscreti, se nudi si chiama “incesto”.

DIRITTO s.m. 1. Parole o gesti con cui si intende esprimere affetto o rispetto o semplice cortesia verso qualcuno o qualcosa, in particolare quando lo si incontra o lo si lascia: d. al lavoro, d. allo studio, d. alla salute. 2. (spec. pl.) formula convenzionale di congedo usata soprattutto alla fine di lettere, mail e sim.: distinti d., cordiali d.; porga i miei d. alla signora.

IDEALE s.m. 1. Parte incavata e fonda, generalmente vuota: un i. del terreno. 2. (anat.) Parte cava interna al corpo di un animale o a un suo specifico organo: i. orale, i. pleurico, i. cranico.

SPIRITO (meno com. SPIRTO) s.m. 1. Apertura generalmente circolare posta all’estremità di una tubatura, dalle dimensioni molto inferiori rispetto alla lunghezza della tubatura stessa e adibita alla fuoriuscita o al semplice passaggio di fluidi. 2. (anat.) Apertura che mette in comunicazione uno o più ideali del corpo fra loro o con l’esterno: s. pilorico, s. anale.

ONORE s.m. Formaggio tipico dell’omonima valle svizzera, dal sapore dolce, di colore giallo, senza troppa dignità ma molti ideali.

GIUSTIZIA s.f. Sorta di rete da pesca.

L’elenco sarebbe ancora lungo, ma questo dizionario è solo un abbozzo e tale è destinato a rimanere, almeno fino a quando qualcuno di più diligente non avrà il tempo di completarlo. Io, per quanto riguarda la mia personale ambizione, mi accontento del merito di aver aperto la strada. Per questo mi fermo qui e tanti diritti.

APOFTEGMI

Finalmente anch’io ho il mio tumblr.

MERDA? NO GRAZIE

So che può sembrare incredibile, ma io non mangio la merda, e non perché sia allergico, schizzinoso o per chissà quale principio etico, ma perché non mi piace. Anzi, mi fa proprio schifo. Non è come le altre cose che non mi piacciono, come il sughero, la crema solare o le tapparelle, che se mi sforzo posso anche riuscire a mangiarle. La merda è diversa, basta che ne metta in bocca un pezzettino e subito mi viene da vomitare. Naturalmente l’ho assaggiata, dopotutto sono solo protoni, neutroni e elettroni come tutto il resto, ma non c’è niente da fare: mi fa schifo. Questo di per sé non sarebbe un problema, se non fosse che dove vivo io tutti mangiano la merda. Tutti la considerano una prelibatezza da raffinati gourmet, ma anche un ingrediente fondamentale per dare sapore a ogni piatto, o uno sfizioso spuntino da gustare in ogni momento della giornata, succhiandosi adeguatamente le dita. In pratica sono sempre circondato da gente che mangia la merda. Ma nemmeno questo è il vero problema. Per me ognuno può mangiare quello che vuole, tanto ormai sono abituato a sentire l’odore della merda calda che si scioglie sui maccheroni o a vedere la gente coi frammenti di merda nei baffi. So perfettamente che il sapore di una cosa è solo un fatto culturale e che, in linea di principio, tutto è commestibile: ci sono posti dove la gente mangia le cavallette, le zampe dei ragni, le ali dei pipistrelli, le larve di mosca, le budella di vacca, eccetera, che cosa c’è di strano se qui la gente mangia la merda? Ognuno chiama “buono” quello che è abituato a mangiare e chiama “schifoso” quello che non ha mai pensato si possa mangiare. Quindi la merda va benissimo. L’unico vero problema di vivere in un posto dove tutti mangiano la merda non è che loro mangiano la merda, ma che vogliono che la mangi anch’io. E lo vogliono molto insistentemente. Le persone hanno questo difetto: quando si accorgono che non ti piace una loro presunta leccornia, cercano in tutti i modi di fartela mangiare. Prima ti spiegano che è un alimento sano e nutriente indispensabile per una dieta equilibrata, poi te la sventolano sotto il naso, poi ti accusano di essere schizzinoso, strambo, matto, finché un giorno te la schiaffano direttamente nel piatto, poca poca e di nascosto, pensando che tanto non te ne accorgerai visto che, dio mio, non è possibile che non ti piaccia una cosa così buona come la merda.


Abbiamo il risotto alle quattro merde, gli gnocchetti zafferano e merda, il vitello in crosta di merda e del polistirolo.

Nel polistirolo c’è la merda?

Solo un po’.

Vorrei un po’ di polistirolo senza merda.

Ma, signore, è merda di capra freschissima.

Preferirei senza, è possibile?

Neanche una o due palline per insaporire?

No, grazie.

Per caso è allergico alla merda?

No.

Perfetto, allora un piatto di polistirolo “senza” merda per il signore.


Se vivi nella patria della merda non puoi permetterti di non mangiare la merda, almeno un pochino di tanto in tanto, giusto per far vedere che non ti credi migliore degli altri. Purtroppo tutti si identificano sempre con quello che piace a tutti, e se nella patria della merda disprezzi il loro cibo di merda, allora vuol dire che disprezzi anche le loro abitudini di merda, la loro musica di merda, i loro ideali di merda e, fondamentalmente, la loro vita di merda. Ma io non disprezzo la merda, solo vorrei non mangiarla.

IL CAPOLAVORO

MIRACULUM SIGILLUM MENDACII

Signore?

Che c’è?

Posso disturbarla?

L’hai appena fatto.

C’è uno sulla Terra che chiede il suo aiuto.

“Uno” chi? Uno stambecco? Un salmone? Un rametto di rosmarino?

No, un --

Ma che te l’ho chiesto a fare? Senti, finisco questa cosa e poi mi dici, okay? Forse sono finalmente riuscito a fare un universo senza inutili barioni.

Ma dice che è --

“Urgente”, certo. Mamma mia che creature lagnose! Cosa vuole questo? I soldi per la benzina?

Vorrebbe guarire.

Originale...

È molto malato.

Questi mi hanno preso per un medico. “Dio della mutua” dovevano chiamarmi.

Dice che non vuole morire.

Non vuole cosa?

Morire.

Non capisco.

Nel senso che vorrebbe vivere più a lungo.

Ah, quindi non è dei nostri.

È dei nostri.

No, scusa, allora non ho capito.

Ora le spiego --

Questo è dei nostri.

Sì, Signore.

E non vuole morire?

Proprio così, Signore.

Ma allora non ha capito niente.

Dice che vorrebbe almeno vedere il matrimonio di sua figlia.

Ha una figlia?

Non ancora.

Sai cosa bisognerebbe fare?

Far precedere le preghiere da un test d’ingresso.

Esatto, un piccolo test a crocette sulla comprensione della religione di appartenenza, così almeno si evitano inutili chiamate.

È un suo vecchio progetto, Signore.

Quante volte ho detto a questa gente che c’è la vita eterna?

Non saprei, Signore.

Gliel’ho detto, gliel’ho ridetto, gliel’ho pure scritto in un libro, e adesso questo... questo...

Luigi.

Questo Luigi vorrebbe che io, Dio in persona, esaudissi i suoi futili desideri come un qualsiasi genio della lampada?

Più o meno.

Ora lo sistemo io.

Dice che lei è il suo unico Dio.

Ah, si?

Sì, Signore.

Continua.

Dice che è onnipotente, infallibile, infinitamente buono, Signore del cielo e della terra e fonte di ogni bene.

Nient’altro?

Dice anche di trovarla terribilmente sexy.

Okay, accontentalo.

Sì, Signore.

Ma è l’ultima volta.

Sì, Signore.

Altrimenti poi non sono più credibile.

APPUNTI PER UN FILM IN MEMORIA DI BERLUSCONI

Il problema di tutti i film su Berlusconi è che il Berlusconi vero è sempre molto più incredibile di qualsiasi Berlusconi finto. A uno sceneggiatore non verrebbe mai in mente di far fare a un Presidente del Consiglio tutte le cose che fa Berlusconi, perché le giudicherebbe troppo grottesche o inverosimili, invece Berlusconi le fa, e così gli sceneggiatori sono sempre un passo indietro rispetto alla sua biografia. È un po’ come per i film di fantascienza: i buchi neri descritti dalla metrica di Schwarzschild sono molto più spettacolari di quelli immaginati dagli sceneggiatori di Hollywood. Detto questo, ecco il mio film su Berlusconi. Titolo: “la lampada di Schrödinger”.


SCENA 1
In strada. Un ventenne coi capelli rasta, la barba rasta e i peli delle ascelle rasta (Jerry) rovista fra i bidoni dell’immondizia. “È incredibile quello che buttano via ‘sti borghesi”, dice a Spurgy, il suo cane rasta. Mentre è indeciso se portarsi via un materasso squarciato o la carcassa di un televisore, nota una strana luce provenire da dentro un bidone. Cosa sarà mai? Un principio di autocombustione? Scorie radioattive? La lampada di Schrödinger? Per creare un minimo di suspense, forse è meglio dare al film un titolo diverso, per esempio “Il cormoragno” o “Cuccioli di anguria”.


SCENA 2
Cucina. Una donna ricoperta di piercing e tatuaggi che raffigurano piercing (Jenny) è a mollo in una vasca da bagno scrostata con un cruciverba in mano. Entra Jerry.


Senti qua, Jerry: ha quattro zampe e abbaia. Quattro lettere.

Cosa?

“Co-sa”. Si vede che hai fatto le medie.

Guarda cos’ho trovato.

È una lampada.

Una lampada magica.

Oddio, no!

Volevo dire “maciga”.

Ah, okay.

Se schiacci l’interruttore esaudisce i desideri.

Come fai a dirlo?

Ecco qua.

Okay, Jerry, ti credo. Ora fammi riapparire.


SCENA 8
Soggiorno. Jerry va avanti e indietro con la lampada in mano, pensieroso. Spurgy gli saltella intorno con la lingua penzoloni e scodinzolando come per dimostrare tutto il suo affetto. In realtà è solo un povero cane epilettico. A un certo punto Jerry preme il tasto della lampada: sul tavolo appare una tazza di caffè. Lo preme di nuovo e appare una bustina di zucchero. Lo preme e appare un cucchiaino. Chi non vorrebbe una lampada così? Preme ancora il tasto e scompare tutto. Il caffè non gli va più.
Entra Jenny.


Jerry, ho deciso.

Cosa?

Come usare la lampada.

Sentiamo.

Allora: una casa per tutti, benessere a volontà, basta guerre --

Frena frena!

Che c’è?

Ha un numero limitato di desideri, cosa credi?

Come lo sai?

C’è scritto.


Jerry capovolge la lampada: sotto la base c’è scritto 1028. Jenny dà un cazzotto a Spurgy.


SCENA 15
Soggiorno. Jerry è stravaccato in una poltrona sfondata. Preme il tasto della lampada senza nemmeno guardare: compare il caffè. Lo preme ancora: scompare il caffè. Preme: appare il caffè. Preme: scompare. Preme: appare. Preme: scompare. Preme: appare. Preme: scompare. Preme: appare.


Jenny.

Cosa c’è?

Sicura che non ti va un caffè?

Sicura.


Preme: scompare.
Jenny sta cercando di aprire una bottiglia di Moretti con le unghie. Jerry la guarda impotente: se solo quel giorno avesse trovato nell’immondizia un apribottiglie... preme: si accende la tv. Il conduttore di un tg fa sapere che il Governo ha presentato un decreto legge che abolisce il timballo di carne, introduce un limite massimo alla concentrazione di sgombri nell’acqua potabile e legalizza la caccia alle ciabatte di gomma.


Jenny, ho avuto un’idea.

Il caffè non mi va.

No, non è il caffè.

Ah, no?

No.

Allora cos’è?

Come cos’è? Prendiamo Berlusconi e lo ammazziamo.


Naturalmente una didascalia si sarà premurata di informare lo spettatore che il film è ambientato nel 2005.


SCENA 18
Soggiorno. Jenny e Jerry s’infilano dei passamontagna. Lei ha in mano la lampada, lui una bottiglia vuota che tiene per il collo. Spurgy saltella intorno a loro con gli occhi chiusi, probabilmente sta dormendo.


Sei pronta?

Pronta.

Tu premi e io lo colpisco, okay?

Tu lo colpisci e io premo.

Prima premi e poi io colpisco, se no è inutile.

Okay.

Okay?

E se non muore?

Tutti muoiono. Sei pronta?

Quando vuoi.

Vai!


Jenny preme l’interruttore: Spurgy esplode.


Dài, riprova.

Scusa.

Non fa niente, era per una giusta causa. Concentrati.

Ci sono.

Cerca di immaginarti Berlusconi qui davanti a noi, okay? Immaginatelo... non so...


Berlusconi si materializza davanti a loro ricoperto di guano. Jerry gli dà una bottigliata in testa.


Questo è per tutte le leggi ad honorem che hai fatto, stronzo!

Adesso ti insegniamo noi come si sta al mondo, Berlusconi!


Berlusconi si tampona la ferita sulla fronte con un fazzoletto, si dà una sistemata alla cravatta e tira fuori una pistola. Jerry e Jenny rimangono paralizzati dalla paura.


Allora esiste veramente!


L’italico sta a indicare l’accento brianzolo. Nota tecnica: un altro grande difetto dei film su Berlusconi è che dopo anni e anni di imitazioni di Berlusconi, di barzellette su Berlusconi, di allusioni a Berlusconi, chiunque interpreti Berlusconi in un film sembra inevitabilmente una macchietta come tutti gli altri, quindi la soluzione è una sola: far interpretare Berlusconi a Berlusconi. Convincerlo non dovrebbe essere difficile, basta inserire una scena di sesso.


Allora esiste veramente!

Cosa?

Quella.

Certo che esiste, per chi ci hai presi?

È la lampada quantistica di Schrödinger, vero?

No, bello! Questa è nostra!

Datemela, forza.


Jerry preme il tasto e la pistola scompare. Berlusconi si guarda sbalordito la mano vuota.


Notevole... davvero notevole. Ora potrei riaverla, per favore?


SCENA 34
Camera da letto, cioè il ripostiglio. Jerry e Jenny sono a letto, cioè sdraiati su un tappetino lercio steso per terra.


Che ce ne facciamo adesso, Jerry?

Di chi? Di Berlusconi?

Eh.

Lo ammazziamo.

E a cosa serve?

Non lo so, a questo pensiamo dopo.

Jerry, dobbiamo fare qualcosa.

Tipo torturarlo?

Dico qualcosa di utile per il mondo.

A questo pensaci tu.

Okay.

Quando hai finito svegliami che carico il fucile.


Jerry si volta dall’altra parte e si tira dietro tutte le coperte, cioè dei fogli di giornale.


SCENA 41
Soggiorno. Il frastuono di una lavatrice nel mezzo di un lavaggio per sporco ostinato. Jerry legge Marx seduto sulla lavatrice. Ride sguaiatamente. Entra Jenny.


Cosa fai!?

Leggo Marx. Forte, l’hai letto?

Tiralo subito fuori di lì!


Affacciato all’oblò della lavatrice, le mani premute contro il vetro, Berlusconi gira vorticosamente.


Che palle!

Asciugalo, puliscilo e portamelo in cucina.

Perché?

Ho un piano.

Che piano?

Ti fidi di me?

Posso parlare apertamente?

Tu portamelo in cucina, al resto penso io.


SCENA 45
Cucina. Jenny sistema una videocamera su un cavalletto. Entrano Jerry e Berlusconi. Jerry gli tiene il fucile puntato alla nuca.


Dove lo vuoi?

Sulla sedia.


Jerry indica col fucile la sedia e Berlusconi si siede. Fa quasi pena: spettinato, senza trucco e i vestiti tutti fradici. Povero vecchio. Jenny gli dà un foglio e poi guarda nell’obiettivo della videocamera.


Spostati un po’ più a destra, Berlusconi.

L’hai sentita?

Ancora un po’. Ancora. Okay.

Così va bene?

Entro un’ora devi aver imparato quello che c’è scritto su quel foglio.

Questo?

Tutto.

Anche gli strafalcioni?

Non fare il furbo.

Chiedevo.

Non c’è nessuno starfalcione.


SCENA 46
Bahamas. Berlusconi deflora otto vergini e un vitello.


SCENA 47
Cucina. Berlusconi sulla sedia davanti alla videocamera, Jenny lo riprende. Jerry assiste alla scena seduto sul tavolo col fucile sulle ginocchia.


Azione!

In tv non si dice “azione”.

Vai, Berlusconi!

Sì, dunque... cari elettrici e elettori, vi ho imbrogliati.


Jenny fa il pollice in su.


Con promesse ingannevoli e qualche spot indovinato ho ottenuto i vostri voti, ma io sono un uomo spergevole. Scusa, Jenny, posso --

Continua!

Ho monopolizzato il mercato televisivo e editoriale calpestando tutte le norme antitrust, ho prodotto programmi scadenti e diffuso ogni tipo di malcostume (Mediaset stessa è un malcostume), ho evaso il fisco, corrotto i giudici, licenziato senza giusta causa e inaugurato la moda dei partiti col nome scemo, e tutto questo solo per dispetto. Per questi e altri motivi vi chiedo di non votarmi mai più e di non gettare la carta nell’indifferenziata. Grazie.


Jenny estrae la cassetta dalla videocamera e la solleva come fosse la Coppa del Mondo.


È finita la pacchia, Berlusconi!

Voi pensate che io sia una carogna.

Nooo, perché dici così?

Voi non sapete quant’è dura: tutte quelle responsabilità...

Tutti quei soldi. Eh, Jenny?

Tutti che pretendono qualcosa, tutti sempre lì a criticare... e va bene, non sono perfetto, e allora? Non crediate che uno nella mia posizione possa fare tutto quello che vuole. Non sono Dio, però mi sono sempre sforzato di fare il bene. Qualche volta ho sbagliato, d’accordo.

Qualche volta?

Spesso ho sbagliato, okay? Non è mica facile, cosa credete? La politica è quello che è e c’è sempre qualcuno che vuole farti le scarpe, per non dire di peggio. No, ragazzi, sul serio, non è per niente facile essere Berlusconi.

Che fai? Che fa, Jenny?

Credo stia piangendo.

Secondo me è solo sudore.

Il sudore non esce dagli occhi.

Eppure...

Certo se potessi avere la vostra lampada...


Jenny guarda Jerry: Jerry è in piedi e sta inserendo le cartucce nella doppietta.


Jerry.

Cosa?

Se gliela prestassimo un paio di giorni?

No.

Che ci costa?

No.

Sii un po’ altruista una volta tanto! Berlusconi ha imparato la lezione. Vero, Berlusconi?

Sì.

Dài, Jerry.

Gli sparo solo in un ginocchio.

Jerry!

Okay, Berlusconi, senti: duecento euro al giorno e chi rompe paga, okay?

Cinquanta.

Brutto stronzo!

Va bene, va bene! Duecento.

No, Jerry. Berlusconi la può tenere gratis, purché ce la renda fra due giorni. Okay, Berlusconi?

Okay.

Prometti.

Te lo prometto.

“Te lo prometto, Jenny”.

Te lo prometto, Jenny.

Tieni, fanne buon uso.

Grazie, Jenny.

Scusa se ti abbiamo giudicato male.

Due giorni, hai capito?

Ha capito, ha capito... vero?

Mm.

Perché fai quella faccia? Non siamo più amici?


Berlusconi preme l’interruttore.

L'APPROCCIO

IL SORPASSO DI PLANCK

Persona che vai in autostrada a 180 all’ora e hai la piacevolissima abitudine di chiedere strada lampeggiando a tutto e a tutti come se stesse arrivando sua maestà (da qui in avanti “persona”, in latino), ho un paio di cose da dirti. La prima è che non sei per niente piacevolissimo, ma forse questo già lo sai. Invece una cosa che di sicuro non sai è che non sei nessuno. Ti informo che sulle autostrade italiane circolano almeno una decina di milioni di personae come te, tutte convinte di essere sua maestà come te, tutti maschi come te e tutti con la tua stessa identica faccia. Ma c’è un’altra importantissima cosa che evidentemente non sai, ed è che la tua pratica lampeggiatoria, benché sempre non molto piacevolissima, ha senso solo in alcuni specifici casi. Per esempio questo


questo


o questo


ma di certo non questo


cioè il tuo caso preferito. Secondo te dove dovrebbe andare quello a cui stai così magnanimamente abbronzando la collottola? A destra c’è un camion, a sinistra c’è l’altra carreggiata e dietro, ti ricordo, ci sei tu. Magari tu vorresti che abbandonasse immediatamente la sua velocità di crociera, smettesse di pensare ai fatti suoi e sprecasse preziosi millilitri di carburante per togliersi di mezzo il prima possibile, proprio come farebbe un suddito fedele di fronte a un minimo lampeggiamento di sua maestà. Chissà, magari trovi pure qualcuno che ti accontenta, è possibile. Ora però ti dico cosa faccio io: io freno. Esatto, freno e decelero fino a raggiungere la velocità

v + ∆v

dove v è la velocità del camion e ∆v è l’incremento di velocità più piccolo consentitomi dalla meccanica quantistica. Devi infatti sapere che la quantità di moto (p) e la posizione (x) sono due grandezze fisiche che non commutano, il che significa che il risultato di una loro osservazione dipende da cosa si osserva prima e cosa dopo. Ti sconsiglio di usare questo argomento per contestare le multe, dicendo per esempio che se l’autovelox avesse fatto prima la foto e poi preso la velocità avrebbe trovato 90 all’ora invece di 180, perché, vedi, i carabinieri non conoscono la meccanica quantistica. La conseguenza di questa non commutatività di p e x è il famoso Principio di Heisenberg, il quale dice che l’incertezza sulla quantità di moto (∆p) e l’incertezza sulla posizione (∆x) non possono essere piccole a piacere, come vorrebbero gli amanti dell’ordine cosmico e della sublime armonia del creato, ma il loro prodotto deve sempre essere maggiore di una certa quantità

∆p ∆x ≥ h/4π

dove h è la costante di Planck. In pratica quello che succede è che più si vuole essere precisi su x più si perde precisione su p, e viceversa. Ora, siccome l’unica cosa che a me interessa è stare affiancato al camion, ∆x può anche essere grande quanto un tir (L), quindi il più piccolo incremento di velocità che posso dare alla mia macchina di massa m, tenuto conto che p = m v, sarà

∆v = h/(4π m L)

che facendo i conti si trova essere circa 10-38 chilometri all’ora, cioè grosso modo una lunghezza di Planck all’ora. Speravo un po’ meno, ma mi accontento.
Quindi d’ora in poi sappi che, quando lampeggi a uno che ha appena iniziato un sorpasso e come effetto ottieni quello di restargli dietro per circa 1032 anni, quello sono io. Ma soprattutto sappi, cara persona, che mentre tu ti sbracci e imprechi e mostri al cielo tutti i diti medi di cui la natura ti ha dotato, io invece me ne sto tranquillamente seduto nel mio salottino mobile, ascolto Schubert e di tanto in tanto, quando ho voglia di farmi due risate, guardo te nello specchietto.

IL SEGRETO

L’EVOLUZIONE DELLA GIRAFFA

Gran parte della musica strumentale della seconda metà del Settecento e dell’Ottocento è in forma sonata. La forma sonata è fatta così: esposizione, sviluppo, ripresa e coda. L’esposizione espone un paio di temi, lo sviluppo li sviluppa, la ripresa li riprende e la coda dà una conclusione soddisfacente a tutto quanto, il tutto prendendoti l’orecchio a una certa tonalità, portandotelo in giro per altre tonalità più o meno lontane e poi riportandotelo sano e salvo alla tonalità iniziale. Alla fine è come avere fatto un viaggio, solo che non ci si è mossi dal divano. Questo se la musica funziona, perché se non funziona è come non essersi mossi dal divano e basta. Ovviamente la forma sonata non è di per sé garanzia di riuscita estetica. È solo una forma, come un vaso ha la forma di un vaso o una giraffa ha la forma di una giraffa, poi ci sono giraffe e giraffe, così come ci sono i vasi attici e i vasi da notte. Anche la canzone della musica leggera è una forma: strofa, ritornello, strofa, ritornello, strofa, ritornello e così via all’infinito, tutto rigorosamente nella stessa tonalità, ma questo non è un difetto, è la forma che è così. Uno dei motivi per cui molte persone non apprezzano la musica cosiddetta classica è che la prendono come se fosse una canzone, ma è molto difficile canticchiare sotto la doccia un quartetto di Beethoven da cima a fondo, soprattutto quando si ha a disposizione un numero di bocche inferiore a quattro. È come se a uno servisse un vaso e si comprasse una giraffa, poi non può lamentarsi con la giraffa se non sa dove infilare i fiori.
Nella forma sonata l’esposizione è la testa, primo perché sta in cima a tutto, secondo perché tutto viene fuori da lì: o come risposta ai temi esposti o come loro elaborazione. Lo sviluppo è invece il corpo, quello che fa muovere la musica: a volte obbedisce alla testa, altre volte va un po’ per conto suo, ma alla fine torna sempre alla tonalità da cui la testa è partita. La ripresa sono le gambe, perché permette alla musica di stare in piedi. La coda è la coda. Ecco per esempio il primo movimento del quartetto K 590 di Mozart


Una classica giraffa di 198 battute con tutte le sue parti ben proporzionate: più testa che corpo (il doppio), gambe lunghe circa quanto la testa e una coda che non dà troppo nell’occhio. Ma la forma sonata non è sempre così. Haydn l’ha inventata, Mozart l’ha perfezionata, Beethoven l’ha ampliata, completata e poi fatta in tanti piccoli pezzi, Brahms ha raccolto questi pezzi e li ha rimessi insieme, dopodiché i compositori sono dovuti passare a qualcos’altro. In realtà non è proprio esatto dire che Haydn abbia inventato la forma sonata, dal momento che forme simili esistevano anche prima, delle specie di progenitori della forma sonata, come per esempio il preludio BWV 854 del primo libro del Clavicembalo ben Temperato


Forse è un po’ piccolo e non si vede bene (solo 24 battute), ma posso garantire che è una giraffa. Questo però non significa che l’inventore della forma sonata sia Bach o qualcun altro, ma significa semplicemente che non c’è nessun inventore. Non c’è nessuno che una mattina si è svegliato e ha detto “ci sono! esposizione, sviluppo, ripresa e coda!”. Le forme musicali non nascono così, ma emergono un po’ alla volta evolvendosi da qualcosa di preesistente, mutazione dopo mutazione. E comunque, sia detto per inciso, Bach preferiva di gran lunga l’autobus alla giraffa.
Per avere un’idea di come la giraffa si sia evoluta dal classicismo viennese fino agli inizi del romanticismo, può essere utile considerare i primi movimenti di tutti i quartetti di Beethoven. La vita di Beethoven può essere suddivisa in tre periodi: gioventù, maturità e vecchiaia, un po’ come la vita di tutti quanti, solo che Beethoven ha combinato qualcosa in tutti e tre i periodi, a differenza della maggior parte della gente che invece non combina niente in nessun periodo, e anzi spesso riesce addirittura a combinare qualcosa di dannoso, cioè qualcosa che contribuisce significativamente a peggiorare la qualità della vita altrui. Sto naturalmente parlando di Ludovico Einaudi. La figura che segue mostra i primi movimenti di tutti i quartetti che Beethoven ha composto nella sua gioventù.


Benché tutte queste giraffe mantengano una loro classica eleganza, chi più chi meno, tuttavia si possono già notare due importanti mutazioni rispetto alla giraffa di Mozart: l’aumento delle dimensioni generali e, cosa ancora più evidente, l’ingrossamento del corpo. Assomigliano quasi più a mucche che a giraffe. Qui sotto si può apprezzare meglio l’andamento del rapporto corpo/testa partendo dalla giraffa 18/1 fino alla 18/6


Come si vede, a parte la terza giraffa, tutte le altre hanno un corpo che è più grande della metà della testa. In particolare l’ultima ha un corpo che è grande quasi quanto la testa (83 battute a 91) e questa tendenza evolutiva prosegue decisamente con le giraffe della maturità.


Ora, lasciando stare l’apparizione del cappello (l’introduzione), cosa che esisteva già ai tempi di Haydn, l’occhio più attento non mancherà certo di notare in queste giraffe una certa corpulenza. La 59/1, in particolare, è praticamente un’enorme giraffa a dondolo. Ma anche le altre non scherzano, visto che hanno tutte un rapporto corpo/testa circa uguale a uno. E non è tutto, in tre di queste giraffe si può anche notare una nuova e molto poco classica mutazione: le smisurate dimensioni della coda. La 74 ha addirittura una coda più grande della testa (59 a 53), e questo è la prima volta che succede, non so se nella storia della musica, ma di certo nella storia del mio iPod. È come se la testa avesse perso la sua importanza e la cosa interessante non fosse più quello che la giraffa dice, ma tutto quello che riesce a fare con ciò che dice.
Ma queste non sono tutte le giraffe del periodo maturo di Beethoven. All’appello ne manca ancora una, la cosiddetta giraffa seriosa


Cos’è successo? Perché è così piccola? Si sta forse tornando alle buone vecchie proporzioni classiche? Non proprio, visto quello che succede alle giraffe dell’ultimo periodo.


Se già così queste giraffe sembrano strane, si pensi che in realtà lo sono molto di più. Infatti dalla figura si vedono solo le proporzioni fra le varie parti della giraffa, mentre gli sconvolgimenti più grandi avvengono dentro e riguardano lo scheletro: teste con dentro piccoli corpi, corpi che sembrano gambe, code che sembrano gambe e corpi insieme, cappelli fusi col corpo e così via. Esteriormente sembrano giraffe, strane, ma pur sempre giraffe, dentro sono alien.
Poi a un certo punto arriva Brahms e, come si può vedere dal finale del quintetto Op. 34, rimette tutto in ordine.


Più o meno.

DISTRATTI

IL DISEGNO INTELLIGENTE CHE NON SI APPLICA

Molto tempo fa, prima che ci fosse il mondo, che ci fosse lo spazio dove mettere un mondo, che ci fosse il tempo di pensare a dove fare spazio e addirittura prima che ci fosse il fosse, il Signore Dio onnipotente camminava da solo per il nulla, cosa che, essendo il nulla tutto uguale, equivaleva un po’ a stare fermi. Camminava fischiettando e arricciandosi i peli della lunga barba bianca, e qualche volta si fermava a guardarsi un dito, prima con un occhio e poi con l’altro, per vedere l’effetto di parallasse. Tutte attività eseguite ogni volta divinamente e con impareggiabile onnipotenza, ma pur sempre le stesse attività di sempre, tutte ripetute un’infinità di volte. Senza contare che, diceva il Signore fra sé e sé e sé, la cosa della parallasse non è che funzioni molto bene quando lo sfondo è il nulla. Così un giorno, pare fosse un lunedì, Dio creò il mondo. Prese un piccolo pezzettino di nulla, grande più o meno come un bel niente, ci soffiò dentro e all’improvviso, con un grande botto, apparve il mondo. Dio vide che era cosa buona e giusta: le nubi molecolari si addensavano, le stelle trasformavano l’idrogeno in elio, le supernove esplodevano, e ogni tanto la gravità spingeva masse grandi come un mondo dentro il nulla. Ogni cosa era molto spettacolare, ma purtroppo nessuno spettacolo, per quanto spettacolare possa essere, può essere visto più di tre o quattro volte consecutivamente, e Dio, dopo tredici miliardi di anni di repliche, iniziava ad annoiarsi un po’. Allora creò la vita. Prese un pianeta a caso, gli diede una mescolata e dopo pochissimi milioni di anni saltarono fuori il ratto delle chiaviche, la blatta germanica, lo yersinia pestis e tanti altri curiosi animaletti che zampettavano allegramente per il paradiso terrestre. Fra questi il suo preferito era senza dubbio lo scarabeo stercorario: Dio sembrava non stufarsi mai di guardare quel buffo insetto che passava la vita a spingere una palla di merda (si noti che tutte queste cose sono scritte nella Bibbia, solo che le lettere sono disposte in modo diverso). E fu sera e fu mattina e Dio si stufò anche dello scarabeo stercorario. Prima o poi doveva succedere. A questo punto l’unica soluzione era creare un animale che fosse libero di disobbedire. Certo, l’idea di una creatura non completamente sotto il suo controllo gli dava abbastanza fastidio, ma l’alternativa era impiccarsi. Così Dio prese una scimmia, le tolse la coda, le diede un po’ di libero arbitrio e creò la sua nuova creatura prediletta: l’uomo stercorario.


Il tuo nome è Adamo e questa è tua moglie Eva. Andate e fate figli.

Quanti, Signore?

Tanti.

Sì, ma più o meno?

A più non posso.

D’accordo. Eva scrivi: fate figli. Poi?

Fatene altri.

Tutto qui?

Dite ai vostri figli di fare figli, e ai figli dei loro figli di fare altri figli. Voglio figli.

Posso fare una domanda?

Non puoi mangiare la mela.

No, non è questo.

Allora cos’è? Sbrigati, sto iniziando ad annoiarmi.

Mi è passato di mente.


Adamo ed Eva salutarono il Signore e iniziarono subito a fare figli. A lui piaceva concepirli ma odiava accudirli, lei odiava concepirli e anche accudirli, ma almeno quest’ultima cosa poteva farla senza simulare piacere. In pratica erano fatti l’uno per l’altra. Dopo dieci anni avevano già messo al mondo tre figli e otto figlie, di cui due già incinte. Adamo non era certo uno che stava con le mani in mano. Fecero figli su figli e lo stesso fecero i loro figli e i figli dei figli, e alla morte di Adamo ed Eva, per sicurezza, i loro figli decisero di istituire uno speciale ordine di funzionari addetti alla metafisica con la precisa funzione di tramandare di generazione in generazione la volontà del Signore, in modo che nessuno dimenticasse mai il suo volere: fare figli. Mai visto un animale così obbediente. Così in pochissimo tempo, neanche duecentomila anni, la superficie del pianeta si ricoprì di esseri umani. Prima le zone più comode e meglio servite dai mezzi pubblici, poi quelle via via più scomode: montagne, paludi, deserti e tutto ciò su cui fosse possibile avere una copula. Chiunque avesse un minimo di autorevolezza invitava i propri simili a fare figli, e tutti quanti, appena avevano un minuto libero, si precipitavano da qualche parte a fare figli. Intanto la tecnica progrediva e a un certo punto fu possibile fare figli via mail, fare figli in proprio con la bustina e persino far fare figli ai calzini sporchi. Non c’era limite al numero di figli che si potevano fare e alcuni ne avevano così tanti che li surgelavano per i momenti di sterilità. Tutto andò avanti così per secoli finché un giorno, più o meno quando la gente cominciò a cascare in mare, a un uomo venne un dubbio. L’uomo si tirò su velocemente i pantaloni e invocò il nome del Signore, che, per la cronaca, è Alberto. Il Signore apparve con un immenso sbadiglio.


Dimmi.

Signore, perché tutti questi figli?

Niente, ero curioso di vedere cosa succedeva.

QI, QI2, EG E CC

QI
Che cos’è l’intelligenza? Si dice la capacità di risolvere problemi. Bene. Ed è molto importante essere intelligenti? A giudicare da quanto la gente ci tiene si direbbe proprio di sì. Chi ha la sfortuna di fare l’insegnante su questo pianeta sa bene che non si può mai dire a un genitore che suo figlio è poco intelligente, nemmeno quando il suddetto figlio non riconosce la propria immagine allo specchio. I pedagogisti vietano persino di pensare che un bambino possa essere poco intelligente e spiegano che tutti, a loro modo, sono intelligenti, sta all’insegnante capire come facciano a fingere così bene di non esserlo. Come dice Isaac in Manhattan, l’intelligenza è molto sopravvalutata, ed è vero. Se solo la gente se ne rendesse conto potrebbe finalmente rilassarsi un po’ e smettere di fare tutte quelle cose stupide per sembrare intelligente. Io, per esempio, non ho difficoltà ad ammettere che non so fare le operazioni a mente. E non sto parlando di prodotti tensoriali o integrazioni in n dimensioni, sto parlando di addizioni e sottrazioni. Quando ci provo mi compaiono subito le rotelline colorate di OSX negli occhi e devo aiutarmi con le dita, cosa che mi limita molto con i numeri maggiori di dieci.
Se l’intelligenza consiste nel saper risolvere i problemi meglio e più velocemente degli altri, allora uno che riesce a realizzare il suo sogno di fare il Ministro della Repubblica è sicuramente una persona molto intelligente, e se l’intelligenza è la qualità intellettuale più importante di un essere umano, allora un qualsiasi Ministro a caso deve essere per forza una persona straordinaria, ma questo è in disaccordo con i dati sperimentali. È evidente che le capacità intellettuali di una persona non possono essere giudicate solo dalla sua capacità di risolvere i problemi, ma anche dal tipo di problemi che si pone. Che cosa bisogna pensare di uno il cui problema è diventare Ministro? Se un mio amico mi dicesse che vuole diventare Ministro, io penserei che è uno stupido, e se poi un giorno diventasse veramente ministro, non è che per questo mi sembrerebbe meno stupido. Uno stupido che risolve i suoi problemi da stupido resta sempre uno stupido. La verità è che esistono stupidi molto intelligenti. Per questo dico che, per valutare le capacità intellettuali complessive di una persona, bisogna considerare oltre all’intelligenza anche la comprensione, dove “comprendere” non è sinonimo di “capire”, checché ne dica la lingua italiana.
Ma che cos’è esattamente la comprensione? Non è per caso solo un espediente per dimostrare che, anche se non so fare le addizioni, sono comunque straordinariamente sveglio?
Non solo.

QI2
Ogni persona (pi) vive in un suo mondo (Mi) dove si rappresenta come Ioi e in cui ci sono varie cose tutte più o meno collegate fra loro.


L’intelligenza è la capacità di cogliere i nessi fra le cose. Per esempio, una persona intelligente sa che le verze possono produrre fastidiosi spifferi e che mettersi un arbre magique nelle mutande non risolve il problema.
Ci sono cose che appartengono ai mondi di tutti e cose che appartengono solo al mondo di qualcuno. L’intersezione di tutti i mondi (∩Mi) è il mondo comune, quello con il quale tutti hanno più o meno a che fare.


Se la figura qui sopra sembra volgare, non è colpa della figura, è il mondo comune che è volgare. Ovviamente ognuno progetta la propria vita nell’ambito più o meno ristretto del suo mondo personale e le cose che stanno fuori è come se non esistessero. Per p1 le rose canine non esistono, esistono i fiori, ma non le rose canine, mentre per p2 non esiste il macropodus opercularis, al massimo esiste la frittura di pesce. Così quando p1 e p2 vogliono scambiare due chiacchiere si limiteranno a parlare di qualcosa che appartenga a ∩Mi.


Che caldo!

Non si respira!

Un caldo così non l’ho mai sentito.

È che non si respira.

Dicono che sia l’estate più calda degli ultimi seimila anni.

Se qui non si fa qualcosa...

Domani sarà anche peggio.

Ormai non sbagliano più, quando dicono che piove...

Piove.

Quando dicono che fa caldo...

Che caldo!

Piovesse almeno!

Che poi non è nemmeno il caldo.

È l’umidità.

Che umidità!

Scusa...

Dimmi.

Non mi ricordo più chi sono io e chi sei tu.


Se l’intelligenza è la capacità di connettere le cose fra loro, la comprensione è la capacità di includerle nel proprio mondo. Comprendere una cosa non significa capirla, ma piuttosto avere la possibilità di capirla. Ognuno esercita la propria intelligenza entro i confini di ciò che ha compreso, quindi si può dire che per capire una cosa bisogna prima averla compresa. Se uno è intelligentissimo, ma nel suo mondo ci sono solo verze, mutande e arbre magique, il margine che ha per destreggiarsi con la sua smisurata intelligenza è abbastanza limitato. È come avere una Porsche e abitare ad Alicudi.
La comprensione di una persona parte sempre dalle cose che le sono più vicine, cioè da se stessa, dai suoi bisogni immediati e dal suo benessere materiale, poi passa a quelle che la riguardano sempre meno direttamente e via via si allarga fino a includere cose anche molto distanti dal proprio entusiasmante ego. Le persone che comprendono poco vivono in mondi piccoli, il cui raggio è stimabile intorno ai due o tre palmi dal naso, e quando nel mondo di una persona ci sono poche cose, queste sono perlopiù quelle che appartengono a ∩Mi. Ciò fa sì che la gente col mondo piccolo abbia desideri comuni, apprezzi le cose che vanno di moda, parli per sentito dire, abbia opinioni banali e racconti un sacco di barzellette. Sono quelli che vanno nei posti dove vanno tutti, a fare quello che fanno tutti e, quando tornano, raccontano le cose che raccontano tutti, parola per parola. Queste persone sono una la fotocopia dell’altra, parlano tutte insieme con la stessa voce e si ammassano sgomitando e calpestandosi. Fra loro ci sono anche persone molto intelligenti, sono quelle che sgomitano e calpestano meglio degli altri. Inoltre più Mi è piccolo, più Ioi sembra grande. Per chi vive in un mondo piccolo tutto quello che c’è è noto e tutto quello che è noto è in relazione diretta con lui, così le persone che comprendono poco tendono inevitabilmente a parlare sempre di sé e sono incapaci di ascoltare. Primo perché sono storditi dalle smisurate dimensioni del proprio Io (dimensioni smisurate solo in relazione alla piccolezza del mondo in cui vivono), secondo perché nel loro mondo ci sono così poche cose che chiunque si rivolga a loro parlerà quasi sempre di qualcosa che non comprendono.
Quindi, per avere una valutazione più veritiera delle capacità intellettuali di una persona (QI2), il QI deve essere pesato con un coefficiente di comprensione (CC), cioè un numero compreso fra 0 e 1 che stimi le dimensioni del mondo della persona in questione (0 se inesistente, 1 se infinito).

QI2 = CC × QI

In questo modo si può avere il caso limite di una persona che capisce tutto (QI=miliardi) ma che non ha niente da capire (CC=0), e che è quindi indistinguibile da uno che non capisce niente (QI=0).

EG
Per esempio, una cosa che mi sono sempre chiesto è questa: come fa una persona intelligente a credere in Dio? Un ente metafisico, atemporale, onnipotente, onnisciente, creatore di tutto e di tutti, che si arrabbia se uno si mette sul pene una guaina di gomma? La risposta che mi sono sempre dato è che non può, chi crede in un Dio così intelligente che fa cose così stupide non è intelligente. Certamente è una risposta che viene spontanea, ma è sbagliata, perché se fosse un problema di intelligenza, allora uno che non si accorge di incongruenze così evidenti dovrebbe essere talmente stupido da radersi con l’affettatrice, entrare e uscire di casa passando per lo scarico del water, guidare la moto col casco alla rovescia e pretendere di far colpo sulla gente dandosi fuoco ai peli del naso. Invece non è così. Tolta la religione, i religiosi sono intelligenti tanto quanto gli altri. Allora si potrebbe pensare che è colpa dell’ignoranza: se uno non sa che sulla Terra esistono migliaia di religioni, alcune persino più assurde della sua e ciononostante seguite altrettanto ciecamente da milioni e milioni di fedeli, è più facile che continui a coltivare la sua spiritualità locale. Certo l’ignoranza aiuta, ma non basta, perché tutti sono più o meno al corrente dell'esistenza del Buddismo, dell’Induismo, dell’Islam, dei tarocchi, eccetera, ma non è che questo faccia loro una grande impressione.


Che cos’hai detto?

Quando?

Luddismo? Bullismo? Lollismo?

Buddismo.

E che cos’è?

È una religione.

Davvero!?

Sì.

Non sapevo che esistessero due religioni!

Dice che tutto è sofferenza, ogni cosa decade e si estingue, e l’Io non esiste.

Mm... mi torna.


Invece non va mai così. I riti degli altri sono sempre superstizioni senza senso, mentre stringersi la mano in chiesa è scambiarsi un segno di pace, mangiare una sottile sfoglia di frumento è ricevere il corpo di Cristo e raccontare le proprie perversioni sessuali a un vecchio chiuso in una cabina di legno è confessarsi. Questo perché la religiosità di una persona non è tanto una questione di intelligenza né di istruzione, quanto di comprensione. Non è che le incongruenze della propria religione non siano capite, non sono proprio nemmeno comprese. Un religioso ha nei confronti di queste incongruenze perlopiù lo stesso atteggiamento che ha nei confronti delle mosche: cerca di scacciarle.
Per chi nasce in Italia, Dio, l’immortalità dell’anima e la verginità della Madonna appartengono a ∩Mi.


Sono cose a cui uno dà importanza di default, non perché le abbia scelte. Si crede in Dio perché ci credono gli altri, senza averlo mai deciso, quasi senza saperlo, e questo non è di per sé stupido. Avere delle convinzioni basate sul sentito dire è normale. Se uno mettesse in discussione ogni volta tutto quanto, impiegherebbe due settimane solo per farsi una pasta coi broccoli. Anche nel Giappone molte persone credono solo per sentito dire: qualcun altro ci è stato e ne parla, Google Maps sostiene che quell’arcipelago a forma di banana si chiami Giappone, il sushi viene spacciato per cibo giapponese, eccetera, e finché nel loro mondo non entra qualcosa di incongruente col Giappone, queste persone non ne metteranno mai in discussione l’esistenza. La stessa cosa vale anche per le religioni, solo che per smettere di credere in Dio o nel Giappone non è sufficiente che un’incongruenza si presenti sulla porta del mondo e suoni il citofono, bisogna anche aprirle. Certo è una scocciatura, è troppo bello starsene chiusi in casa e non rispondere a nessuno, meno che mai a un’incongruenza, una che magari entra in casa con le scarpe sporche e butta all’aria tutto. Purtroppo però è l’unico modo per capire se un’incongruenza è veramente un’incongruenza o solo pubblicità in buca. In poche parole, per darsi una risposta bisogna prima essere disposti a farsi la domanda.
Come fa una persona intelligente a credere in Dio? Non se l’è mai chiesto.

CC
Il QI da solo non serve a niente, è solo un numero da giocare al lotto. Come si è detto, il QI diventa una valutazione attendibile delle capacità intellettuali solo se viene moltiplicato per CC, il coefficiente di comprensione. Quindi se si vogliono quantificare le capacità intellettuali di una persona, è necessario avere un test che stimi anche CC. Naturalmente preparare un test di questo genere va al di là degli scopi di questo blog, tuttavia è possibile farsene un’idea per mezzo di alcune domande qualitative. Per cercare di capire come potrebbero essere queste domande, partiamo dal seguente dato di fatto: le persone tracotanti hanno poca comprensione e più sono tracotanti meno comprensione hanno. Per convincersene è sufficiente tenere presente che la comprensione di un essere umano è fondamentalmente la sua apertura alla possibilità di essere stupido. “Stupido” non in senso clinico, ma in senso esistenziale. Gli stupidi clinici, cioè quelli col cervello difettoso, sono rari e sono persone da compatire. Non c’entrano niente con questo discorso. Generalmente, quando si dice che uno è stupido, si dà sempre per scontato che lo sia nello stesso senso di uno stupido clinico, ma non è così. La stupidità delle persone col cervello che funziona è un modo di essere, non una condizione fisica del cervello. Lo stupido è solo una persona che fa o dice cose stupide ed è stupido solo ed esclusivamente nel momento in cui dice o fa quelle cose. Per esempio, essere convinti di non dire e non fare mai cose stupide è una cosa stupida. È sbagliato pensare, come di solito fanno tutti, che esistano gli stupidi e i non stupidi, perché la stupidità è la condizione originaria e congenita di ogni essere umano, è il suo modo di essere più prossimo, quello che gli viene più spontaneo. Tutti siamo stati, siamo e saremo stupidi, almeno un po’, e l’unica cosa che si può fare è solo cercare di essere il meno stupidi possibile. Che cos’è la vita se non un graduale e continuo liberarsi della propria stupidità? Si nasce che si è dei perfetti stupidi e si dovrebbe sperare di morire un po’ meno stupidi di quando si è nati. Rendersi conto di essere stupidi è una cosa positiva, perché solo chi di tanto in tanto si sente stupido può provare a esserlo di meno.
Ecco quindi alcune domande attraverso cui chiunque può farsi un’idea del proprio CC, basta rispondere con sincerità. Purtroppo c’è l’inconveniente che chi ha una scarsa comprensione è di solito anche poco sincero con se stesso, il che renderebbe il test che segue completamente inutile se non fosse che ho una gran voglia di scriverlo.
Prima domanda: mi è mai capitato di avere torto?
Rispondere al volo “sì, un sacco di volte” non basta. Questo test non si fa fregare così facilmente. Per rispondere bisogna prendere carta e penna e menzionare nel dettaglio tutte le volte in cui si ha avuto torto (quando, dove, come e perché). La quantità di spazio bianco che resterà sul foglio sarà inversamente proporzionale al proprio CC. Importante: il foglio deve essere un A4, non un post-it.
Seconda domanda: conosco qualcuno più intelligente di me?
Rispondere “Einstein” non va bene. Anche rispondere “Einstein, Mozart, Socrate, Shakespeare e tutta la scuola di Francoforte” non va bene. Bisogna dire nomi di persone che si conoscono, gente con cui si ha a che fare più o meno tutti i giorni: amici, parenti, colleghi, vicini di casa, eccetera, meglio se antipatici. Troppo comodo ammettere la superiorità intellettuale di morti illustri, gente che se ne sta al sicuro sottoterra e non dà fastidio a nessuno. Se uno si sente più intelligente di tutti quelli che conosce, i casi sono due: o è effettivamente più intelligente di tutti o è stupido, non ci sono vie di mezzo. Beethoven pensava di essere il musicista migliore del suo tempo e aveva ragione, sarebbe stato stupido da parte sua non pensarlo, ma siccome l’apparizione di un Beethoven sulla Terra si verifica grosso modo due o tre volte al secolo, se uno si crede Beethoven ha ottime probabilità di essere semplicemente uno stupido. Sia chiaro, stupido sempre nel senso eccetera.
Terza domanda: mi sono mai sentito stupido?
Siccome sentire la propria stupidità è fondamentale per poterla superare e progredire verso forme di stupidità sempre meno grossolane, uno che non si è mai sentito stupido è uno che è rimasto esattamente com’era al momento della nascita, cioè un rompicoglioni egocentrico che detta ordini frignando. Rendersi conto di aver detto o fatto qualcosa di stupido dovrebbe essere un momento di festa e bisognerebbe essere per sempre grati a chi ce l'ha fatto notare, invece, cosa assurda, le persone si offendono. Anche far notare un semplice errore di grammatica, cosa che non mette minimamente in discussione l’intelligenza di una persona, è una cosa che fa imbestialire, e inevitabilmente succede che uno lotta con tutte le sue forze per difendere il suo errore. Così inizia la guerra dei dizionari, le discussioni sull’Accademia della Crusca e alla fine, quando proprio deve cedere di fronte all’evidenza che “vai a dritto” è solo un’espressione regionale, se la prende con l’irrazionalità della lingua italiana: “vai a sinistra, vai a destra, vai a dritto. Ovvio, no?”.
Quarta domanda: perché tutto quello che mi riguarda è così interessante?
Questa è una domanda trabocchetto.