Benché poco conosciuto, Federico Smanetti è sicuramente uno dei più rappresentativi poeti italiani del Novecento. Di lui si ricordano soprattutto la raccolta di versi liberi “Briciole di Orzobimbo”, gli “Inni sacri alla nonna da parte di madre” e l’opera spiritualistica “Sporcellana”, scritta sul gesso ortopedico di Claudio, uno che dormiva in treno.
Nasce a Boara Polesine nel 1898, in pieno boom agricolo, e fin da bambino viene impiegato dal padre nel duro lavoro dei campi. È un’esperienza gravosa e sfiancante, ma durante la quale impara ad amare la natura, la semplicità della vita rurale e lo sterco. L’eleganza e la grazia con cui zappa la terra fanno subito intuire l’indole artistica di Federico Smanetti, e qualcuno (Federico Smanetti) inizia a parlare di braccia rubate alla poesia.
Alla morte del padre, nel 1942, decide di approfondire le proprie conoscenze della lingua italiana e si iscrive alle elementari. È a quel periodo che risale la sua prima raccolta: “Pensierini”. In essa si nota già la predilezione per i neologismi, la creatività sintattica e una certa spregiudicatezza con le doppie.
Il suo talento non passa certo inosservato e l’anno seguente pubblica un trittico di elegie sul giornalino della Curia. È vero che si tratta di una pubblicazione con contributo (in natura), ma è comunque importante perché segna ufficialmente l’inizio della sua carriera letteraria. Sono tre componimenti di ispirazione bucolica, misurati e contemplativi, fatti di un lirismo schietto, sommesso, percorso da un impalpabile senso di malinconia. Di seguito riportiamo il più significativo.
CLITURNIA RIBEDONDA (da “Aratri di manzo”, 1943)
Esile ed efebica cliturnia
Svolante su la rocca smerlata
Scivoli lesta negli allori ammainati
La polvere nasosa sfiori ribedonda
Sbriciolata da cedevoli anni di sonno
Persico
Non so che darei per una scodella di brodo
Da questo momento è un susseguirsi di successi e critiche entusiastiche, non solo da parte di se stesso. Nel 1945 ottiene una menzione speciale alla rassegna letteraria di Papozze, nel 1947 viene acclamato al Gran Premio per dislessici di Pettorazza Grimani, e nel 1950 vince il primo premio come miglior travestimento al festival “La poesia è donna”, organizzato in occasione della sagra della faraona a Bagnolo di Po.
Proprio quest’ultimo successo lo convince a trasferirsi stabilmente a Bagnolo di Po. “È un luogo a me assai caro,” scriverà nella sua autobiografia, “inesauribile fonte d’ispirazione, dove la vita scorre placida e silenziosa come il grande fiume Po. Senza contare che qui sono famoso”.
Nonostante le difficoltà economiche e il trauma dell’improvvisa scomparsa di Sorbola, l’amata tartaruga abbaiante, pelosa e a forma di cane, Federico Smanetti continua a dedicarsi alla poesia. Gli anni Sessanta sono il periodo dell’avanguardia, in cui lo Smanetti sperimenta la tecnica della scrittura sotto l’effetto dello zampirone. Ecco un breve ma significativo esempio della produzione Smanettiana di quegli anni.
XXXI modo (dalla raccolta “Cento modi per diventare ricco”, 1969)
Se mi mandi otto mila lire te li investo e poi fra dieci anni facciamo metà a me metà a te e metà ai bambini negri con le mosche se fai diecimila diamo qualcosa anche alle mosche il numero del conto è in quarta di copertina grazie
Ma lo Smanetti non diventerà mai ricco. Non diventerà mai neanche lontanamente benestante, un po’ perché come tutti i poeti è fondamentalmente uno scapestrato bohemien e un po’ perché non venderà mai nemmeno una copia.
Gli ultimi anni sono segnati dalla malattia. La diagnosi è seria e non lascia scampo: egolatria. Sono anni di sofferenza e isolamento in cui viene assistito da Maria, un elegante fermaporta in ottone che gli starà vicino fino all’ultimo. Ma nonostante l’infermità, la produzione Smanettiana non si ferma. Quello che segue è uno degli ultimi componimenti, pubblicato sul numero di dicembre del Guerin Sportivo (per errore).
L’eterno ritorno (da “Versi senili”, 1976)
Dove ho messo il mio cappello?
Dimenticato fra vasi di gerani rinsecchiti
Sterili rami supplici protesi verso il niente
Dove ho lasciato i ricordi gioviali
Di anni spesi a scherzare con giumente
Vogliose?
Floride mammelle robusti fianchi corna d’avorio
Non avrò un cappello mai più
Desueto coperchio per cranii svuotati dagli anni
E passeggio famelico abbarbicato sul bastone nodoso
Aspetto un facile successo adagiarsi nelle
Mie
Tasche
Fedrico Smanetti muore nel 1978 per un attacco di autostima.
Nasce a Boara Polesine nel 1898, in pieno boom agricolo, e fin da bambino viene impiegato dal padre nel duro lavoro dei campi. È un’esperienza gravosa e sfiancante, ma durante la quale impara ad amare la natura, la semplicità della vita rurale e lo sterco. L’eleganza e la grazia con cui zappa la terra fanno subito intuire l’indole artistica di Federico Smanetti, e qualcuno (Federico Smanetti) inizia a parlare di braccia rubate alla poesia.
Alla morte del padre, nel 1942, decide di approfondire le proprie conoscenze della lingua italiana e si iscrive alle elementari. È a quel periodo che risale la sua prima raccolta: “Pensierini”. In essa si nota già la predilezione per i neologismi, la creatività sintattica e una certa spregiudicatezza con le doppie.
Il suo talento non passa certo inosservato e l’anno seguente pubblica un trittico di elegie sul giornalino della Curia. È vero che si tratta di una pubblicazione con contributo (in natura), ma è comunque importante perché segna ufficialmente l’inizio della sua carriera letteraria. Sono tre componimenti di ispirazione bucolica, misurati e contemplativi, fatti di un lirismo schietto, sommesso, percorso da un impalpabile senso di malinconia. Di seguito riportiamo il più significativo.
CLITURNIA RIBEDONDA (da “Aratri di manzo”, 1943)
Esile ed efebica cliturnia
Svolante su la rocca smerlata
Scivoli lesta negli allori ammainati
La polvere nasosa sfiori ribedonda
Sbriciolata da cedevoli anni di sonno
Persico
Non so che darei per una scodella di brodo
Da questo momento è un susseguirsi di successi e critiche entusiastiche, non solo da parte di se stesso. Nel 1945 ottiene una menzione speciale alla rassegna letteraria di Papozze, nel 1947 viene acclamato al Gran Premio per dislessici di Pettorazza Grimani, e nel 1950 vince il primo premio come miglior travestimento al festival “La poesia è donna”, organizzato in occasione della sagra della faraona a Bagnolo di Po.
Proprio quest’ultimo successo lo convince a trasferirsi stabilmente a Bagnolo di Po. “È un luogo a me assai caro,” scriverà nella sua autobiografia, “inesauribile fonte d’ispirazione, dove la vita scorre placida e silenziosa come il grande fiume Po. Senza contare che qui sono famoso”.
Nonostante le difficoltà economiche e il trauma dell’improvvisa scomparsa di Sorbola, l’amata tartaruga abbaiante, pelosa e a forma di cane, Federico Smanetti continua a dedicarsi alla poesia. Gli anni Sessanta sono il periodo dell’avanguardia, in cui lo Smanetti sperimenta la tecnica della scrittura sotto l’effetto dello zampirone. Ecco un breve ma significativo esempio della produzione Smanettiana di quegli anni.
XXXI modo (dalla raccolta “Cento modi per diventare ricco”, 1969)
Se mi mandi otto mila lire te li investo e poi fra dieci anni facciamo metà a me metà a te e metà ai bambini negri con le mosche se fai diecimila diamo qualcosa anche alle mosche il numero del conto è in quarta di copertina grazie
Ma lo Smanetti non diventerà mai ricco. Non diventerà mai neanche lontanamente benestante, un po’ perché come tutti i poeti è fondamentalmente uno scapestrato bohemien e un po’ perché non venderà mai nemmeno una copia.
Gli ultimi anni sono segnati dalla malattia. La diagnosi è seria e non lascia scampo: egolatria. Sono anni di sofferenza e isolamento in cui viene assistito da Maria, un elegante fermaporta in ottone che gli starà vicino fino all’ultimo. Ma nonostante l’infermità, la produzione Smanettiana non si ferma. Quello che segue è uno degli ultimi componimenti, pubblicato sul numero di dicembre del Guerin Sportivo (per errore).
L’eterno ritorno (da “Versi senili”, 1976)
Dove ho messo il mio cappello?
Dimenticato fra vasi di gerani rinsecchiti
Sterili rami supplici protesi verso il niente
Dove ho lasciato i ricordi gioviali
Di anni spesi a scherzare con giumente
Vogliose?
Floride mammelle robusti fianchi corna d’avorio
Non avrò un cappello mai più
Desueto coperchio per cranii svuotati dagli anni
E passeggio famelico abbarbicato sul bastone nodoso
Aspetto un facile successo adagiarsi nelle
Mie
Tasche
Fedrico Smanetti muore nel 1978 per un attacco di autostima.