L’OZIO NOBILITA L’UOMO

Si dice “l’ozio è il padre dei vizi” e io sono d’accordo, senza approfondire troppo cosa significhi “vizio”.
L’ozio è il poltrire senza scopo su un divano, sotto un ombrellone o su un paio di sci, senza produrre otturazioni odontoiatriche, giochi in scatola, arti della fuga, eccetera, cioè niente di utile, divertente o bello che renda la mia vita più comoda, piacevole e divertente. L’ozio è il non tentare nemmeno di produrre qualcosa del genere, tentativo che già di per sé solleverebbe l’esistenza umana al di sopra del suo congenito squallore. Normalmente, però, si intende per “ozio” qualsiasi attività umana non retribuita, bella o brutta che sia, seria o stupida, utile o inutile. Se nessuno ti paga è ozio, anche se fai suonare la sveglia alle sette. Dedicare qualche ora del proprio tempo a dipingere ninfee è ozio, cioè una cosa insignificante e un po’ ridicola, fare esattamente la stessa cosa al Musée d'Orsay, nello stesso identico modo e con la stessa identica perizia o imperizia, è arte, cioè il massimo. Questo non ha senso.
Di solito uno non giudica una cosa per quello che è, ma per quello che rappresenta per gli altri. Per essere considerati artisti fuori da un museo, bisogna far spogliare almeno un centinaio di donne in mezzo alla strada o infilare un preservativo gigante in testa al Cristo Redentore di Rio de Janeiro. Qualsiasi altra cosa fatta fuori da un museo è cacca. Invece la cacca dentro un museo è arte, per esempio se la fai in un barattolo alla Tate Modern di Londra, te la pagano trentamila euro.
Una volta conoscevo una persona che componeva sigle e jingle per la tv. Guadagnava abbastanza bene, non milioni, ma abbastanza per vivere più agiatamente della media. Ogni volta che andava dal suo dentista, mi diceva, questo gli faceva sempre tantissime domande sul suo lavoro, sul mestiere del compositore e sulla musica in generale: gli chiedeva se fosse meglio Wagner o Brahms, se Bach avesse fatto più figli o fughe e se la sordità di Beethoven fosse dovuta al fracasso delle sue ouverture. Ma la vera ambizione di questa persona non era eccellere nei jingle. Appena aveva un po’ di tempo libero, si chiudeva nel suo studio e componeva concerti per orchestra e pluriball, suite per violino solo (cioè senza esecutore) e fughe a zero voci. Il suo sogno era andare in Antartide ad addestrare un coro di pinguini a cui far eseguire un monumentale mottetto a trentasei voci, cosa che, a suo dire, lo avrebbe consegnato alla storia. Probabilmente si riferiva alla storia della psichiatria, ma questo non conta, quello che conta è che il mottetto di pinguini era veramente suo, mentre le musichette per decantare una ricotta o introdurre una trasmissione sulla prostatite non erano di nessuno. Era lui a comporle, ma non appartenevano veramente a nessuno. Così un giorno decide di mollare tutto e di trasferirsi in Sud America. Là la vita costa poco, mi diceva, e affittando la sua casa in Italia avrebbe potuto vivere di rendita.
Non l’ho più visto né sentito, ma io me l’immagino da qualche parte in Patagonia a insegnare solfeggio ai pinguini. L’ultima cosa che mi ha raccontato prima di partire è la reazione del suo dentista quando gli ha detto che non avrebbe più lavorato per la tv. Era come se gli avesse detto che aveva l’aids: gli ha tolto il tartaro in silenzio, senza dire nemmeno una parola, e per la prima volta si è messo i guanti.
Chi dice che l’ozio è il padre dei vizi in realtà sta dicendo che l’essere liberi è il padre dei vizi. Dedicare qualche ora a un proprio interesse è già visto con sospetto, se poi uno dedica tutta la vita a fare solo ciò che veramente gli interessa è solo un povero cretino. Nemmeno questo ha senso.
Secoli fa era considerato nobile oziare e vergognoso lavorare. Se un aristocratico cadeva in disgrazia e gli toccava lavorare, cercava in tutti i modi di tenerlo nascosto, ora è il contrario, chi ha i milioni fa finta di essere uno che sgobba. Ma anche chi ha solo qualche ora libera, alla fine, direttamente o indirettamente, la dedica al lavoro: si distrae dal lavoro, si riposa per il lavoro, parla di lavoro, lavora.
“L’ozio è il padre dei vizi” significa in realtà “dedicare qualche ora a quello che si è scelto è il padre dei vizi” e questo non ha proprio nessun senso.
Avere il tempo per fare quello che si è scelto dovrebbe essere l’aspirazione di tutti, non una disgrazia. Uno che fa solo ciò che è costretto a fare finisce col diventare identico a milioni di altre persone. È terribile quando uno diventa un clichè: “gran lavoratore padre di famiglia lascia la moglie, due figli e una Mercedes”. Solo quando uno sceglie è se stesso, quando obbedisce non è nessuno.
Per questo sarebbe meglio dire “l’ozio nobilita l’uomo”. Questo ha senso.